1993, governo Ciampi: la trattativa Stato-mafia porta alla revoca del41-bis per480 mafiosi. 1994: Dell’Utri inventa Forza Italia, i boss votano e fan votare
di Marco Travaglio
1993, FEBBRAIO-MARZO.
Tangentopoli coinvolge all’improvviso l’“uomo nuovo” del Psi e della politica italiana, il Guardasigilli Claudio Martelli, in una vecchia storia degli anni 80, legata al crac dell’Ambrosiano e alla P2: la maxi-tangente pagata da Roberto Calvi, su sollecitazione di Licio Gelli, al Psi di Craxi.
Le improvvise confessioni dell’architetto craxiano Silvano Larini (titolare del conto svizzero “Protezione”) ma soprattutto di Gelli mettono fuori gioco Martelli, che viene indagato e si dimette dal governo il 10 febbraio, sostituito da un tecnico: l’ex presidente della Consulta Giovanni Conso. Il 12 febbraio si riunisce il Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica. E qui – racconterà Niccolò Amato, capo del Dap (cioè direttore delle carceri) – il capo della Polizia Parisi esprime “riserve sull’eccessiva durezza” del 41-bis per i mafiosi detenuti a Pianosa e Asinara. Nei verbali della riunione, però, l’intervento di Parisi non risulta. Anzi, nella successiva riunione del Comitato del 6 marzo, l’addolcimento del 41-bis lo invoca proprio Niccolò Amato, socialista e avvocato difensore di Craxi, citando presunte riserve di Parisi e auspicando un’uscita dall’“emergenza” del dopo-stragi. Sia come sia, uno dei punti qualificanti del “papello” di Riina entra ufficialmente nell’agenda politico-istituzionale.
Nel frattempo Tangentopoli arriva ai vertici di tutti i partiti: i segretari Dc, Psi, Pri, Pli, Psdi coinvolti nella maxi-tangente Enimont, il Pds nelle tangenti rosse di Primo Greganti. Il 2 marzo Amato e Conso tentano di salvare il salvabile con un decreto che depenalizza l’illecito finanziamento ai partiti. Scalfaro però non lo firma e segna la fine del governo Amato, che si dimetterà poche settimane dopo, all’indomani del referendum elettorale.
LA SECONDA TRATTATIVA
1993, aprile-maggio. Il 4 aprile – racconta Ezio Cartotto, il consulente di Dell’Utri che da quasi un anno lavora al nuovo partito Fininvest – viene convocato ad Arcore per una riunione con Berlusconi e Craxi. Lì il Cavaliere comunica ufficialmente la decisione di entrare in politica. Intanto, al posto del governo Amato, s’insediano i “tecnici” del ministero Ciampi, che però, oltre a Conso alla Giustizia, conferma anche il politico Mancino all’Interno. È l’ultimo tentativo di restituire prestigio alle istituzioni. Cosa Nostra riprende subito la strategia stragista, per mettere definitivamente in ginocchio lo Stato e costringerlo a cedere alle proprie richieste. Il 14 maggio, l’attentato a Maurizio Costanzo in via Fauro, nel quartiere romano dei Parioli: per la prima volta Cosa Nostra colpisce fuori della Sicilia. Costanzo, che in quei giorni è fra gli oppositori del progetto Forza Italia dentro il mondo Fininvest, si salva per miracolo. Negli stessi giorni Conso e il Dap revocano, all’insaputa dei giudici e degli italiani, il 41-bis a 140 detenuti “minori”. Provvedimento firmato dal vice di Niccolò Amato, Edoardo Fazioli. Il 27 maggio, preannunciata dal ritrovamento pilotato di un proiettile di mortaio nel giardino di Boboli, la strage di via dei Georgofili, a Firenze, che semina morti e feriti e manda in briciole la Torre dei Pulci, attigua agli Uffizi.
1993, giugno-luglio. Il 2 giugno viene ritrovata una bomba inesplosa in via dei Sabini a Roma, rivendicata dalla “Falange Armata”, ritenuta emanazione dei servizi deviati. Qualche giorno dopo Niccolò Amato viene rimosso dal Dap (tornerà a fare l’avvocato e difenderà, fra l’altro, Vito Ciancimino). Ora sostiene che il suo siluramento fu causato dalla sua linea dura sul 41-bis e ordinato dal capo della Polizia Parisi, che avrebbe attivato contro di lui Scalfaro e Conso. Scalfaro nega tutto: “Non ho alcun ricordo della persona di Amato, non sono neppure in grado di affermare di averlo mai conosciuto”. Ma monsignor Fabio Fabbri, segretario dell’allora ispettore generale dei cappellani delle carceri, monsignor Cesare Curioni, vecchio amico di Scalfaro, testimonia che Scalfaro li convocò entrambi al Quirinale per preannunciare loro la rimozione di Amato, per via delle scortesie che aveva loro inflitto. Anche Gaetano Gifuni, fedelissimo di Scalfaro e segretario del Quirinale, conferma che Amato fu rimosso “sostanzialmente nell’accordo tra il ministro Conso, il presidente del Consiglio Ciampi e il presidente della Repubblica Scalfaro”. Il nuovo direttore delle carceri è un vecchio magistrato, Adalberto Capriotti, amico di Scalfaro. Ma il vero uomo forte del Dap è un altro magistrato proveniente da Milano, Francesco Di Maggio. Il quale però non ha l’anzianità necessaria per ricoprire l’incarico, tant’è che deve intervenire ancora una volta Scalfaro, con apposito decreto del presidente della Repubblica, per nominarlo consigliere della Presidenza del Consiglio e parificarlo ai dirigenti generali dello Stato. Il 26 giugno Capriotti invia a Conso un appunto in cui propone di ridurre del 10 per cento il numero dei detenuti al 41-bis (“Si tratta di soggetti, allo stato 373, di media pericolosità, appartenenti ad organizzazioni criminali nelle quali non hanno rivestito posizioni di particolare rilievo... I decreti relativi a tali detenuti potrebbero, alla scadenza, non essere rinnovati, fatti salvi singoli casi da sottoporre, di volta in volta, all’attenzione dell’onorevole ministro, su segnalazione dell’autorità giudiziaria o del ministro dell’Interno”): un taglio “lineare” assurdo, visto che ciascun detenuto fa storia a sé e va esaminato singolarmente. La proposta, sulle prime, resta lettera morta, tant’è che il 16 luglio Conso proroga altri 240 misure di 41-bis. Ma a fine mese tutto precipita: nella notte del 27-28 luglio Cosa Nostra torna a colpire il patrimonio artistico e religioso, con le bombe simultanee in via Palestro a Milano (padiglione di Arte contemporanea) e alle basiliche del Velabro e di San Giovanni in Laterano a Roma. Con l’aggiunta del celebre black out telefonico a Palazzo Chigi che fa temere il golpe al premier Ciampi. L’indomani si suicida (o viene suicidato) in carcere uno dei personaggi chiave delle stragi del 1992, Antonino Gioè, visitato negli ultimi tempi in carcere da uomini dei servizi segreti e coinvolto nella “trattativa Bellini”. L’11 agosto il boss della camorra Francesco Schiavone detto “Sandokan” scrive a Scalfaro per chiedere la revoca del suo 41-bis: mafia, camorra e ‘ndrangheta concordano i messaggi alle istituzioni sul punto più urgente del papello: il trattamento carcerario dei boss detenuti.
1993, settembre-ottobre. L’11 settembre lo Sco della Polizia invia alla commissione Antimafia una nota riservata sulle stragi della primavera-estate: “Obiettivo della strategia delle bombe sarebbe quello di giungere a una sorta di trattativa con lo Stato per la soluzione dei principali problemi che attualmente affliggono l’organizzazione: il ‘carcerario’ e il ‘pentitismo’”. Le bombe di Firenze, Milano e Roma “non avrebbero dovuto realizzare stragi, ponendosi invece come tessere di un mosaico inteso a creare panico, intimidire, destabilizzare, indebolire lo Stato, per creare i presupposti di una ‘trattativa’, per la cui conduzione potrebbero essere utilizzati da Cosa nostra anche canali istituzionali”. L’allarme trattativa viene ignorato dalla classe politica. E chissà se giunge sul tavolo del ministro Conso, alle prese con la spinosa questione dei 41-bis. Il 21 settembre, altra bomba, stavolta soltanto dimostrativa, sul treno Freccia dell’Etna. In ottobre nasce ufficialmente “Sicilia Libera”, fondata a Palermo dal mafioso Tullio Cannella: l’ennesimo partito secessionista, ultimo nato di una serie di “leghe meridionali” create da personaggi legati a mafie, servizi, eversione nera e logge spurie, alcuni in contatto con emissari della Lega Nord e uno – il principe Napoleone Orsini – in rapporti telefonici con Dell’Utri. Il 17 ottobre viene scarcerato con due anni di anticipo, per presunta buona condotta, Schiavone-Sandokan. Il 30 lo scandalo dei fondi neri Sisde coinvolge Scalfaro e Mancino, accusati (anzi, si scoprirà, calunniati) dall’ex direttore del servizio civile Riccardo Malpica e da vari funzionari infedeli nella logica del “muoia Sansone con tutti i filistei”.
1993, novembre-dicembre. Scalfaro smaschera la manovra dei suoi accusatori con un celebre videomessaggio a reti unificate: “A questo gioco al massacro io non ci sto. Prima hanno provato con le bombe e ora col più ignobile degli scandali”. Insomma denuncia una strategia paragolpista e coordinata da uomini dei vecchi servizi in combutta con chi mette le bombe per destabilizzare le istituzioni e allargare il vuoto politico che qualcuno arriverà a riempire: è il 3 novembre, mancano due mesi allo scioglimento anticipato delle Camere e cinque mesi alle elezioni politiche. Il 5 novembre scade il 41-bis per ben 340 mafiosi in isolamento, anche di grosso calibro. La Procura di Palermo, richiesta di un parere da Capriotti, sollecita il Guardasigilli a rinnovarli tutti: i due procuratori aggiunti di Caselli, Vittorio Aliquò e Luigi Croce, evidenziano “l’inopportunità di eventuali modifiche dell’attuale regime carcerario” ed esprimono “parere favorevole alla sua proroga”. Invece Conso se ne infischia e fa esattamente il contrario: non ne rinnova nemmeno uno. Dirà poi di aver fatto tutto da solo, “chiuso nel mio bunker”, dopo averne parlato col ministro dell’Interno Mancino: “Così evitai nuove stragi. Ma non c'è mai stato alcun barlume di trattativa. Decisi in piena solitudine senza informare nessuno: né i funzionari del ministero, né il Consiglio dei ministri, né il premier Ciampi, né il capo del Ros Mario Mori, né il Dap. Non fu per offrire una tregua, una trattativa, una pacificazione, ma per dare un segnale e vedere di fermare la minaccia di altre stragi. Dopo le bombe del ‘93 a Firenze, Milano e Roma, Cosa Nostra taceva. Riina era stato arrestato, il suo successore Provenzano era contrario alle stragi, dunque la mafia adottò una nuova strategia non stragista”. Ma così, negandola, conferma la trattativa Stato-mafia: come faceva infatti Conso, chiuso nel suo bunker, a sapere che Provenzano era il nuovo capo della mafia ed era contrario alle stragi? E che queste erano finalizzate anzitutto all’ammorbidimento del 41-bis (il papello verrà svelato per la prima volta da Brusca solo nel 1996 e consegnato da Ciancimino jr. solo nel 2010)? Chi è dunque il trait d'union fra gli apparati dello Stato e Cosa Nostra? E poi nel 2003, sentito dal pm fiorentino Gabriele Chelazzi proprio sulla revoca di quei 41-bis, Conso non aveva detto nulla di ciò che oggi ammette, anzi rivendicò la propria inflessibilità anche sul trattamento carcerario ai boss mafiosi. In ogni caso, Mancino nega di aver saputo da Conso del mancato rinnovo dei 41-bis (“lo seppi casualmente da un giornalista”). Poi però ammette di aver saputo anche lui che, in Cosa Nostra, si fronteggiavano un’ala “terroristica” legata a Riina e una più “politica” legata a Provenzano. Peccato che all’epoca queste informazioni fossero tutt’altro che di dominio pubblico (altro che averle “lette sui giornali”, come dicono Conso e Mancino): l’ennesima prova che lo Stato aveva canali diretti con Cosa Nostra. Sia Scalfaro sia Ciampi negano di aver mai saputo quel che aveva fatto il loro ministro della Giustizia. Ma è davvero difficile crederci, vista l’importanza del tema mafia in quei mesi e l’attenzione con cui Scalfaro si occupava del Dap.
Risultato finale: fra l’estate e l’autunno 1993 ben 480 mafiosi (prima 140 poi 340) piccoli e grandi escono dall’isolamento, proprio come chiesto un anno prima da Riina nel papello. Da quel momento, guarda caso, le stragi mafiose s’interrompono. Il progetto di attentato ai carabinieri in servizio presso lo stadio Olimpico di Roma dopo il derby Roma-Lazio (progettato, secondo Spatuzza e Brusca, per punire i carabinieri che “non avevano rispettato i patti”) fallisce per un misterioso guasto tecnico all’innesco dell’autobomba e viene rinviato sine die. Naturalmente nel papello non c’era solo la richiesta di alleggerire il 41-bis: Cosa Nostra non si accontenta di così poco. Ma qui finisce la seconda trattativa, quella dei “tecnici” del centrosinistra Prima Repubblica. E, secondo i pm di Palermo, parte la terza: quella con i fondatori di Forza Italia. Per esaudire altre richieste occorre un nuovo governo politico, anzi una nuova classe politica.
LA TERZA TRATTATIVA
1994. Come raccontano vari collaboratori di giustizia, proprio sul finire del 1993 Provenzano butta a mare il progetto Sicilia Libera (sponsorizzato dai boss Cannella, Bagarella, Brusca e Graviano) e stringe un patto di ferro con Dell’Utri per sostenere Forza Italia alle imminenti elezioni anticipate (27-28 marzo 1994), in vista delle “cose buone per noi” che, secondo Nino Giuffrè, avrebbe promesso il braccio destro del Cavaliere. Patto negato con forza da Dell’Utri e ritenuto dimostrato dai giudici di primo grado che l’han condannato a 9 anni. Ma non da quelli di Appello, che gli hanno inflitto 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa, ma solo fino al 1993, cioè fino a un attimo prima della vittoria di Forza Italia: se Cosa Nostra – sostiene la seconda Corte – appoggiò certamente il partito di Dell’Utri e Berlusconi, non è detto che questi lo sapessero o avessero promesso qualcosa in cambio. Forse furono appoggiati a loro insaputa. Ma la Procura di Palermo la pensa diversamente (infatti ha impugnato in Cassazione la sentenza d’Appello, per far condannare Dell’Utri anche per il periodo “politico” post-1993): infatti ha appena indagato Dell’Utri per la trattativa con Cosa Nostra (la terza, quella del 1993-‘94). L’accusa è di attentato a corpo politico, amministrativo e giudiziario dello Stato: la stessa che vede iscritti sul registro degli indagati Riina, Provenzano, Cinà e i presunti artefici della prima trattativa: Mori, De Donno e Massimo Ciancimino. Resta da inquadrare giuridicamente le posizioni di Berlusconi, che secondo l’accusa avrebbe chiuso la trattativa nel ‘94, indotto o costretto dal fido Marcello: parte lesa del ricatto mafioso o complice dell’“attentato allo Stato” attribuito a Dell’Utri? Per alcuni protagonisti della seconda trattativa, quella del 41-bis del ‘93, c’è invece il rischio concreto della falsa testimonianza.
L’accusa a Dell’Utri si fonda su alcuni dati di fatto obiettivi: come i due incontri con Vittorio Mangano a Milano, negli uffici di Publitalia, annotati dalla segretaria sulle agende del futuro senatore, alle date del 2 e del 21 novembre 1993 (per Dell’Utri e i giudici di Appello, invece, quel Mangano era un omonimo del più noto Vittorio). Ma i collaboratori di giustizia parlano anche di altri successivi incontri fra Dell’Utri e Mangano nel 1994-‘95, durante e dopo il primo governo Berlusconi (caduto il 22 dicembre ‘94).
Poi ci sono le rivelazioni di altri pentiti, da Giuffrè a Spatuzza all’ultimo arrivato, Stefano Lo Verso, già autista di Provenzano, sul presunto patto politico-elettorale stipulato fra Dell’Utri e Cosa Nostra tra il ‘93 e il ‘94. Spatuzza sostiene che il suo capo Giuseppe Graviano gli confidò, a fine ‘93, che le stragi dell’estate non erano cose di mafia, ma di “politica”. E, reincontrandolo al Bar Doney di via Veneto a Roma all’inizio del ‘94, aggiunse: “Quello di Canale5 (Berlusconi, ndr) e il nostro paesano (Dell’Utri, ndr) ci stanno mettendo l’Italia nelle mani”. Pochi giorni dopo, il 26 gennaio, Berlusconi annuncia la sua “discesa in campo”. E l’indomani Giuseppe e Filippo Graviano vengono arrestati a Milano, dove stavano seguendo un giovane calciatore imparentato con mafiosi per procurargli un provino nei pulcini del Milan, provino a cui si interessò personalmente Dell’Utri.
Brusca ricorda che, all’indomani della vittoria di Berlusconi, quando l’Espresso (8 aprile) pubblicò l’ultima intervista di Borsellino ai giornalisti francesi su Mangano, Dell’Utri e Berlusconi, lui spedì Mangano a Milano per lanciare un avvertimento al Cavaliere: “Lo mandai ad avvertire Dell’Utri e Berlusconi, che si preparava a diventare premier, che dovevano scendere a patti e, senza la revisione del maxi-processo e del 41-bis e la fine dei maltrattamenti in carcere, le stragi sarebbero continuate”. L’altro messaggio è più sottile: “Guarda che la sinistra sapeva”. Cioè: se Berlusconi farà qualcosa a beneficio di Cosa Nostra, non incontrerà soverchie opposizioni, perché la mafia sa che dietro la prima trattativa c’era – spiega Brusca – la “sinistra Dc che in quel periodo governava il Paese” ed era dunque ricattabile. Mangano tornò raggiante e annunciò a Brusca la missione compiuta: “Dell’Utri ha detto ‘grazie grazie, a disposizione’”. Insomma Silvio e Marcello “si erano impegnati a soddisfare le nostre richieste”. E la controprova arriva di lì a poco, il 14 luglio 1994, quando il governo Berlusconi vara il decreto Biondi contro la custodia cautelare in carcere, che favorisce non solo i tangentisti, ma anche i mafiosi. Decreto poi ritirato a furor di popolo, ma ripreso come disegno di legge nei mesi seguenti e tradotto in legge nell’agosto ‘95 coi voti di destra e sinistra (contrari Verdi e Lega).
Ed ecco il racconto di Lo Verso: “Provenzano mi confidò che Dell’Utri si era messo in contatto con i suoi uomini e aveva di fatto sostituito l’onorevole Salvo Lima nei rapporti con la mafia. ‘Per questo – aggiunse Provenzano – nel
1995. Racconta il colonnello del Ros Michele Riccio che un mafioso suo confidente, Luigi Ilardo, gli svela di dover incontrare Provenzano il 31 ottobre in un casolare di Mezzojuso (Palermo). Riccio avverte i superiori – sempre secondo il suo racconto, ritenuto credibile dai pm – il nuovo comandante del Ros Mario Mori e il suo braccio destro, colonnello Mauro Obinu, fanno in modo che il blitz fallisca e Provenzano resti libero e latitante. Per quest’accusa Mori e Obinu sono imputati a Palermo per favoreggiamento alla mafia, reato aggravato dalla volontà di favorire Cosa Nostra e dall’aver coronato la trattativa con Provenzano avviata tre anni prima tramite Ciancimino. Resta il fatto che Provenzano, il latitante più ricercato al mondo dopo la cattura di Riina, sarà libero di andare più volte a trovare don Vito, agli arresti domiciliari a Roma (e dunque teoricamente sorvegliato a vista dalle forze dell’ordine), a bordo del suo Maggiolone Volkswagen, sotto le mentite spoglie di “ingegner Lo Verde”. Come se, grazie alla trattativa, fosse diventato un intoccabile.
1996-2011. Negli ultimi 15 anni la mai conclusa, anzi eterna trattativa Stato-mafia ha rifatto capolino infinite volte, sopra e sotto il pelo dell’acqua. I numerosi disegni di legge per la revisione dei processi, la chiusura delle supercarceri di Pianosa e Asinara (1997, centrosinistra), le numerose proposte di abolire l’ergastolo (addirittura approvate per pochi mesi nel 1999, sotto il governo D’Alema), le continue manovre al Dap per favorire la “dissociazione” dei mafiosi a costo zero (contrastate da magistrati coraggiosi come Alfonso Sabella e denunciate ancora di recente dal giudice Sebastiano Ardita), l’indulto Mastella del 2006 esteso ai reati dei mafiosi diversi da quelli associativi (ma compresi per esempio il voto di scambio e i delitti propedeutici alla commissione di quelli più gravi), l’ambigua legge del secondo governo Berlusconi che stabilizza il 41-bisrendendonedifattopiùfacililerevoche,la norma del 2009 che ha svuotato il sequestro dei beni mafiosi prevedendo la possibilità di metterli all’asta (cioè di farli ricomprare dai prestanome dei mafiosi), i tre scudi fiscali sul rientro dei capitali sporchi in forma anonima: sono tutti regali a Cosa Nostra, tentati o realizzati, che autorizzano il sospetto di un terribile “non detto” che attraversa inquinandola tutta la storia della Seconda Repubblica. Come se il papello entrasse, scritto con l’inchiostro simpatico, nei programmi di ogni governo di ogni colore.
Il tutto condito da continui richiami, messaggi e avvertimenti dei boss: dal comizio dalla gabbia di Bagarella sulle “promesse non mantenute” ai messaggi allusivi di Riina sulle “stragi di Stato”, dallo striscione allo stadio di Palermo “Berlusconi dimentica il 41-bis” alle ambiguità dei fratelli Graviano, che giocano al poliziotto buono e al poliziotto cattivo. L’uno, Filippo, dà del bugiardo a Spatuzza; l’altro, Giuseppe, dice di portargli “rispetto” e si riserva eventualmente di parlare quando avrà ottenuto condizioni carcerarie migliori.
Infine, quando Massimo Ciancimino squarcia il velo dell’omertà che copre le tre trattative, è investito da uno scatenamento politico-mediatico che con ogni probabilità lo induce a “suicidarsi” processualmente con il famoso documento falso contro Gianni De Gennaro, screditando così, almeno mediaticamente, tutte le sue rivelazioni riscontrate e le decine di documenti paterni già periziati come autentici dalla Polizia Scientifica. Intanto, mentre i mafiosi e i figli dei mafiosi parlano, decine di politici e “servitori dello Stato” ritrovano improvvisamente la memoria, ricordando cose taciute o negate per quasi vent’anni, ma solo se costretti a parlarne.
Ce n’è abbastanza, in un paese serio o perlomeno decente, per scatenare l’informazione e la politica pulita alla ricerca della verità. E per istruire un grande processo di Norimberga. Non alla mafia, che ha già avuto i suoi. Ma allo Stato.
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