Lucio Magri
di ADRIANO SOFRI
E DI NUOVO qualcuno, qualche specialista, ci ammonisce: "Non siamo padroni della nostra vita". "Non siamo padroni", questa sì che è una bella espressione, sarebbe piaciuta anche a Lucio Magri. Ma se vogliono metterci in balia di un altro padrone, allora siamo pronti a rubargliela e riprendercela, "la nostra vita". Quando non si sia a questo punto, quando non si voglia pignorarci la vita, lasciamo diritti e doveri ai codici, avere e dare ai registri contabili. Teniamoci la contraddizione. Mi è preziosa la facoltà di scegliere se vivere o morire, e però mi fa disperare e ribellare l'eventualità che una persona che amo scelga di morire. Non solo: nessuna proclamazione sulla virtù del suicidio mi impedirà di desiderare che il mio prossimo improvviso, l'uomo della spalletta del ponte, rinunci al suo salto, e di tendergli una mano perché torni di qua.
Il suicidio è un sublime tema filosofico e un grandioso tema sociologico e statistico, ma è un altro affare nei fatti, e nei fatti i suicidi sono altrettanto diversi quante sono le persone che li compiono. Nei commenti a vicende come questa non vale la pena di attardarsi fra l'uno o l'altro partito preso religioso, che riescono a ripetersi imperterriti nella loro lingua morta. C'è una pena che cambia di colpo le cose, e non è affatto così condizionata dall'una o dall'altra fede, dall'esistenza o dall'assenza di una fede. Il suicidio assistito - prende un suono sindacale, come tutte le formule burocratiche. Ha un risvolto, il suicidio abbandonato, spoliato. Stiamo parlando oggi di un uomo vicino agli ottant'anni, che era andato e tornato, è andato e non è più tornato, dunque era libero. Ne aveva novantacinque Mario Monicelli, che si schiantò davvero come il sarto di Ulm, e non si illudeva affatto di volare.
Ci sono due gruppi nei quali il suicidio infierisce: i giovani, e i carcerati. Mi colpisce un'affinità fra il suicidio degli adolescenti (la loro seconda causa di morte, se non sbaglio, dopo i disastri stradali) e quello dei detenuti che si ammazzano nei primi tempi della loro galera, spesso senza essere stati giudicati. Nella loro primavera, non alla fine di un inverno. La galera è fatta per indurre chi ci incappa (anche i guardiani) alla disperazione e all'insensatezza, dunque all'incombenza e alla tentazione del suicidio, e al tempo stesso è regolata in modo da simulare il divieto del suicidio. Vi tolgono la cintura dei calzoni e dell'accappatoio, il fornellino del gas, i vetri e tutto ciò che taglia. Basta pensare per un momento - immaginarlo, immaginarvisi - a uno che annodi di nascosto i lacci delle scarpe, ammesso che sia riuscito a tenerseli, e scelga con cura il minuto necessario a sventare lo sguardo d'altri in quella ressa, per capire che cos'è un suicidio non assistito. Si chiedono, i giornali, quale ultimo lago svizzero, quale ultimo pensiero abbiano attraversato la mente del morente: nella cella sordida cui alludo ogni energia estrema, ogni ultimo pensiero è riservato a un muro sporco e alla determinazione millimetrica necessaria a farcela. Ma questo non è un ennesimo articolo sul carcere, insinuato surrettiziamente nella commozione per la morte di Magri. Parlo di tutti, dei liberi, e del punto in cui prigionia e libertà si rovesciano l'una nell'altra. Il nervo più profondo del totalitarismo sta nella pretesa capricciosa che le democrazie riservano ai regolamenti penitenziari, salvo trasferirle ai testamenti biologici: di impedirti di vivere e di impedirti di morire. Di renderti impossibile la vita e la morte. Le reti o le barriere piazzate lungo il Ponte di Spoleto o attorno alla Torre di Pisa servono a non sporcare il greto e il selciato, non a dissuadere i suicidi.
La lezione dello stoicismo, gli amici convocati, il convito, la conversazione e il commiato, resta magnifica, ma è davvero distante. Vicina a noi è l'aberrazione dei suicidi-omicidi, questa sì un'epidemia contagiosa e gregaria e orrenda, ebbra dell'illusione di non morire soli e non uccidere soli; ora imprevedibilmente riscattata da gesti oscuri come quello di Sidi Bouzid (la città tunisina dove un ambulante si diede fuoco dando il via alla "rivoluzione dei gelsomini", ndr.). Non si sceglie di morire come per una liberazione: questo è un eufemismo. Si sceglie, o ci si rassegna, a non poter più essere liberati. Che questo venga da una malattia senza riparo e piena di mortificazione, o da un'anima vedova e spezzata, o dall'offesa di una bambina cui siano stati tagliati a forza i capelli, non è questione da dibattito. Né la distinzione fra una malattia "terminale" e una depressione: certo che una depressione si può curare, ma credete che Magri non lo sapesse? Si può volere con ogni fibra di un corpo martoriato la vita fino all'ultimo istante, e si può ripudiarla anche quando si sia un corpo sano.
In ogni caso faremo di tutto perché i nostri cari, e magari il nostro prossimo, restino attaccati alla propria vita. Ma desidereremo una Svizzera per noi e dunque per tutti. La ricetta, "Si sciolgono
Voglio dire un'ultima cosa. Il lusso supremo della civiltà umana sta nel disporre di una propria vita personale, dunque di una propria personale morte. Vite e morti venivano e vengono spazzate e mietute all'ingrosso, senza riguardo all'età - anzi, con una predilezione per i giovani. Quando succede, si può provare a resistere oltre ogni limite immaginato, scampare, e cedere poi quando sia passata la tempesta, e le persone restituite a un loro destino individuale. Améry, Levi... Adesso stiamo pensando a uno di noi, che siamo appena diventati sette miliardi. Questo lusso prezioso è ogni giorno a repentaglio. Nelle altre pagine i titoli sull'euro, su Durban, su Teheran, parlano d'altro, parlano di quell'antico anonimo mercato all'ingrosso delle vite e delle morti.
(01 dicembre 2011)
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