di BARBARA SPINELLI
DA QUANDO s'è inasprito l'attacco alla zona euro, il sociologo Ulrich Beck accusa la Germania di un peccato grave: l'euronazionalismo. Dimentica delle regole democratiche, spesso arrogante, Angela Merkel incarnerebbe "una versione europea del nazionalismo della Deutsche Mark", elevando a dogma continentale la propria cultura della stabilità. Per sua colpa i tecnocrati avrebbero soppiantato i politici europei.
Il veto opposto al referendum sull'austerità, annunciato e poi abbandonato dall'ex Premier Papandreou, testimonierebbe il divario apertosi fra Europa e democrazia. Sono molti gli indizi che sembrano dar ragione a Beck. La Merkel s'ostina a scartare proposte su un sostegno più attivo della Bce ai paesi in difficoltà, nonostante le obiezioni mosse nel suo stesso partito, nell'opposizione, perfino nel Comitato dei cinque Saggi (il Sachverständigenrat) incaricato di guidare i governi tedeschi nelle scelte economiche. Almeno due di loro, Peter Bofinger e Bert Rürup, si battono per una Bce più dinamica e per gli eurobond (non solo al fine di arginare la speculazione; anche per piani di rilancio che gli Stati non possono permettersi ma l'Unione sì). Romano Prodi ha detto, sul Messaggero: "È venuto ora il tempo che la Germania prenda una decisione su come vorrà utilizzare l'immenso potere raggiunto. Lo può usare a servizio di se stessa e dell'Unione europea, o contro se stessa e contro l'Europa". A Berlino, l'economista Henrik Enderlein non è meno duro: la Germania, dice, non ha capito che "l'euro non poteva vivere a lungo senza una comune politica fiscale, economica. Che non era un punto d'arrivo dell'integrazione, ma un punto di partenza".
Eppure la Germania non è stata sempre così riluttante, almeno in teoria. L'idea che l'euro fosse arrischiato, senza unione politica, affiorò più volte in passato - nella stessa Bundesbank, nella Corte costituzionale - e proprio ora che urge avanzare Berlino si ritrae, come inorridita da un ramarro. Iniziare avventure nuove in politica è difficile, quando il popolo impaurito si fa calmare da posizioni che hanno il potere ansiolitico delle ortodossie o dei localismi. Meglio chiudersi in recinti, e dire tanti No.
Alcune denunce di Beck sono diffuse nelle sinistre europee (non la parte del suo discorso favorevole a un'Europa cittadina, sovranazionale), ma molti critici del neo-nazionalismo tedesco non le condividono. Il referendum greco è da questi ultimi disapprovato non perché troppo democratico, ma perché chiedendo ai cittadini di pronunciarsi solo sui tagli di spesa, rischiava di usare il popolo anziché illuminarlo. Nessun cittadino ama i tagli, specie quando i più ricchi sono risparmiati. Se oggi venisse posta la vera questione ai greci ("Volete restare nell'euro?") non è detto che la risposta sarebbe negativa.
Quel che spesso viene trascurato, è che la cultura tedesca della stabilità non è un mostro, anche se radicalmente imperfetta perché orfana di un'autentica scelta europea. È una cultura che ha fatto della Germania l'unica alternativa non spietata ai modelli cinese e americano: è fondata sulla valorizzazione dei sindacati, su misure concordi contro le delocalizzazioni, su salari alti (Federico Rampini lo spiega bene in Alla mia sinistra). Anche la questione demografica, Berlino l'ha affrontata con saggezza: l'abbandono del diritto del sangue, che vietava agli stranieri nati in Germania d'esser cittadini tedeschi (un diritto "folle o assurdo", secondo Napolitano, tuttora valido da noi) risale al 2000. Mario Monti, parlando al Senato il 17 novembre, ha difeso una cultura non esogena della stabilità: "Gli studi dei migliori centri di ricerca italiani avevano individuato le misure necessarie molto prima che esse venissero recepite nei documenti che abbiamo ricevuto dalle istituzioni europee".
I critici più seri del comportamento tedesco sanno queste cose, e sperano dunque che le regressioni siano reversibili. Le lentezze della Merkel sulla Grecia sono state sciagurate (l'anno e mezzo perduto ha scatenato l'odierno marasma) ma sono anche il segno che il male tedesco non è la volontà imperiale, ma l'incapacità di volere. All'ultimo minuto, Berlino non ha mollato Atene. È il motivo per cui non si può escludere una svolta, sia pur timida, al vertice dei capi di Stato o di governo dell'8-9 dicembre. A meno di crisi aggravata, il governo tedesco continuerà a respingere una gestione comune del debito, dunque gli eurobond. A escludere che la Banca centrale europea diventi prestatore di ultima istanza. Ma qualcosa forse si muove: è successo il 23 novembre, quando Berlino ha visto pericolare i propri titoli di Stato, e toccato con mano la realtà. Se l'euro finisce sarà rovina anche per lei, che di una moneta più debole del marco ha profittato esportando al massimo.
La presa di coscienza potrebbe prender forme diverse, più o meno stabili o dannose. Il Cancelliere promette cose "molto impressionanti", e tra queste cose potrebbe esserci il ritorno all'antica convinzione europeista, secondo la quale occorre un'unione federale - specie fra stati dell'euro - perché si possa mettere in comune sforzi, sacrifici. A queste condizioni sì, la solidarietà è accettata: la paura che i soldi siano sperperati si attenuerebbe. Quel che potrebbe ripetersi, è la scommessa fatta con l'euro. Già allora la moneta tedesca era la più forte, e per spingere Kohl a sacrificare il marco sovrano fu necessario dare qualcosa in cambio: nacque così il Patto di stabilità e crescita. Lo stesso andrebbe fatto ora, per convincere la Merkel e il suo popolo. Oggi tocca fare un passo avanti ulteriore: se si vuole un Fondo salva-Stati davvero potente, urge dare alla Germania la garanzia che esso non faciliterà il lassismo e servirà a mettere sotto controllo la politica fiscale ed economica degli stati, che dovranno quindi rinunciare alla loro sovranità in materia. Tali garanzie dovranno valere anche per Berlino. Dice Alfonso Iozzo, economista e federalista militante: "Jean Monnet direbbe oggi: istituiamo subito un Governo provvisorio dell'Eurozona dotato dei poteri - a carattere federale come nel caso della moneta - per gestire l'Unione Fiscale: un governo che assicuri la stabilità finanziaria dei paesi che avranno così rinunciato alla piena sovranità, e avvii un nuovo ciclo di sviluppo". Non si otterrà questo: ma questo dovrebbe essere l'obiettivo.
La questione della Banca centrale europea prestatore d'ultima istanza è più complessa. Le resistenze non vengono solo da Berlino, ma dalle autorità monetarie europee. La Bce, dicono a Francoforte, è prestatore di ultima istanza nei confronti delle banche, non degli Stati. L'articolo 123 del Trattato di Lisbona vieta a Bce e banche centrali nazionali di prestare direttamente fondi ai governi. Questo significa che esse possono acquistare titoli solo sul mercato secondario, oggi instabile. È quello che la Bce ha fatto in questi mesi, anche se in misura limitata e senza certezze di continuità. L'assenza di certezza dà l'impressione di una Banca non affidabile come la Federal Reserve. I suoi difetti non sono imputabili solo a Berlino, ma difetti restano. La Germania che guida l'Europa è a un incrocio di strade. Può fare o disfare l'Unione. La disfa più che mai, quando sogna un piccolo nucleo di paesi risparmiatori: armato magari di eurobond, isola degli happy few. Sarebbe la soluzione più micidiale: getterebbe nel caos gli stati che usano l'euro, ma fuori dal cerchio magico.
Forse al prossimo vertice capiremo meglio dove voglia andare Berlino: se verso una spaccatura europea o un trattato più federale. Al centro, quella che Schmidt chiamava nel '
(01 dicembre 2011)
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