di Peter Gomez
Un’estorsione o se preferite un tentativo di ricatto (riuscito) allo Stato e alle istituzioni. Ecco cosa sono state le stragi di mafia del 1993. Ed ecco perché solo oggi, a 18 anni di distanza, in molti ritrovano brandelli di memoria. Di fronte ai documenti sulla trattativa forniti da Massimo Ciancimino e alle dichiarazioni del pentito Gaspare Spatuzza, ha ormai poco senso negare. Meglio allora minimizzare e dire, come ha fatto l’ex ministro di Grazia e Giustizia, Giovanni Conso, che la decisione di revocare, tra il 4 e il 6 novembre del ‘93, il 41-bis a 140 detenuti del carcere palermitano dell’Ucciardone, fu da lui presa in totale autonomia “senza consultare nessuno”. L’obiettivo, certo, era quello di evitare altre bombe. Ma, sostiene Conso, nessuno oltre a lui, era al corrente della scelta e soprattutto nessuno trattava. Dalla cronache di quei mesi e dalla lettura dei documenti (finora disponibili) emerge però una storia diversa. Non solo a Roma si sapeva benissimo che dietro il tritolo c’era la volontà di Cosa Nostra di spingere la politica a chiudere le carceri di Pianosa e l’Asinara e arrivare alla cancellazione del 41-bis per tutti i detenuti (il carcere duro). Nelle Capitale succedeva di più e di peggio. Qualcuno teneva i boss informati in tempo reale di ciò che si discuteva in segreto negli uffici del ministero di Grazia e Giustizia. E spiegava alla mafia cosa era stato deciso sul 41-bis, un decreto che allora doveva essere rinnovato ogni sei mesi. Anche per questo tutti gli ultimi anni di vita di Gabriele Chelazzi, il pm fiorentino titolare dell’indagine sulle stragi morto nell’aprile del 2003, sono stati dedicati alla ricerca delle talpe istituzionali che dialogavano con Cosa Nostra.
Quello che aveva scoperto, Chelazzi lo riassume in un interrogatorio a Claudio Martelli nel febbraio del
Il 4 giugno ‘93 il vecchio staff del Dap viene silurato. Vicedirettore delle carceri diventa Ciccio Di Maggio (oggi deceduto), un uomo che di revocare il carcere duro non ne vuole sapere. Da quel momento, spiega Chelazzi a Martelli, “lo stato maggiore delle stragi contrappunta le proroghe dei decreti, firmate dal ministro Conso dal 16 luglio in avanti, con una nuova raffica di attentati. Perché, praticamente nelle stesse ore nelle quali erano in corso le no-tifiche, partivano da Palermo i camion con l’esplosivo per Roma e per Milano, perché fosse possibile eseguire gli attentati, come poi è successo, praticamente negli stessi giorni nei quali gli uomini d’onore ricevevano le notifiche delle proroghe”. Qualcuno, insomma, dall’interno delle istituzioni, aveva avvertito Cosa Nostra.
Chelazzi per capire attraverso che canale filtrassero le notizie batte varie strade. Inizialmente pensa al senatore Vincenzo Inzerillo, della sinistra Dc come Mancino, legato ai fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, gli autori materiali delle stragi (la posizione d’Inzerillo sarà però archiviata). Poi ragiona sugli incontri tra l’allora comandante del Ros, Mario Mori e il consigliori di Provenzano, Vito Ciancimino. Mori, anche se Ciancimino era ormai in carcere, un canale con i vertici di Cosa Nostra forse ce l’aveva. E per questo al magistrato appare singolare che, proprio per la mattinata del 27 luglio (a sera ci saranno gli attentati) Mori avesse segnato un appuntamento con Di Maggio accompagnato dalla scritta “per 41-bis”. Il generale voleva forse dirgli che la mafia era pronta a rispondere alle proroghe con il tritolo? Mistero. È certo, solo che Di Maggio, subito dopo le nuove bombe, dice in un’intervista che quella è la risposta alla firma dei decreti. Passano le settimane. I Graviano trascorrono il loro tempo tra
A convincerlo a desistere dalla protesta, secondo i giornali, sarà poi una telefonata proprio con Di Maggio. Arriva novembre e Conso i 41-bis dell’Ucciardone li revoca per davvero. I boss sono allora sempre più convinti che le stragi paghino: per cancellare il carcere duro bisogna continuare con le bombe. Tanto che nel gennaio del ‘94, Giuseppe Graviano vede Spatuzza e gli spiega di voler uccidere allo Stadio Olimpico di Roma 100 carabinieri. “Dobbiamo dare loro il colpo di grazia”, dice. Il telecomando però non funziona. L’autobomba non esplode. E i Graviano vengono poco dopo arrestati a Milano. Così chi nello Stato ha trattato con la mafia non si ritrova sulla coscienza altre decine di morti. Ma a ben vedere, questo, è solo un caso.
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