Arrestano i boss,
indagano sulla mafia poi finiscono anche loro nelle inchieste
di Gianni Barbacetto
Il poliziotto al confine tra il bene e il male è un perfetto
personaggio da romanzo. Il commissario parigino Jean-Baptiste Adamsberg narrato da Fred Vargas brancola nel buio e a lungo acchiappa nuvole, prima di
riuscire ad acchiappare i colpevoli. Lo sbirro Fabio Montale creato da Jean
Claude Izzo si aggira in una Marsiglia vischiosa e malavitosa che finisce
per contagiare anche lui. La realtà italiana, però, al solito
supera la fantasia e sono più d'uno i poliziotti in carne e ossa che vengono
accusati di aver oltrepassato quel confine. Di avere fatto patti con il diavolo
di cui erano a caccia.
L'ultimo è Vittorio
Pisani, ex dirigente della squadra mobile di Napoli, l'uomo che ha
catturato i capi di Gomorra, i boss dei Casalesi Antonio Iovine e Michele
Zagaria. Amatissimo
dai suoi agenti, Pisani è stato rinviato a giudizio per rivelazione di segreto, favoreggiamento, abuso d'ufficio e falso. Il nemico giurato dei camorristi e
dei riciclatori ora è accusato di aver favorito i riciclatori. Secondo i pm di
Napoli, Pisani sapeva che Mario Potenza e i suoi figli ripulivano soldi sporchi, ma non è
intervenuto, per fare un favore a un suo amico, l'imprenditore Marco Iorio, gestore di ristoranti e
socio di Potenza. Di più: gli avrebbe rivelato l'esistenza di una indagine su
di lui, fornendogli anche suggerimenti su come modificare gli assetti societari
e far sparire i soldi in Svizzera. Ora sarà il tribunale di Napoli a giudicare,
nel processo che prenderà il via il 24 gennaio, se l'investigatore che ha
sconfitto i Casalesi ha tradito il suo giuramento di fedeltà alla legge.
A Milano, intanto, è aperto da tre anni un
caso che coinvolge uno dei poliziotti più noti della città, Carmine Gallo. Memoria storica
dell'antimafia al Nord, profondo conoscitore delle famiglie della ‘ndrangheta,
Gallo è lo sbirro che ha risolto decine di casi, dal sequestro di Alessandra Sgarella a quello di Cesare Casella, fino all'omicidio di Maurizio Gucci. È lui a raccogliere le
prime confessioni di Saverio Morabito, gran pentito della ‘ndrangheta a
Milano. È lui a riconoscere, seduti ai tavolini di un bar di Buccinasco, nel
marzo 1988, i tre più importanti boss calabresi: Giuseppe Morabito u
Tiradrittu, gran
maestro delle cosche di Africo, Antonio Pelle detto Gambazza, il principe nero di San Luca, ed Antonio Papalia, boss di Platì, referente al Nord della mafia calabrese e
padrone di casa di quel summit storico.
GALLO tre anni fa è entrato in un tunnel di
cui non vede ancora l'uscita: è indagato dalla Procura di Venezia per i suoi
contatti con un informatore, Federico Corniglia, in passato ottima fonte per
districarsi nel vischioso mondo della criminalità e risolvere casi difficili. I
pm veneziani gli contestano l'associazione a delinquere finalizzata al traffico
di sostanze stupefacenti, mentre intanto i criminali veneti che avrebbe
favorito, attraverso Corniglia, sono stati assolti in appello sia dall'accusa
di associazione a delinquere, sia da quella di traffico di droga (per loro
l'accusa si è ridotta a spaccio). Dopo tre anni, lasciata la questura milanese
di via Fatebenefratelli, di cui era uno degli investigatori di punta, ha
voluto tornare a fare lo sbirro di strada, il commissario di periferia. In
attesa di vedersi restituito l'onore.
Tutt'altra storia quella di altri
investigatori ormai inchiodati da sentenze definitive per i loro patti col
diavolo, da Bruno Contrada al generale dei carabinieri Francesco Delfino. Quest'ultimo, che nella sua carriera ha attraversato molte
delle vicende più nere della Repubblica, dalla strage di Brescia al sequestro
di Aldo Moro, è stato infine condannato con sentenza definitiva
per truffa aggravata:
avrebbe approfittato del rapimento dell'amico Giuseppe Soffiantini per truffare alla famiglia la somma di circa
800 milioni di lire, sostenendo falsamente che quei soldi sarebbero stati
impiegati per ottenere la liberazione dell'amico sequestrato. Prima di questo
epilogo, era stato proprio Carmine Gallo a puntare per primo il dito sul
generale: secondo le testimonianze di Saverio Morabito, Delfino avrebbe risolto
brillantemente molti sequestri di persona realizzati in Lombardia negli
anni Settanta, perché sarebbe stato in strettissimo contatto con un uomo della
‘ndrangheta che li organizzava. Ma queste accuse sono state poi archiviate.
Bruno Contrada, invece, ex capo della squadra
mobile di Palermo ed ex dirigente del Sisde (il servizio segreto civile), è
stato condannato a 10 anni di carcere per concorso esterno in associazione
mafiosa. A incastrarlo, le testimonianze provenienti dall'interno di Cosa
nostra di molti collaboratori di giustizia, da Gaspare Mutolo a Tommaso
Buscetta, da Salvatore Cancemi a Giuseppe Marchese. Lo scenario è quello dei rapporti
tra apparati istituzionali e criminalità organizzata: lo stesso scenario in cui
si è mosso Mario Mori, ora sotto
processo per la trattativa mafia-Stato. Nel 1992, dopo la strage in cui morì
Giovanni Falcone, da capo operativo del Ros carabinieri, Mori aprì una delle
trattative con gli uomini di Cosa nostra.
Nei romanzi, il poliziotto che cammina in
equilibrio instabile sul confine tra legalità e illegalità riesce quasi sempre
a salvarsi l'anima. Nella realtà italiana non sempre ce la fa.
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