Se l’Europa avanza per spaventi, l’Italia procede per ansie e
furori. Stavolta appaiono più gravi e giustificati del solito. La recessione
potrebbe trasformarsi in una nuova, grande depressione, uno spettro evocato da
Christine Lagarde, direttrice del Fondo Monetario Internazionale. E accadrà, se
accettiamo che la delusione diventi rassegnazione.
L’ultimo furore collettivo risale all’inizio degli anni Novanta: le indagini di Mani Pulite
rivelarono meccanismi nauseanti, destinati a finanziare i partiti e non solo.
Noi italiani mostrammo in molti modi la voglia di cambiare: il tifo calcistico
per i magistrati, i referendum di Mario Segni, l’appoggio alla Lega nascente,
l’entusiasmo per Forza Italia. È andata male. Tutto quello che abbiamo saputo
creare è una Seconda Repubblica velleitaria e costosa, oggi defunta e non
rimpianta.
L’incolpevole pontiere verso il mondo nuovo, allora, fu Carlo Azeglio
Ciampi. Oggi—alla guida di un’Italia confusa ma non (ancora) rassegnata — ci
sono Mario Monti e Giorgio Napolitano. Ma, oggi come allora, il mondo nuovo non
dipende da loro. Dipende da noi. I pontieri costruiscono i ponti, ma sono i
popoli che devono attraversarli.
Il primo passo è un’ammissione: siamo reduci da anni di pigrizia e illusioni. Silvio
Berlusconi è stato il prestigiatore più solerte, ma non l’unico. Il pubblico
gli ha chiesto—tre volte — di presentare il numero. Un modo per assistere,
applaudire o fischiare (dipende): senza prendersi responsabilità.
Ora quello spettacolo è finito: non ce lo potevamo più permettere. Non l’abbiamo
capito da soli, hanno dovuto gridarcelo da lontano. Mario Monti ha fatto più in
un mese che i predecessori in diciassette anni; il suo limite non è aver osato
troppo, ma troppo poco sui costi della politica, le liberalizzazioni e la
crescita. Ma neppure lui potrà avere successo, senza di noi. L’Italia non
cambierà, se non vogliamo che cambi. Se non ci convinciamo di essere attori,
non spettatori.
Se lo faremo, la ricompensa sarà rapida e robusta. Non è una leggenda
auto-consolatoria: abbiamo davvero le risorse caratteriali per tirarci fuori da
questa trincea, e batterci in un mondo difficile. La nostra capacità di
invenzione e di reazione è indiscutibile. La nostra facilità di intuizione e
adattamento è dimostrata quotidianamente da centinaia di migliaia di
connazionali sparsi per il mondo. Perfino il reticolo sociale e familiare che
ben conosciamo può aiutarci a costruire il futuro, dopo averci complicato il
presente. Vorrei che presto, all’estero, scrivessero di noi: When the going
gets tough, the Italians get going. Quando il gioco si fa duro, gli italiani
cominciano a giocare.
Tutto questo però non serve — anzi, diventa un alibi — senza un nuovo patto
nazionale. L’esistenza che abbiamo conosciuto negli ultimi trent’anni, se non
cambiamo, non possiamo più permettercela. Se vogliamo l’istruzione, la sanità,
le pensioni e la qualità di vita cui siamo abituati, dobbiamo lavorare meglio,
lavorare più a lungo e smettere di ingannarci a vicenda.
Diciamolo: 235 miliardi di evasione annuale—otto volte la manovra appena
votata—è una somma sconvolgente. Per coloro che non intendono sconvolgersi,
aggiungiamo: insostenibile.
Un Paese dove ristoratori e gioiellieri dichiarano mediamente 38 e 44 euro di entrate al
giorno; dove chiedere la fattura a un artigiano è un atto di eroismo fiscale (e
dove fare l’artigiano insidiato da norme folli e pagamenti incerti è un eroismo
professionale); dove un terzo delle famiglie controllate si finge povera per
ottenere sconti e benefici; dove solo 9.870 persone dichiarano spontaneamente
più di 200.000 euro l’anno — be’, un Paese così non può andare avanti. Ne
occorre un altro.
Un Paese dove tutti paghiamo (meno) imposte; dove vengano assicurati pagamenti
veloci e giustizia rapida; dove siano chiuse le falle che rischiano di
affondare le nave (dalle municipalizzate a certe aziende sanitarie); dove la
politica, se non riesce a dare il buon esempio, almeno eviti di provocare
disgusto. Un Paese così non è impossibile, ed è alla nostra portata. Basta
rispettarci e incoraggiarci a vicenda, invece di compatirci e deprimerci.
Siamo su un piano inclinato: o si sale o si scende. Voi, dove volete andare?
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