domenica 18 dicembre 2011

Berlusconi e il voto a maggio I suoi: “Non è mica matto”




UGO MAGRI
E’ convinzione, ai piani alti della Repubblica, che Monti abbia superato un gigantesco scoglio. E dopo il voto sulla manovra ci sia motivo per ben sperare. Fanno da bussola le parole del Presidente. Napolitano liquida («non so come sono andate le cose») la polemica sulle troppe assenze nel voto di fiducia. Devono dispiacere certo, sono un brutto spettacolo. Però guai a perdere di vista la «grande prova del Parlamento». L’uomo del Colle lo sottolinea in quanto l’esito positivo non era per nulla scontato. E se si parla con i protagonisti della maratona a Montecitorio, si coglie lo stesso stupore, quasi incredulità per l’impresa che tanto a destra quanto a sinistra e al centro ritengono di aver compiuto. Confida un autorevole esponente Pd (a patto di non dirne il nome): «Ci siamo trovati a varare i provvedimenti con un governo ancora senza rodaggio e con una maggioranza composta da partiti che fino al giorno prima si coprivano di insulti. Nonostante ciò», segnala questo personaggio di primo piano, «i tre maggiori partiti sono riusciti non solo a varare misure altamente impopolari, ma addirittura a correggere profondamente il decreto sull’Ici e sulle pensioni, con il governo costretto a seguire la sua maggioranza».

Domani la manovra passa in Senato, dove si annunciano nuove proteste della Lega, ulteriori motivi di tensione che la stampa internazionale non si farà sfuggire. Comunque sia, i senatori non toccheranno nemmeno una virgola del decreto, entro venerdì avrà il timbro del Parlamento. E’ stato inaugurato un metodo, e questo metodo a quanto pare funziona. A dare il là sono i «tre tenori» (
Alfano, Bersani, Casini): i capi-partito si parlano, discutono, trovano l’accordo. Quindi tocca ai capigruppo (Franceschini, Cicchitto, Della Vedova) cantare e portare la croce. Sulla manovra ci sono riusciti al punto da indicare certe vie d’uscita allo stesso governo. Fa testo l’episodio capitato martedì, quando la maggioranza decise di sforbiciare gli stipendi agli alti papaveri ministeriali. Scoppiò l’iradiddio, i capi gabinetto entrarono in rivolta. Piombò in Commissione Giarda (ministro per i rapporti col Parlamento e longa manus di Monti): «Questo taglio non si può fare». Franceschini, racconta un testimone, lo guardò perplesso: «In che senso?». «Nel senso che il governo non è d’accordo», rispose secco il ministro. Sguardo d’intesa fra Cicchitto e Franceschini, che a quel punto sorrise: «Bene, vorrà dire che darete parere contrario, e noi lo approveremo lo stesso...». Il taglio ai burocrati è stato varato, così come è passato in Aula un ordine del giorno della Lega su cui il governo si era espresso contro, ma la maggioranza era d’accordo.

C’è assonanza perfino nel linguaggio. Il centrista Rao: «Riprendere l’iniziativa conviene ai partiti e conviene al governo». «Le formule contano poco, l’importante è che il gatto acchiappi i topi», sfoggia una citazione di Mao il berlusconiano Bonaiuti. A proposito del Cavaliere: nulla di più falso che voglia votare a maggio, «mica è matto» giurano i suoi strateghi, «con questi sondaggi sarebbe un massacro». Se Monti non gli piace, Silvio se lo fa piacere. Un attimo prima che il presidente del Consiglio polemizzasse con lui, alla Camera, Berlusconi stava sussurrando ad Alfano: «Ah, se al posto di Tremonti avessimo avuto lui, non ci saremmo trovati in questo guaio...». Perfino dopo che il Professore l’ha bacchettato, Berlusconi è rimasto impassibile. «Non rispondergli male», ha raccomandato al segretario Pdl che stava per prendere la parola. Sintetizza Quagliariello: «Finché farà bene, da noi Monti non dovrà temere nulla». Quanto al Pd, Enrico Letta ricorda che gennaio e febbraio saranno «mesi da brivido» per le aste sui titoli di Stato. Per una resa dei conti, il momento più sbagliato.

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