di Enrico Fierro
Che la ‘ndrangheta sia un fenomeno da terroni della peggiore specie, ormai lo pensano solo i dirigenti del Carroccio.
Roberto Maroni si risentì molto quando Roberto Saviano parlò della ‘ndrangheta in Lombardia e chiese una replica televisiva riparatoria anche in nome e per conto dei “milioni di elettori leghisti” offesi dai riferimenti dello scrittore ai rapporti tra boss e politici lombardi.
I fatti e le inchieste delle procure che operano nel Nord si sono incaricati di smentirlo clamorosamente.
La ‘ndrangheta esiste oltre i confini calabresi: se nella Jonica, a San Luca, sulla Tirenica, a Vibo Valentia e a Crotone, sulle Serre e negli anfratti dell'Aspromonte ha i suoi quartier generali, a Milano, in Piemonte e finanche in Emilia Romagna ha le sue filiali, i suoi interessi economici.
Perché “non esiste per chi è ‘ndranghetista un diverso dalla Calabria: tutto il mondo è diviso in Calabria e ciò che lo diverrà”. Analisi suggestiva e reale, quella dei Carabinieri del Nucleo investigativo di Monza, autori del rapporto “Infinito” sulla presenza della ‘ndrangheta in Lombardia. Venti “locali” (si chiamano così le cellule mafiose calabresi sul territorio), 500 affiliati e una “cupola”, destinata a dirigere uomini, affari e rapporti istituzionali fuori dal territorio calabrese. Modernità, potere, rapporti con la politica coniugati con il rigido rispetto delle tradizioni. E così, quando c'è da “festeggiare” un picciotto appena “battezzato”, si organizza una “ricottata”, una mangiata a base di ricotta, siamo a Seregno, ma la cerimonia si svolge con la stessa, identica ritualità di quelle che si fanno a San Luca e dintorni. Mangiate, brindisi, giuramenti di fedeltà col santino che brucia tra le mani e gradi, sempre gli stessi. “Mastro”, “Vangelo”, “picciotto onorato”, “infinito”, “crimine”. Riti che si ripetono da secoli e grattacieli, locali notturni alla moda e compari da onorare scendendo giù nei paesi più sperduti della Calabria. E rapporti con la politica.
IN CALABRIA come in Lombardia, la regola dei boss è sempre la stessa: avere amici nei Comuni, alla Regione, nelle Asl, dovunque si decidano appalti, forniture, affari. Antonio Chiriaco, grande sponsor dell'onorevole Giancarlo Abelli, a Pavia era il ras della sanità. Padre-padrone della Asl, gestiva un budget di 780 milioni. Quando i carabinieri gli mostrarono le trascrizioni della sue telefonate con i boss, lui rispose che si era “ammalato” di ‘ndrangheta. Trovato, Papalia, Sergi, Mancuso, Morabito Bruzzaniti, Palamara. Sono questi i nomi dei “casati” di ‘ndrangheta che a Milano e dintorni controllano tutto, dall'edilizia, all'Ortomercato, dagli appalti per l'Alta Velocità a quelli dell'Expo. E sono loro che riforniscono di cocaina purissima importata dalla Colombia i 120 mila milanesi che ogni notte cercano lo sballo. I leghisti possono ancora illudersi, ma la verità, scrive il professor Enzo Ciconte in “‘Ndrangheta padana” è che “non è vero che al Nord c’è solo
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