giovedì 18 novembre 2010

Il Pd vuol far cadere il governo entro fine mese. Presentata la mozione di sfiducia per Bondi



di Marco Palombi

Far cadere Silvio Berlusconi prima del 14 dicembre, possibilmente tra la fine di novembre e l’inizio di dicembre. Questo è l’unico attuale interesse del Partito democratico, questo l’unico centro d’iniziativa politica, questo l’orizzonte strategico: in un mese, pensano Pier Luigi Bersani e i suoi, il Cavaliere può tirare fuori il coniglio dal cilindro o un numero di vacche sufficiente a sopravvivere dal relativo mercato. Berlusconi, dunque, deve cadere subito e può farlo solo alla Camera: è quindi a Montecitorio che vanno disseminate le trappole parlamentari.

La prima che i democratici sono riusciti a piazzare è la mozione di sfiducia per il ministro della Cultura Sandro Bondi presentata dopo il crollo della Domus dei gladiatori a Pompei: andrà al voto il 29 novembre e tenta assai l’ala più bellicosa dei finiani tipo Fabio Granata (altri, però, vorrebbero uscire dall’aula). Certo un voto del genere sarebbe un atto di sfiducia preventivo da parte di Futuro e libertà, per questo i berluscones sono irritati: così si viola la tregua di un mese per approvare la legge di stabilità, si sono lamentati Cicchitto e Gasparri.

C’era poco fa fare però: i democratici hanno rinunciato ad una loro mozione già calendarizzata - sulle madri in carcere - pur di portare in Aula quella contro Bondi. Intanto al Nazareno cercano di aprire nuove falle nella tenuta della maggioranza: PdL e Lega potrebbero avere problemi sulla Finanziaria, sul federalismo fiscale, sulla mozione contro Masi e Minzolini presentata proprio dei finiani (che va al voto lunedì) e anche sulla riforma dell’Università che occuperà la Camera dalla prossima settimana. Ma ogni giorno ormai, è il ragionamento, può essere quello in cui parte la valanga.

La questione dei tempi, infatti, non è affatto secondaria. Bersani lo spiega da giorni e lo ha fatto anche ieri mattina in una riunione coi numerosi capibastone del Pd. Entro tre settimane verrà definita a Bruxelles la situazione di Irlanda e Portogallo: default o meno, sarà un’altra mazzata per l’Unione e proprio questa ulteriore situazione di eccezionalità potrebbe essere la leva, tolto di mezzo Berlusconi, per imporre al Parlamento, all’opinione pubblica e al proprio elettorato un governo di salute pubblica con parte dell’attuale maggioranza. Ieri il segretario l’ha accennato pubblicamente parlando di “un percorso da iniziare con l’Udc”, ma è chiaro che serviranno anche i finiani e molti altri. Il Pd, infatti, non ritiene praticabile un’opzione tipo Beppe Pisanu per sostituire il Cavaliere: chiunque appoggiasse un governo così precario passerebbe mesi sotto la contraerea mediatica di un Pdl urlante al “ribaltone” e al “tradimento”. Quel che serve il vicesegretario Enrico Letta lo dice da un po’: “La situazione economica è peggio che nel 1993: allora una grande personalità come Ciampi tirò fuori l’Italia dal pantano. Ora c’è bisogno di un super-Ciampi”. All’epoca, per i più giovani, il futuro presidente della Repubblica guidava la Banca d’Italia, esattamente come Mario Draghi oggi.

Questo è l’orizzonte attorno a cui si muove la segreteria Bersani, certa del benestare di Casini e Fini, mentre il governatore - spiega un dirigente del Pd – potrebbe accettare solo se si creassero le condizioni adatte: via Berlusconi e, come detto, la nascita di una nuova, solida maggioranza sull’onda della crisi in Europa. In questo senso persino la scoppola rimediata alle primarie milanesi potrebbe tornare utile ai democratici: la vittoria del vendoliano Pisapia, infatti, lascia una prateria alle velleità di Gabriele Albertini, candidato in pectore del cosiddetto Terzo Polo. In un’ottica da governo di unità nazionale, il Pd potrebbe stringere con Udc e Fli un patto di reciproco sostegno in caso di ballottaggio a Milano. Anche per il prossimo sindaco di Torino il Pd s’attrezza per una soluzione “moderata”: ieri in una riunione si sarebbe deciso di portare alle primarie l’ex ad di Unicredit Alessandro Profumo, che però non ha ancora accettato.

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