MARIO DEAGLIO
La manovra del governo italiano, che ha ricevuto ieri gli ultimi
ritocchi con il cosiddetto decreto milleproroghe, deve essere inquadrata in una
scena economica internazionale in pieno e inatteso movimento. Tale scena è
dominata da un’altra manovra, di tipo esclusivamente finanziario e di entità
ben maggiore che alleggerisce, almeno temporaneamente, le difficoltà dell’euro.
A effettuarla è stato il neo-presidente della Banca centrale europea (Bce), l’italiano
Mario Draghi. È stata messa a punto
in meno di due settimane dopo il sostanziale fallimento della riunione europea
di Bruxelles dell’8-9 dicembre, segnata dal disaccordo franco-tedesco, da una
nuova caduta dei mercati e da un infittirsi di previsioni infauste per l’euro.
In assenza del consenso politico, Draghi si è avvalso dello statuto della Bce
che, mentre gli impedisce di fare prestiti agli Stati della zona euro, gli
garantisce piena autonomia in molte altre operazioni. Ha quindi messo in piedi,
con estrema rapidità, un gigantesco finanziamento alle banche della zona euro: ha
prestato loro per tre anni - e non per pochi mesi o trimestri come era avvenuto
in precedenza - a un tasso bassissimo (l’1 per cento) la rispettabile somma di 489 miliardi di euro.
Questa cifra enorme è stata «iniettata» in poche ore nel sistema
finanziario europeo, che stava soffocando precisamente per mancanza di
liquidità, messa in mano a oltre cinquecento grandi, medie e medio-piccole
banche europee. Un vero «blitz», una cura «americana», si può dire, per l’area
euro. L’effetto è stato analogo a quello di una bombola d’ossigeno messa a
disposizione di un malato grave con problemi respiratori: un’immediata miglior
capacità di respirare che ha portato la Borsa italiana, come del resto tutte le
Borse europee, a recuperare il 3-4 per cento nell’ultima settimana, pur in un
clima che rimane convulso. Respirare, però, non basta e l’effetto ossigeno,
prima o poi, si attenua, come mostra proprio l’esperienza degli Stati Uniti,
dove le ingenti iniezioni di liquidità sono finora riuscite solo a tenere a
galla, non a rilanciare l’economia. Il «blitz» di Draghi ha quindi avuto
l’effetto di aprire un nuovo gioco, di spostare in parte dai governi alle
banche la responsabilità di sostenere la ripresa ma il successo finale è
tutt’altro che assicurato. Le banche
hanno, infatti, tre modi per impiegare questa liquidità piovuta da Francoforte: possono utilizzarla per consolidare
il proprio capitale - spesso indebolito, specie fuori d’Italia - oppure per
aumentare i prestiti alle imprese, che rischiano di essere strangolate dalla
scarsa liquidità, oppure ancora per ancora rifinanziare i debiti pubblici. Tra
queste tre destinazioni la ricetta ottimale varia da un caso all’altro ma
crescerà ovunque la pressione perché le banche diano la precedenza agli
impieghi interni.
Germania e Francia hanno bisogno, assai più dell’Italia, di
curare le proprie banche, rigonfie di titoli pubblici greci dal dubbio valore
(che potrebbero essere svalutati tra breve provocando estese perdite);
l’Italia, dal canto suo, ha bisogno di sostenere il proprio debito pubblico
assai più di Germania e Francia. L’uso di questi fondi da parte delle banche
italiane per acquisti massicci di titoli pubblici italiani porterebbe a una
riduzione del tasso di interesse che lo Stato italiano dovrà pagare, assicurando
contemporaneamente alle banche sottoscrittrici un buon rendimento; anche sulla
base di questo rendimento si potrebbe attenuare la stretta creditizia sulle
imprese.
Date le enormi dimensioni del debito sovrano, nonché le esigenze
di credito delle imprese e di nuovo capitale di molte banche, la «bombola di
ossigeno» di Draghi probabilmente non sarà però sufficiente e una seconda
«bombola» potrebbe essere necessaria per affrontare il mese di febbraio, vero
«momento della verità» per l’euro e per le politiche economiche dei Paesi di
tutta l’area, quando è in scadenza un’enorme quantità di titoli pubblici,
prevalentemente italiani. Il che va benissimo, purché i governi non usino
questa imprevista possibilità di respirare per snaturare le politiche di rientro
dal deficit decise in sede europea. La conclusione della manovra del governo
Monti, con la sua necessaria severità, può quindi essere interpretata come
l’adempimento di una condizione preliminare affinché, in Italia e in Europa,
l’ossigeno della Bce venga utilizzato bene e il malato prosegua le cure senza
illudersi di essere guarito solo perché la finanza respira un po’ meno peggio. Lo spread italiano che non si abbassa e la perdita del potere
d’acquisto dei salari, resa nota ieri, rivelano la gravità della situazione e
la necessità - non solo italiana - di tagliare il deficit e contemporaneamente
di rilanciare l’economia, un equilibrismo non facile. In ogni caso, nelle prospettive
dell’euro e, più in generale, delle economie europee, grazie alla Bce c’è un
segno positivo che prima non c’era. Per parafrasare Churchill, per la crisi
dell’euro non siamo ancora all’inizio della fine ma forse alla fine
dell’inizio.
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