mercoledì 21 dicembre 2011

Una battaglia di simboli




di Roberta Bortone*

La polemica sull'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori rischia di diventare una sterile battaglia su simboli se non si tengono presenti alcuni elementi di certezza.
Prima di tutto, l'art. 18 (che si applica solo alle aziende con più di 15 dipendenti) non regola i licenziamenti, ma solo le conseguenze del licenziamento che il giudice accerti come illegittimo, cioè privo di qualunque giustificazione o addirittura discriminatorio; in questo caso il datore di lavoro è condannato a considerare come mai risolto il rapporto di lavoro e perciò a reintegrare il lavoratore nelle sue mansioni. Altro elemento da tenere in considerazione è che, quasi sempre, al termine del processo, il lavoratore che abbia vinto la causa preferisce rinunciare a tornare in azienda e incassare l'indennità prevista in questo caso dalla legge.
Fin qui, perciò, l'art. 18 non crea problemi sostanziali. La verità è che la sentenza di condanna dell'imprenditore può arrivare (e spesso arriva) dopo molto tempo, addirittura anni, dal licenziamento e in questi casi il datore di lavoro è condannato a pagare come risarcimento tutte le retribuzioni non versate dal momento del licenziamento fino alla sentenza. È evidente che si tratta di una cifra davvero molto alta – che dipende non dall'art. 18 ma dalla lunghezza dei processi – in grado di mettere in seria difficoltà soprattutto le aziende di piccole/medie dimensioni.
A questo problema si dovrebbero e potrebbero trovare soluzioni condivise ampiamente.
Ma allora, perché continuare ad additare l'art. 18 come causa di rigidità del mercato del lavoro, se la norma si limita ad affermare che il lavoratore licenziato ingiustamente deve poter essere riammesso al lavoro? Perché non discutere finalmente dei problemi concreti abbandonando i vessilli ideologici? Sono convinta che l'Italia ne guadagnerebbe.
   
* Professoressa di Diritto del lavoro nell'Università La Sapienza di Roma

1 commento:

LUIGI A. MORSELLO ha detto...

Viene fatto di chiedersi: ma allora?