di Giampiero Gramaglia
Ecco dove ci porta la politica dell’amicone, del prendere sottobraccio l’interlocutore convinti che una pacca sulle spalle e una barzelletta siano il modo vincente di fare politica estera. Dietro il no di Lula all’estradizione del terrorista omicida Cesare Battisti c’è la storia di un Paese e ci sono le vicende umane dell’ormai ex presidente brasiliano e del suo successore Dilma Roussef: il risultato è una decisione sbagliata e inaccettabile, ma in alcun modo inattesa o sorprendente. Eppure quando, a fine giugno, Silvio Berlusconi compì in Brasile una missione in pompa magna – 60 imprenditori al seguito, un giro d’affari da 10 miliardi di euro – la questione non fu praticamente evocata, quasi che la cosa importante fra i due paesi fossero gli affari e l’intesa personale di Mr B e Lula: “Ci siamo capiti bene subito fin dall’inizio” assicurò il Cavaliere, come se davvero lui e uno con la storia del brasiliano possano essere fatti “allo stesso modo”. La vicenda Battisti restò sullo sfondo della visita. Allora, la diplomazia italiana raccontava che Lula non avrebbe deciso e avrebbe lasciato il responso alla Rousseff, una ex guerrigliera, che – chissà mai perché – avrebbe avuto meno remore all’estradizione. E, invece, non avevamo capito un bel nulla.
Adesso, il governo protesta, mette in forse accordi e trattati conclusi da poco senza garanzia alcuna, soprattutto manifesta sdegno e stupore perché le autorità brasiliane esprimono dubbi sull’affidabilità della giustizia italiana. Ma chi è che, giorno dopo giorno, piccona la credibilità della magistratura? E chi è che mette alla berlina la serietà delle istituzioni repubblicane? E siamo proprio sicuri che certi discorsi, risaputi all’estero (mica solo attraverso Wikileaks) giovino all’immagine del Paese? Lula il brasiliano tratta l’Italia da repubblica delle banane. In un gioco degli stereotipi, è il mondo al contrario. Ma è la sorte che ci tocca, andando in giro per il mondo a fare gli imbonitori da fiera.
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