CARLO FEDERICO GROSSO
«La Stampa», nei giorni scorsi, ha
avuto il merito di aprire un dibattito sulla qualità dell’attività giudiziaria
e sulla specializzazione in magistratura.
Il problema era stato posto con
forza, mesi or sono, da alcune Procure della Repubblica (Torino, Milano, Palermo), nelle quali operano gruppi specializzati
nel trattare temi delicati (reati economici, inquinamento,
corruzione, colpa medica, mafia). Esse lamentavano il fatto che l’applicazione delle norme che
ponevano limiti alla permanenza dei magistrati in uno stesso ufficio
determinava trasferimenti massicci di pubblici ministeri specializzati, con un
danno evidente per il migliore esercizio dell’attività giudiziaria. E
chiedevano, pertanto, flessibilità nell’applicazione di tali norme in modo da
rendere, quantomeno, compatibile l’efficienza con la rotazione.
Di fronte allo sfaldamento di alcuni
di questi gruppi dovuto alla contemporaneità dei tempi di scadenza di numerosi
magistrati, la questione posta appariva ragionevolissima. Tuttavia, come è
stato chiarito su questo giornale, vi sono esigenze di segno diverso che
inducono a mantenere comunque la turnazione. Se un magistrato permane
troppo a lungo nello stesso ufficio, si è detto, vi è infatti il rischio che si
cristallizzino consuetudini di rapporti non opportune, e si determinino di
conseguenza vischiosità o inquinamenti nell’esercizio dell’attività
giudiziaria, senza che i meccanismi di vigilanza interni alla magistratura
siano in grado di contrastare efficacemente il fenomeno.
Per rimediare alla situazione, senza
alterare le norme che hanno introdotto limiti di tempo alla permanenza negli
uffici giudiziari, perché non affrontare comunque le contingenze valutando caso
per caso le situazioni, ed evitando gli smantellamenti con regole transitorie
che consentano sostituzioni graduali? E perché, a regime, non si potrebbe
salvaguardare l’esigenza di specializzazione con un’organizzazione appropriata
del turnover, garantendo sostituzioni scaglionate che consentano al gruppo di
non perdere la qualificazione complessiva ed ai nuovi arrivati d’impratichirsi
lavorando a fianco dei colleghi già esperti?
D’altronde il magistrato che ha
acquisito esperienze qualificate in un determinato ufficio potrebbe chiedere di
passare ad un ufficio diverso, ma in cui esse siano ugualmente utilizzabili. E
se, davvero, l’esigenza di specializzazione dovesse essere riconosciuta come
uno dei cardini dell’efficienza della giustizia, perché non pensare, in tale
specifica prospettiva, ad una deroga sia pure circoscritta al principio
d’inamovibilità dei magistrati?
Al di là di quanto è emerso nel
dibattito aperto nei giorni scorsi su «La Stampa», il tema della qualificazione
professionale dei magistrati pone, d’altronde, ulteriori questioni e sollecita
ulteriori riflessioni. Su di esse vorrei soffermarmi specificamente.
Chiediamoci, innanzitutto, in quali
sedi giudiziarie possono essere costituiti gruppi o sezioni di alta
specializzazione professionale. La risposta è ovvia: soltanto nelle grandi
sedi. Nelle sedi piccole, i pochi magistrati che le compongono dovranno
acconciarsi comunque ad operare come «magistrati tuttofare».
Chi ha maturato esperienza di
difensore in processi penali concernenti materie tecnicamente complesse
(violazioni economiche, disastri ambientali, grandi bancarotte, truffe compiute
tramite sofisticati strumenti finanziari) e celebrati in piccole sedi
giudiziarie, avrà, per altro verso, potuto constatare che i suoi assistiti
erano sovente giudicati da magistrati non sufficientemente preparati e che più
facilmente rischiavano pertanto di sbagliare.
Ecco che si profila, allora, un
ulteriore aspetto del tema delle specializzazioni in magistratura, forse ancora
più delicato, e che dev’essere affrontato con una coraggiosa rimeditazione
dell’intera organizzazione degli uffici giudiziari e delle loro rispettive
competenze.
La questione ha, in realtà,
quantomeno due risvolti. Coinvolge da un lato il problema dell’eliminazione
delle sedi giudiziarie minori, dall’altro quello dell’introduzione di «riserve
di competenze» a favore degli uffici giudiziari più importanti.
Il primo tema è da tempo oggetto di
attenzione da parte di tecnici e politici. A causa delle resistenze di natura
locale, nessuno è riuscito tuttavia a realizzare, fino ad ora, la riforma
auspicata. Il secondo, tutto sommato più semplice (sarebbe sufficiente
prevedere che le materie che maggiormente richiedono specializzazione siano
assegnate alla competenza dei tribunali più importanti, situati nelle sedi di
Corte d’appello), non è stato, addirittura, mai affrontato.
Eppure, per una classe politica che
intendesse assicurare al Paese una giustizia penale la più efficace possibile,
sembrerebbe un tema ancora più strategico.
Il ministro della Giustizia Severino
ha affermato, nei giorni scorsi, che uno degli obiettivi prioritari della sua
gestione sarà, proprio, la riorganizzazione delle circoscrizioni giudiziarie.
Perché, prendendo spunto dall’esigenza di specializzazione, non muovere,
allora, da tale già riconosciuta esigenza di riorganizzazione per affrontare a
tutto campo il tema di una migliore utilizzazione specialistica delle risorse?
1 commento:
La parte che ho evidenziato in viola è una cazzata, il resto ragionevole e accettabile.
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