Basta modificare alcune leggi per assicurare una vita più dignitosa in cella: dai “pacchetti sicurezza” alle norme su immigrati e droghe alla micidiale ex-Cirielli
di Marco Travaglio
FACCIAMO SCHIFO. Schifo tutti noi che ce ne freghiamo allegramente dei 67 mila detenuti stipati l’uno sull’altro in carceri da terzo mondo, con celle fatiscenti, promiscue, malsane, insicure, disumane, illegali e criminogene, che ne possono ospitare al massimo 44 mila (meno di 3 metri quadrati per ogni detenuto contro i 7,5 imposti dall’Europa). Schifo i turiferari del purtroppo ancora ministro della Giustizia Angelino Alfano, primo responsabile di questo sconcio, essendo fino a prova contraria il Guardasigilli, avendo annunciato non si sa quante volte un fantomatico “Piano carceri”, ovviamente mai visto come ogni altra cosa promessa da questo governo (ricordate le fesserie sul “braccialetto elettronico”? e le “carceri galleggianti in alto mare come in America”? e la promessa alfaniana di “17 nuovi penitenziari con 21 mila nuovi posti entro il 2012”?). Schifo anche l’opposizione che parla d’altro, con la lodevole eccezione di Pannella che però, al momento di proporre soluzioni, non sa far altro che rifugiarsi nella solita amnistia, la trentunesima in 60 anni. Una trovata velleitaria (a due anni o meno dalle elezioni non si troverà mai una maggioranza semplice disposta a votarla, figurarsi quella qualificata dei due terzi prevista dalla Costituzione). E inutile (si svuota il mare col cucchiaino, e dopo qualche mese si ritorna punto e daccapo con le carceri straboccanti). E dannosa (incrementa la convinzione che il crimine paga e il criminale non paga). Anche annunciare, come fanno regolarmente tutti i ministri della Giustizia che si susseguono, da Castelli a Mastella ad Alfano, la costruzione di nuove carceri, di fronte a numeri come quelli di oggi, lascia il tempo che trova: ammesso e non concesso che si bandiscano le gare domani mattina (magari riadattando qualche caserma dismessa o reimpiegando in qualcosa di più utile i 20-30 miliardi che ci costerebbe quel monumento all’inutilità che è il Tav per le merci Torino-Lione in Val di Susa), e che non ci mettano le mani le solite cricche, visti i tempi medi delle opere pubbliche in Italia significherebbe avere qualche cella in più fra 15-20 anni.
Si dirà: allora non c’è nulla da fare. Non è così. Basta cambiare qualche legge a costo zero. E, soprattutto, cambiare filosofia. Per anni, decenni, la cultura della vecchia sinistra ha ripetuto che i detenuti fossero troppi e che si dovessero depenalizzare alcuni reati e ampliare le misure alternative alla detenzione. Poi la pseudocultura berlusconiana s’è saldata con queste campagne, strumentalizzandole per depenalizzare i delitti dei colletti bianchi (quelli in cui l’effetto deterrente del carcere è più efficace perché colpisce i ceti più abbienti) e per varare amnistie e indulti nei quali far rientrare quei delitti. Le famose auto-amnistie e auto-indulti. Nessuno ha voluto fare i conti con la realtà: i detenuti non sono troppi, ma perfettamente in linea con le medie degli altri Paesi europei. Troppi, semmai, in Italia sono i delinquenti e i delitti in rapporto ai posti-cella: non esistono altre democrazie controllate per un quarto dalla criminalità organizzata o inquinate da tassi di corruzione ed evasione fiscale paragonabili ai nostri. Infatti, a cinque anni dal famigerato indulto del 2006, il più ampio e indiscriminato della storia repubblicana (26 mila scarcerati, in parte tornati a delinquere e dunque riarrestati), abbiamo di nuovo le carceri sovraffollate. Perché si continua a non intervenire a valle (sul numero dei posti cella) e nemmeno a monte (sulle cause che producono tanti detenuti).
La domanda è semplice: c’è un’alternativa al condonismo e al perdonismo all’italiana per deflazionare la produzione di detenuti? Qualche anno fa la risposta era negativa, perché non c’era null’altro da depenalizzare né da condonare né da relegare nelle pene alternative, salvo mettere vieppiù a rischio l’incolumità dei cittadini. Ma, da qualche anno a questa parte, la risposta è sì: perché una serie di leggi targate Berlusconi ha aumentato artificiosamente e inutilmente il numero medio dei detenuti. Basterebbe cancellarle con un decreto, e gli ospiti delle patrie galere scenderebbe all’istante di diverse migliaia di unità, quante ne bastano per restituire un po’ di respiro e di dignità umana ai detenuti che devono restare tali. I livelli del sovraffollamento sono tali da configurare quei requisiti di “necessità e urgenza ” che giustificano il ricorso al decreto.
Il sovraffollamento non è solo un problema numerico: è aggravato dalle modalità della detenzione. Tranne rare e lodevoli eccezioni di carceri modello, i detenuti trascorrono 20-22 ore al giorno in una cella dove si fa di tutto: si mangia, si dorme, si fuma, si cucina, si guarda la tv, si va al cesso. La promiscuità e la conflittualità è aggravata dalle difficoltà di coabitazione di persone molto diverse tra loro per età, estrazione, caratura criminale, stato di salute (anche mentale). I servizi peggiorano con l’aumentare dei detenuti, anche quelli essenziali come il cibo o l’acqua per lavarsi. Il continuo taglio governativo delle risorse ha fatto drammaticamente diminuire il lavoro dei detenuti, peggiorare la pulizia delle celle, persino scarseggiare le dotazioni per l’igiene personale. A ciò si aggiungono le carenze strutturali di molti penitenziari (a cominciare dall’assenza di un minimo di manutenzione delle strutture) e i vuoti di organico nel personale, soprattutto nella Polizia penitenziaria, che presto renderanno addirittura inutilizzabili alcune carceri esistenti: per cui i posti cella, anziché aumentare come promesso, diminuiranno ancora.
CARCERE BREVE
È statisticamente dimostrato che l’altissimo numero medio di detenutidi pende non tanto dalle lunghe permanenze in carcere, ma dal continuo turnover di persone che in carcere si fermano pochi giorni per reati minori (furtarelli, liti coi vigili urbani, ingiurie, risse, omissioni di soccorso), o addirittura non-reati (vedi, per esempio, la clandestinità, depenalizzata solo da pochi giorni grazie alla nota sentenza della Corte europea di Strasburgo). Un automobilista che non ha pagato il Telepass, a Roma, è finito dentro per truffa e s’è beccato 7 mesi di reclusione. In un anno, entrano oltre 90mila persone e ne escono quasi altrettante. Di quelle 90 mila, solo 10 mila sono lì per scontare la pena in seguito a condanna definitiva. Gli altri80 mila sono arrestati o fermati o in custodia cautelare (cioè “in attesa di giudizio”, che però in Italia comprende anche i condannati in primo e secondo grado che aspettano
IMMIGRAZIONE
Il 38% dei detenuti nelle nostre carceri sono stranieri, quasi tutti extracomunitari, perlopiù clandestini. La legge Bossi-Fini n. 189 del 2002 non è tutta sbagliata. Ma andrebbe seriamente emendata. Fino a qualche mese fa, quando una direttiva europea ha di fatto depenalizzato la clandestinità e i reati collegati al semplice status di irregolare, l’articolo 15 della legge produceva 10-15 mila nuovi detenuti all’anno: un quinto del totale. Perché prevedeva (e prevede ancora) un meccanismo tra l’ipocrita e il demenziale per l’immigrato che rimane sul territorio dello Stato dopo la notifica dell’ordine di espulsione: il clandestino viene fermato, riceve il foglio di via e di solito non va via; se lo ripescano, lo arrestano per 2-3 giorni e le volte successive lo ributtano in carcere per periodi più lunghi a causa del cumulo pena. Basterebbe espellerlo e il circolo vizioso finirebbe in partenza. Ma i rimpatri non si fanno perché mancano i fondi presso le questure e le prefetture; o meglio, i fondi ci sarebbero, ma vengono sperperati per le espulsioni in via amministrativa, che rendono di più sul piano della propaganda e danno il vantaggio di liberare i Cie (Centri di identificazione ed espulsione) gestiti dal ministero dell’Interno. Risultato: l’immigrato sbarca, viene fermato perché è senza documenti, viene tradotto nel Cie,
Un altro articolo della Bossi-Fini, invece, andrebbe conservato, ma applicato: quello che consente di “perdonare” al detenuto extracomunitario detenuto gli ultimi due anni di pena, sostituendoli con l’espulsione. Attualmente, al Dipartimento amministrazione penitenziaria, si calcola che – su 20 mila detenuti extracomunitari (il 40% del totale) – siano 6-7 mila quelli in condizione di essere espulsi subito col meccanismo appena descritto. Invece restano in cella: un po’ per mancanza di fondi, un po’ per alimentare campagne xenofobe facendo incancrenire un problema risolvibile, un po’ per non turbare il mega-business dei centri di raccolta. Detto per inciso: alcuni detenuti extracomunitari, restando in cella, imparano un lavoro e dunque quando escono sarebbero pronti per inserirsi nella società, ma non possono farlo, perché rimangono irregolari, dunque rientrano nel circuito della clandestinità e spesso della criminalità anche se vorrebbero rigare diritto.
EX-CIRIELLI
La legge n. 251 del 2005 firmata dal senatore di An Edmondo Cirielli (che poi ritirò la firma quando si vide aggiungere nel suo testo la norma che dimezzava la prescrizione per mandare in fumo i processi a Berlusconi e ad altri colletti bianchi), introduce in Italia la regola “americana” della linea dura al terzo reato: si vieta di sospendere l’ordine di esecuzione della condanna per l’accesso alle pene alternative se il condannato ha già sul groppone altre due condanne. Indipendentemente dai reati che ha commesso. Il che, in combinato disposto con
Cancellare la ex-Cirielli (e alcune norme contenute nei vari “pacchetti sicurezza” degli ultimi tre anni, di cui parliamo tra un istante) significherebbe alleggerire di molto il sovraffollamento carcerario. Infatti, su 36 mila detenuti definitivi, circa 18 mila devono scontare pene inferiori ai 3 anni e altri 14 mila pene residue di 1 anno o meno. Ma la legge penitenziaria consente a chi ha meno di 3 anni di pena o di residuo pena di uscire in “affidamento in prova al servizio sociale” o (sotto i 2 anni) agli arresti domiciliari. Perché allora 32 mila persone che dovrebbero perlopiù stare già fuori sono ancora dentro? Perché la ex Cirielli e i pacchetti sicurezza limitano l’accesso alla sospensione della pena e alle misure alternative per i recidivi.
La ex-Cirielli, poi, nella parte misconosciuta dal suo autore, dimezzava la prescrizione per tutti i delitti degli white collars, rendendo praticamente impossibile condannarli in via definitiva anche una sola volta prima che scatti la prescrizione: così si è creata la categoria dei prescritti seriali, che possono delinquere all’infinito perché risultano sempre incensurati, dunque ottengono sempre le attenuanti generiche, dunque strappano sempre la prescrizione. Un esempio dall’alto: il presidente del Consiglio.
DROGHE
Non tutti e 20mila i tossicodipendenti detenuti sono in carcere per uso personale di droga: molti sono spacciatori. Ma ogni anno entrano in carcere, magari per brevi periodi (aumentando la media dei detenuti giornalieri), migliaia di persone arrestate solo perché consumatrici di dosi eccedenti quelle stabilite dalla legge Fini-Giovanardi: la n. 49 del 2006, che equipara le droghe leggere a quelle pesanti. E soprattutto prevede pene spropositate per qualunque reato, anche irrisorio (tipo la coltivazione di marijuana sul balcone), legato alle sostanze psicotrope. Di recente un nordafricano s’è buscato 6 anni di carcere per avere spacciato 4 grammi di eroina, un altro 4 anni per cessione di un grammo di hashish. Una norma decente la conteneva persino la Fini-Giovanardi: quella secondo cui una condanna inferiore ai 6 anni può essere scontata in una comunità di recupero: peccato che di comunità adatte alla bisogna praticamente non ne esistano, così quasi tutti i condannati che potrebbero scontarvi la pena restano in carcere. Domanda: non sarebbe il caso di tornare alla legislazione precedente in materia di droghe? E soprattutto di smetterla di inventarsi sempre nuovi reati, se i tribunali, le procure e le carceri non sono in grado di reggere neppure il peso di quelli davvero gravi? Negli ultimi anni hanno tentato, finora invano, di inventare un reato apposito contro i graffitari (esisteva già il danneggiamento), mentre ce l’han fatta per chi maltratta gli animali (da3 mesi a 1 anno di carcere, mentre chi picchia un uomo rischia solo da 15 giorni a 6 mesi; oltretutto la prescrizione è assicurata, e allora non sarebbero meglio salatissime multe in via amministrativa?). Quel gran genio di Frattini ha proposto addirittura un apposito delitto di “traffico di cuccioli di animali da compagnia”.
PACCHETTI SICUREZZA
A peggiorare ancora la situazione, il governo ha pensato bene di inserire nell’ultimo pacchetto sicurezza firmato dal ministro dell’Interno, Roberto Maroni, un’ulteriore modifica all’articolo 656 del Codice di procedura penale che regola l’esecuzione delle pene detentive: l’ordine di esecuzione della pena, e dunque l’arresto, non può mai essere sospeso per il reato di furto. Per una rapina a mano armata o per uno stupro, ma anche per due furti o due rapine, il carcere può ancora essere sospeso, e per un solo furtarello non più. Che senso ha una simile follia che finisce col punire più severamente il ladruncolo dell’assassino? Già, perché in Italia è più probabile finire in carcere per un furto che per un omicidio. Prendiamo il caso del marito che ammazza la moglie (ma vale anche per la moglie che ammazza il marito), poi si costituisce e confessa, dicendo che la signora l’aveva provocato. Se tutto gli va liscio, c’è pure il caso che non faccia nemmeno un giorno di carcere. Né preventivo né definitivo. Niente custodia cautelare, visto che non c’è pericolo di fuga (si è consegnato), né di inquinamento delle prove (ha confessato), né di ripetizione del reato (aveva una sola moglie e l’ha già fatta fuori, non può ammazzarne un’altra). La pena base di 30 anni e rotti, con le attenuanti generiche prevalenti sulle aggravanti, è 21 anni. Poi c’è l’attenuante della provocazione: si scende a 14. Poi l’attenuante della confessione: si scende a 9 anni e 4 mesi. Se il reo confesso risarcisce il danno ai parenti della signora, altro sconto di un terzo: si scende a 6 anni 2 mesi 20 giorni. A questo punto l’imputato chiede il rito abbreviato, che gli dà diritto a un altro sconto di un terzo: si scende a 4 anni e 2 mesi. Se ha avuto l’accortezza di eliminare la signora prima del 2 maggio 2006, ultimo giorno utile per usufruire dell’indulto, può scalare i 3 anni di sconto e scendere a 1 anno e 2 mesi. Che, essendo ben al di sotto della soglia di tre anni prevista dalla legge penitenziaria per la concessione dell’affidamento in prova al servizio sociale, gli danno diritto a restare libero, salvo qualche visita a un ente benefico e qualche seduta dinanzi all’assistente sociale che deve verificare il suo “reinserimento nella società”. Dalla quale nessuno, peraltro, l’ha mai disinserito. Ovvero: come ammazzare la moglie senza passare dalla prigione. Col vantaggio aggiuntivo di potersi risposare subito dopo l’uxoricidio, senz’attendere i tempi biblici di una causa di separazione o divorzio. È vero che l’uxoricida ha dovuto risarcire il danno ai congiunti della vittima. Ma in caso di separazione e divorzio, avrebbe speso molto di più per assegni di mantenimento, e chissà per quanti anni. Non c’è dubbio: in Italia conviene sparare. Ma guai a rubare: a fronte delle pene irrisorie scontate in concreto dall’omicida, quella per tre furti può arrivare anche ai 20 anni di reclusione. Conseguenze altrettanto paradossali sortisce l’ultimo pacchetto sicurezza a proposito degli stupri: per questo reato, e solo per questo, il gip durante le indagini non può più disporre gli arresti domiciliari, ma soltanto la custodia cautelare in carcere. In caso di omicidio, invece, i domiciliari sono ancora consentiti. Ma l’omicidio è più grave dello stupro. Così il messaggio agli stupratori è chiaro e vagamente criminogeno: se vogliono sperare nei domiciliari, non devono limitarsi a violentare la ragazza, ma la devono pure assassinare.
Bastano questi pochi esempi per dare un’idea dell’impazzimento di un sistema ormai senza bussola. A furia di leggi e decreti e pacchetti varati sull’onda emotiva di questo o quel caso di cronaca, di questa o quella campagna demagogica, abbiamo un sistema repressivo che premia i “delinquenti primari”, cioè i cattivi veri, e penalizza i “secondari”, cioè i poveracci, spalancando le galere ai secondi e chiudendole ai primi. Col risultato di sovraffollare vieppiù le carceri, visto che i delinquenti primari sono molto meno numerosi (ma molto più pericolosi) di quelli secondari. Cose che accadono nel Paese governato da delinquenti primari che legiferano per sbattere dentro i secondari.
Nessun commento:
Posta un commento