MATTEO CAVALLITO
Gli analisti delle banche e dei governi centrali si affannano a delineare gli scenari che potrebbero verificarsi se la crisi finanziaria del vecchio continente arrivasse a rendere necessaria l'uscita dall'Eurozona di Atene e Roma. Ma le conseguenze e gli effetti sull'intera area rendono indispensabile per tutti che ciò non avvenga, anche se sempre più prendono piede tra i paesi ricchi, gli istinti più nazionalistici
“Se l’Italia fosse costretta ad abbandonare l’euro, non verserei nemmeno una lacrima”. In questa frase ad effetto, pronunciata sabato dall’ex commissario europeo per il mercato interno Frederik Bolkestein, in un’intervista al quotidiano olandese NRC Handelsblad, c’è tutto il senso del conflitto che sta attualmente dilaniando la sempre più martoriata eurozona. Uno scontro ormai senza tregua, malattia forse antica di un continente che si riscopre euroscettico, miope e profondamente nazionalista. La svolta “tecnica” di Italia e Grecia, il cambio di governo in Spagna e i piani di risanamento contabile non sembrano convincere la vecchia classe dirigente dell’Europa che conta. Troppo dirompente l’attacco della speculazione, troppo forte, a questo punto, il senso di panico che coinvolge i mercati. E così, in attesa del super vertice del 9 dicembre, che dovrebbe ridisegnare in parte il ruolo della Bce e sancire il definitivo commissariamento dei Paesi meno virtuosi, ecco farsi avanti con sempre maggiore concretezza quell’ipotesi che solo fino a qualche tempo fa non sarebbe mai stata presa in considerazione. Eurolandia rischia di frantumarsi sganciando una volta per tutte i vagoni più ingombranti. A Germania, Olanda, Francia e soci il compito di garantire il futuro della moneta unica. Ai cugini deboli del mediterraneo, invece, l’incarico di riavviare la stampa delle vecchie lire, dracme, pesetas e affini.
Per ora siamo solo al cosiddetto “worst case scenario”, l’extrema ratio teorica che impegna gli sforzi di immaginazione degli analisti. Solo che adesso siamo andati oltre l’esercizio di stile. Non si tratta più insomma di avanzare un’ipotesi a mala pena teorica, qui, al contrario, si tratta di immaginare un futuro magari ancora lontano ma non per questo sostanzialmente impossibile. Anzi. Secondo la stampa finanziaria internazionale, ormai, le grandi banche di Usa e Gran Bretagna si starebbero preparando a fronteggiare l’ipotesi di un ridimensionamento dell’area euro. Credit Suisse, riferiva ieri Il Sole 24 Ore, attribuisce a questo scenario una probabilità del 10%. I grandi istituti europei e non, è ormai noto, starebbero conducendo alcuni riservatissimi stress test per valutare l’eventuale impatto di una disgregazione monetaria in termini di perdite complessive. Eppure l’Europa non sembra in grado di trovare un’intesa credibile, qualcosa di autenticamente rivoluzionario e dirompente (la famosa Bce come prestatore di ultima istanza) preferendo, al contrario, la solita strada degli scontatissimi proclami patriottici. E così, quando chiedete al vecchio Bolkestein cosa pensi degli eurobond, la risposta risulta ancora una volta estremamente eloquente. “Sono un disastro” spiega, equivalente a “7 miliardi di interessi aggiuntivi che l’Olanda dovrebbe pagare ogni anno”. Appunto.
Gira e rigira, insomma, siamo sempre alla vecchia storia dell’Europa a due velocità, anzi, a due mentalità. Gli italiani e i greci che sprecano, olandesi e tedeschi che pagano per tutti. Fossimo ancora all’alba della crisi il ragionamento funzionerebbe anche. Peccato però che la vecchia strategia del 2010 – prestiti contenuti in cambio di mega austerity – si sia rivelata del tutto fallimentare. I “virtuosi” del Continente lo sanno perfettamente, ma forse ciò che manca loro è la reale consapevolezza delle conseguenze della frantumazione. Prendiamo il caso di Atene. 15 giorni fa, ha ricordato il settimanale tedesco Der Spiegel, gli esperti del Ministero delle finanze di Berlino hanno provato a delineare lo scenario di una sganciamento greco. Nel lungo periodo, si sostiene, l’eurozona potrebbe trarre dei benefici ma i suoi componenti più vulnerabili (Italia e Spagna in testa) si troverebbero a fronteggiare rinnovate difficoltà. Per questo, concludono gli analisti, l’ammontare del fondo salva Stati dovrebbe espandersi almeno fino a 1000 miliardi per poter proteggere efficacemente gli anelli deboli della catena. Un obiettivo non facile se è vero che i costi di finanziamento sostenuti da quest’ultimo sono aumentati a dismisura nel corso degli ultimi 10 mesi (si veda lo spread tra i bond Efsf e il quinquennale tedesco) e la sfiducia degli operatori stranieri continua a calare producendo, come ovvio, una sempre più precipitosa fuga dei capitali. Da inizio luglio a fine settembre, evidenzia Il Sole 24 Ore, l’Italia ha perso in questo modo oltre 43 miliardi di euro.
Anche per questo, oggi, si parla sempre più insistentemente di un coinvolgimento del Fondo monetario internazionale capace di mettere in campo parte delle sue riserve di emergenza. In caso di estrema necessità, è emerso ieri, il Fondo potrebbe addirittura concedere un maxi prestito compreso tra 400 e 600 miliardi all’Italia chiedendo però un interesse del 4-5%. Il guaio, nota qualcuno, è che un simile intervento rischierebbe di essere impraticabile in un Paese impossibilitato a svalutare la propria moneta per alleggerire il proprio debito e rilanciare la competitività sul fronte commerciale.
Il possibile intervento del Fmi, quindi, rappresenta una minaccia implicita alla futura permanenza dell’Italia nel club dell’euro. Per ora siamo ancora alle possibilità remote, ma ciò non toglie che l’ipotesi faccia paura. Il motivo? Semplice, l’impossibilità, di fatto, di tornare indietro senza conseguenze. Un eventuale ritorno alla valuta nazionale si scontrerebbe infatti con il mantenimento di un debito pubblico che resterebbe denominato in euro. In pratica, dunque, l’Italia potrebbe trovarsi con una moneta fortemente svalutata ma anche con una pendenza verso i creditori che, invece di alleggerirsi, finirebbe al contrario per aumentare in rapporto al Pil. Nel lontano 2005, quando la crisi non aveva ancora bussato alla porta, l’Economist ipotizzò che un’uscita dall’euro da parte di Italia e Grecia avrebbe implicato una svalutazione del 27% sulla “nuova” lira e del 49% sulla rientrante dracma. Il valore dei debiti nazionali sarebbe salito rispettivamente dal 108% al 138% del prodotto nazionale per l’Italia e dal 107 al 161% per la Grecia. Cifre che oggi andrebbero ovviamente aggiornate al rialzo. Quel che è certo è che un abbandono della valuta si tradurrebbe in una clamorosa bordata inflazionistica accompagnata da un crescente difficoltà di accesso ai mercati da parte del sistema bancario locale con conseguente ondata di fallimenti degli istituti e delle imprese rimaste senza credito. Un disastro senza eguali, insomma, che l’Europa è chiamata ad evitare a tutti i costi.
1 commento:
Scenari da incubo. Altro che la nostalgia per la liretta!
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