UGO MAGRI
Il Cavaliere ancora spera di farcela, anche al fotofinish, pure con due voti di maggioranza. Anzi, perché due? Per tirare avanti con il governo uno solo gli basterebbe, ci metterebbe la firma con entusiasmo... Tutto il groviglio istituzionale di queste ore, con il rischio di scontro tra Camera e Senato, con il presidente della Repubblica costretto a fare da arbitro come su un ring, è figlio di questa ostinata e (perfino nel giudizio di alcuni suoi scudieri) irragionevole resistenza berlusconiana. Condotta sul presupposto di non dover e non poter mollare la presa. Spiega sconsolato chi gli vive al fianco: «Silvio è convinto che, non appena lui cessasse di essere premier, subito qualche pm ne chiederebbe l’arresto,
Sembra enorme, incredibile, pazzesco, e forse neppure Di Pietro arriva ad augurarsi un epilogo così choccante per la democrazia italiana. Eppure, questi sono gli spettri che (sempre nel racconto dei fedelissimi) si agitano nella mente del nostro premier, spingendolo a una sorta di comportamento per lui del tutto innaturale. L’uomo che ha sempre scelto di rivolgersi alla gente, che ha saputo costruire la sua fortuna politica spiazzando i giochi del Sinedrio, eccolo vestire adesso i panni dell’azzeccagarbugli, scartabellare Regolamenti, tuffarsi nelle casistiche parlamentari, perorare la tesi secondo cui la fiducia al governo andrebbe discussa prima al Senato anziché prima alla Camera. Sul presupposto (tutto da dimostrare) che ciò gli permetterebbe di sfangarla non solo a Palazzo Madama, cosa abbastanza probabile, ma pure a Montecitorio. L’impresa è giudicata dai più quasi impossibile. Pare sia rimasto a crederci Berlusconi, unico e solo. Parli con i suoi luogotenenti e ti sussurrano che sperare in un contro-ribaltone è pura follia, mai si sposteranno abbastanza deputati da colmare un gap stimato in 12-13 voti. E poi, soggiungono, «nemmeno ce lo auguriamo, poiché nessun governo potrebbe sopravvivere più di qualche mese se si trovasse in bilico su ogni votazione, se venisse continuamente battuto sulle sue leggi, sui suoi decreti...». Sarebbe solo un supplemento crudele di agonia, un accanimento terapeutico. Meglio farsi bocciare, è il sottinteso, e puntare diritto alle urne, dove le speranze di vittoria del centrodestra restano alte nonostante Fini. Oppure meglio tentare la carta di un nuovo governo, si è sforzato invano di argomentare Bossi ieri pomeriggio nella villa di Arcore (che certi buontemponi Pdl hanno ribattezzato per assonanza Hardcore, ammiccando alle imprese amatorie che lì si sarebbero consumate). Bossi non è isolato. Tra i giovani leoni berlusconiani prevale la tesi che, se il Capo si dimettesse come chiedono Fini e Casini, poi Napolitano non potrebbe che ridargli l’incarico e insomma, tanto varrebbe provarci, alla peggio resterebbe la carta delle elezioni...
Niente da fare, però. Non c’è verso. Il Cavaliere a dimettersi non ci pensa nemmeno lontanamente. Cosicché si va cercando in queste ore un punto di compromesso tra lui, decisissimo a presentarsi in Senato, e Fini, il quale tenta di fucilarlo immediatamente alla Camera. Napolitano, vecchio saggio, pare voglia favorire una soluzione salomonica, tipo: dibattito sulla fiducia contestuale nei due rami del Parlamento. Sarebbe l’«uovo di Colombo» capace di placare tutti, e Gianni Letta («sul Quirinale garantisco io», ripete da giorni) ha fatto da tramite tanto nei confronti del premier, quanto nei riguardi di Schifani. Il quale in teoria potrebbe accordarsi direttamente con Fini, essendo suo dirimpettaio; ma è noto come i due non amino rivolgersi la parola, e dunque metterli in contatto richiede un supplemento di diplomazia.
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