di Flavia Perina
Caro direttore, c’eravamo tanto armati per fronteggiare il pericolo terrorista, le masse dell’immigrazione islamica, i fondamentalisti amici di Al Qaeda, e ora scopriamo che a sfasciare le nostre città – Londra oggi come Atene ieri e forse Madrid o Roma domani – non sono folle inneggianti a Maometto ma turbe di saccheggiatori che razziano negozi di bianchi e di neri con la stessa furia. Non rubano farina come i poveri dell’assalto al forno di manzoniana memoria ma l’equivalente contemporaneo del pane quotidiano: tecnologia, iPad, cellulari, videogame. La loro improvvisa comparsa sulla scena britannica segna il fallimento di un’intera generazione di sociologi e analisti, esattamente come il crollo delle borse occidentali suona il de profundis per la credibilità degli economisti e del giornalismo finanziario.
Da dieci anni l’Occidente si svena per combattere esotici nemici esterni e per difendere, all’interno dei confini nazionali, la sua cosiddetta identità culturale, giudicata sinonimo delle conquiste del benessere. Nella vulgata corrente, cui l’Italia filo-leghista è stata forse la massima interprete, erano gli stranieri il principale rischio per il progresso economico del paese, loro i “barbari alle porte” che minacciavano l’occupazione, i conti degli enti locali e dello Stato, l’equa ripartizione di posti di lavoro, servizi, case popolari, asili nido. Appena tre mesi fa l’emergenza nazionale era Lampedusa, con quelle poche migliaia di disgraziati sbarcati nell’isola assurti a simbolo dell’attacco del sud diseredato ai privilegi della nostra democrazia ricca ed evoluta. Adesso, improvvisamente, lo schemino dello scontro di civiltà è stato cancellato con un colpo di spugna. A minacciare il nostro equilibrio e forse la nostra democrazia non sono l’estremismo religioso, le tradizioni tribali importate insieme a braccianti e badanti, il burqa o i turbanti della islamizzazione strisciante, ma un prodotto “doc” dell’Occidente: la crisi dei mercati e l’esplodere di diseguaglianze sociali troppo a lungo negate.
A Palazzo Grazioli, nei vertici sulla manovra prossima ventura, ci si interroga giustamente su quale sia la “piazza” più facile da affrontare: meglio vedere sotto al ministero dell’Economia i pensionati sessantenni o gli invalidi in carrozzella ? Immagino si dia per scontato che i giovani e il mondo della ricerca, tartassati già da anni, ci saranno comunque. E si faranno sentire senza dubbio le donne, magari insieme a quelle centinaia di migliaia di “stagisti” – moderni servi della gleba senza salario – che scopriranno che il percorso per un lavoro retribuito si è allungato indefinitamente. Eccolo il vero scontro di civiltà che covava sotto la cenere e che non abbiamo voluto vedere. È la vecchia questione dei poveri e dei ricchi, del pane e delle rose, del confronto diventato intollerabile tra i garantitissimi e i non garantiti. L’Italia sta peggio di altri perché la classe dirigente del Pdl anziché governare il conflitto lo ha alimentato: gli insulti di Brunetta ai precari, gli inviti di Sacconi a lasciar perdere le ambizioni universitarie e a contentarsi delle scuole professionali , l’aggettivo “comunista” con cui è stata bollata dalla maggioranza ogni manifestazione di protesta, lo slittamento semantico per cui qualsiasi espressione di disagio è diventata “invidia sociale”, hanno gonfiato l’irritazione collettiva e un rabbioso senso di delusione.
Un governo serio affronterebbe tutto ciò offrendo al paese, prima del giro di vite che inevitabilmente arriverà, una sincera autocritica. Tre parole: abbiamo sbagliato, rimedieremo. Qualche segnale simbolico di riconciliazione. Una lettura della crisi un po’ più sofisticata del dito medio di Bossi o delle sparate di Berlusconi sugli orologi rotti della Borsa. Ma non è roba per questo centrodestra, e stavolta ironizzare sulla loro rozzezza non consola: il conto della loro insufficienza lo pagheremo tutti, molto salato.
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