sabato 24 dicembre 2011

Draghi, una manovra per l'euro




MARIO DEAGLIO

La manovra del governo italiano, che ha ricevuto ieri gli ultimi ritocchi con il cosiddetto decreto milleproroghe, deve essere inquadrata in una scena economica internazionale in pieno e inatteso movimento. Tale scena è dominata da un’altra manovra, di tipo esclusivamente finanziario e di entità ben maggiore che alleggerisce, almeno temporaneamente, le difficoltà dell’euro. A effettuarla è stato il neo-presidente della Banca centrale europea (Bce), l’italiano Mario Draghi. È stata messa a punto in meno di due settimane dopo il sostanziale fallimento della riunione europea di Bruxelles dell’8-9 dicembre, segnata dal disaccordo franco-tedesco, da una nuova caduta dei mercati e da un infittirsi di previsioni infauste per l’euro. In assenza del consenso politico, Draghi si è avvalso dello statuto della Bce che, mentre gli impedisce di fare prestiti agli Stati della zona euro, gli garantisce piena autonomia in molte altre operazioni. Ha quindi messo in piedi, con estrema rapidità, un gigantesco finanziamento alle banche della zona euro: ha prestato loro per tre anni - e non per pochi mesi o trimestri come era avvenuto in precedenza - a un tasso bassissimo (l’1 per cento) la rispettabile somma di 489 miliardi di euro.

Questa cifra enorme è stata «iniettata» in poche ore nel sistema finanziario europeo, che stava soffocando precisamente per mancanza di liquidità, messa in mano a oltre cinquecento grandi, medie e medio-piccole banche europee. Un vero «blitz», una cura «americana», si può dire, per l’area euro. L’effetto è stato analogo a quello di una bombola d’ossigeno messa a disposizione di un malato grave con problemi respiratori: un’immediata miglior capacità di respirare che ha portato la Borsa italiana, come del resto tutte le Borse europee, a recuperare il 3-4 per cento nell’ultima settimana, pur in un clima che rimane convulso. Respirare, però, non basta e l’effetto ossigeno, prima o poi, si attenua, come mostra proprio l’esperienza degli Stati Uniti, dove le ingenti iniezioni di liquidità sono finora riuscite solo a tenere a galla, non a rilanciare l’economia. Il «blitz» di Draghi ha quindi avuto l’effetto di aprire un nuovo gioco, di spostare in parte dai governi alle banche la responsabilità di sostenere la ripresa ma il successo finale è tutt’altro che assicurato. Le banche hanno, infatti, tre modi per impiegare questa liquidità piovuta da Francoforte: possono utilizzarla per consolidare il proprio capitale - spesso indebolito, specie fuori d’Italia - oppure per aumentare i prestiti alle imprese, che rischiano di essere strangolate dalla scarsa liquidità, oppure ancora per ancora rifinanziare i debiti pubblici. Tra queste tre destinazioni la ricetta ottimale varia da un caso all’altro ma crescerà ovunque la pressione perché le banche diano la precedenza agli impieghi interni.

Germania e Francia hanno bisogno, assai più dell’Italia, di curare le proprie banche, rigonfie di titoli pubblici greci dal dubbio valore (che potrebbero essere svalutati tra breve provocando estese perdite); l’Italia, dal canto suo, ha bisogno di sostenere il proprio debito pubblico assai più di Germania e Francia. L’uso di questi fondi da parte delle banche italiane per acquisti massicci di titoli pubblici italiani porterebbe a una riduzione del tasso di interesse che lo Stato italiano dovrà pagare, assicurando contemporaneamente alle banche sottoscrittrici un buon rendimento; anche sulla base di questo rendimento si potrebbe attenuare la stretta creditizia sulle imprese.

Date le enormi dimensioni del debito sovrano, nonché le esigenze di credito delle imprese e di nuovo capitale di molte banche, la «bombola di ossigeno» di Draghi probabilmente non sarà però sufficiente e una seconda «bombola» potrebbe essere necessaria per affrontare il mese di febbraio, vero «momento della verità» per l’euro e per le politiche economiche dei Paesi di tutta l’area, quando è in scadenza un’enorme quantità di titoli pubblici, prevalentemente italiani. Il che va benissimo, purché i governi non usino questa imprevista possibilità di respirare per snaturare le politiche di rientro dal deficit decise in sede europea. La conclusione della manovra del governo Monti, con la sua necessaria severità, può quindi essere interpretata come l’adempimento di una condizione preliminare affinché, in Italia e in Europa, l’ossigeno della Bce venga utilizzato bene e il malato prosegua le cure senza illudersi di essere guarito solo perché la finanza respira un po’ meno peggio. Lo spread italiano che non si abbassa e la perdita del potere d’acquisto dei salari, resa nota ieri, rivelano la gravità della situazione e la necessità - non solo italiana - di tagliare il deficit e contemporaneamente di rilanciare l’economia, un equilibrismo non facile. In ogni caso, nelle prospettive dell’euro e, più in generale, delle economie europee, grazie alla Bce c’è un segno positivo che prima non c’era. Per parafrasare Churchill, per la crisi dell’euro non siamo ancora all’inizio della fine ma forse alla fine dell’inizio.

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