TRENT’ANNI FA LO
SCONTRO TRA NAPOLITANO E BERLINGUER
di Fabrizio d’Esposito
Era il 1981: Berlinguer lanciava la questione morale e nel
Pci il suo principale avversario fu Giorgio
Napolitano. Uno stralcio del racconto di quegli anni, tratto da “Re Giorgio” di Fabrizio d’Esposito, in libreria da oggi.
Berlinguer rilancia la questione morale con
un’intervista destinata a pesare per decenni nel campo della sinistra italiana:
quella rilasciata a Eugenio Scalfari
che compare nel numero di Repubblica del 28 luglio 1981. Il segretario del Pci
denuncia i partiti come “macchine di potere e di clientela”.
Quel giorno Napolitano si trova in Sicilia, e la sua prima
reazione è di telefonare al suo compagno e amico Gerardo Chiaromonte: “Eravamo entrambi sbigottiti – ricorda
Napolitano – perché in quella clamorosa esternazione di Berlinguer coglievamo
un’esasperazione pericolosa come non mai, una sorta di rinuncia a fare politica
visto che non riconoscevamo più alcun interlocutore valido e negavamo che
gli altri partiti, ridotti a ‘macchine di potere e di clientela’, esprimessero
posizioni e programmi con cui potessimo e dovessimo confrontarci”.
Napolitano decide di dare una risposta pubblica a Berlinguer, ma
solamente un mese più tardi, approfittando dell’anniversario della morte di
Togliatti.
La risposta di Napolitano, dunque, esce sull’Unità
del 21 agosto. Il leader della destra migliorista, per attaccare Berlinguer,
usa appunto la lezione di Togliatti all’epoca della nascita del centrosinistra
tra Dc e Psi negli anni Sessanta: “‘Saper scendere e muoversi sul terreno
riformistico’ anziché pretendere di combattere il riformismo con ‘pure
contrapposizioni verbali’ o ‘vuote invettive’”. Per Napolitano, gli scandali e
la corruzione della Dc di Antonio Gava e
Salvo Lima o del Psi di Bettino
Craxi non sono un ostacolo al riformismo
dialogante. È la
stessa logica con cui anni più tardi, da esponente del Pds e poi dei Ds,
propugna la linea dell’inciucio e della collaborazione sulle riforme con
il berlusconismo del Caimano, fatto anche dai vari Previti e Dell’Utri.
LE REAZIONI all’articolo di Napolitano
arrivano nella direzione del Pci del 10 settembre, dopo la pausa estiva. “Nella
relazione introduttiva – racconta il Capo dello Stato – mi si accusò di aver
favorito, con l’espressione di dissensi ‘cifrati’, la campagna avversaria su
una contrapposizione nel gruppo dirigente del partito e l’attacco al suo
segretario, di avere impoverito e forzato il pensiero di Togliatti, di avere
indicato il terreno riformistico quando di riformistico non c’era più
nulla nel Psi”.
Con Napolitano si schierano Bufalini, il sindaco di Roma Luigi Petroselli, Chiaromonte.
Per i miglioristi inizia a maturare l’infamante etichetta non
solo di essere platealmente filosocialisti, ma soprattutto filocraxiani: una specie di male assoluto.
Ma la sponda del Psi, per Napolitano, non è proprio solida. Ne è
la prova, dieci giorni dopo, il 19 settembre, la positiva ma sarcastica
intervista di Claudio Martelli,
vicesegretario del Psi di Craxi, al settimanale l’Espresso.
I difetti dell’indole di Napolitano sono analizzati alla
perfezione: “Napolitano è l’uomo dell’eurocomunismo, del dialogo con la Dc, poi
con il capitalismo illuminato, poi col Psi. Se egli – diceva
Martelli – sia una sorta di ‘passator cortese’ del comunismo italiano o la
punta di iceberg di elettori, quadri, amministratori, sindacalisti comunisti in
transizione verso la socialdemocrazia europea è quanto cercheremo di capire con
tutta la simpatia che merita chi porge la mano aperta e non il pugno chiuso”.
Sempre nel 1981, l’ossessione di Napolitano per il dramma della
sinistra divisa si trasferisce da Botteghe Oscure a Montecitorio: lascia
l’organizzazione del partito e viene eletto capogruppo del Pci alla Camera.
Viene sospettato, ancora una volta, di favorire i socialisti.
In un articolo sull’Unità del 4 gennaio 1984 si difende: “La
funzione di una grande forza nazionale come la nostra non può di norma
consistere nel non far passare i provvedimenti del governo, per quanto da noi
negativamente giudicati; non può essere questo il modo di far valere il nostro
potere contrattuale”.
LA QUESTIONE diventa devastante con il decreto
legge per la riforma della scala mobile: Napolitano lavora per migliorarlo, ma
il 7 giugno il suo amico
Chiaromonte, che è capogruppo al Senato, annuncia il ricorso al referendum (che nel
1985 il Pci perderà).
Quella sera
Berlinguer parla in un comizio a Padova e si sente male. Muore quattro giorni
dopo.
Ricorda Emanuele Macaluso sul Riformista nel 2005: “Napolitano
allora era capogruppo alla Camera e con Formica, capogruppo dei socialisti,
aveva trovato un’intesa per rendere il testo accettabile anche per i comunisti.
Intesa che poi venne mandata all’aria da entrambe le parti. Ma in quel momento
Berlinguer comincia a vedere di cattivo occhio sia Napolitano sia Nilde Iotti, allora presidente della Camera. A Nilde Iotti sembra
rimproverare di tutelare più il governo che il suo partito, mentre su
Napolitano pesa il sospetto di morbidezza per via della sua nota contrarietà
alla linea scelta in quella fase dal Pci, durante la dura battaglia
parlamentare che precedette il referendum. Da lì in avanti i rapporti si
inasprirono a tal punto che quando Berlinguer morì Napolitano aveva già in
tasca la lettera di dimissioni da capogruppo. Una lettera mai recapitata, in
quel funesto 7 giugno 1984.
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