Dal governo Monti gli italiani si aspettano - nel 2012 - crescita, un po' di
fiducia ed equità. Le prime due sono state merci scarse nel fine anno 2011. Su
cosa sia l'equità, c'è molta confusione. La crescita non c'è, anzi siamo
entrati in recessione. A inizio dicembre, Confindustria prevedeva per il 2012
una caduta del reddito dell'1,6%. Il decreto «salva Italia» ha portato la
pressione fiscale a un massimo storico: il 45%. Non sorprendentemente ne è
seguito un calo nella fiducia degli italiani. L'indicatore elaborato dalla
Commissione europea per misurare la fiducia delle famiglie (la domanda posta è
«Come vedete la condizione economica della vostra famiglia nei prossimi 12
mesi?»), che era migliorato dopo la formazione del nuovo governo, è peggiorato
in dicembre del 4,7%, ritornando al livello minimo toccato nell'inverno 2008.
Nel resto dell'area euro, nel medesimo periodo, è rimasto pressoché stabile;
negli Stati Uniti l'analogo indice è migliorato, sempre in dicembre, del 15%.
Dati che si riferiscono a singole aziende italiane indicano che nello stesso
mese le loro vendite al dettaglio sono state inferiori a un anno prima di una
cifra oscillante fra il 7 e il 10%. La conclusione è che nel 2012 rischiamo una
caduta del reddito del 2%. Se si fossero tagliate un po' di spese inutili,
anziché limitarsi ad alzare le tasse, l'effetto sarebbe stato molto meno grave.
Ma ormai è tardi.
Per arginare la recessione ora occorre ridare fiducia a famiglie
e imprese: ci vogliono riforme profonde, coraggiose e immediate. Ma non appena
si parla di riforme viene sollevata la questione dell'equità, non sempre però
in modo corretto. Che cosa significa equità? Nelle discussioni di queste
settimane sta prendendo piede una visione pericolosa: che la ricchezza, comunque
ottenuta, vada perseguita e «punita». La demonizzazione della ricchezza. Non si
deve fare di ogni erba un fascio: c'è chi è relativamente ricco perché ha
investito nella propria istruzione, spesso con anni di sacrifici; chi ha corso
rischi imprenditoriali, ha creato posti di lavoro, è stato premiato dal mercato
e paga metà del proprio reddito in tasse. C'è invece la ricchezza creata con
l'evasione fiscale, le connessioni politiche, i favori più o meno leciti
ottenuti nei corridoi dei ministeri. La ricchezza ottenuta con i premi concessi
a manager pubblici che hanno male amministrato o addirittura corrotto le
aziende loro affidate; con distorsioni della governance di istituzioni
finanziarie per cui amministratori, anche incapaci, quando smettono di far danni,
si ritirano con decine di milioni di euro di buonuscita. La prima cosa che il
governo deve fare è segnalare agli italiani di essere conscio di questa
distinzione. Altrimenti imprenditori e capitali andranno altrove, e con essi i
posti di lavoro, e addio crescita.
Si dice che l'Italia con il nuovo governo abbia alzato la testa. Forse, ma il
giorno di Natale la lettura di un articolo del New York Times sull'evasione fiscale nel nostro Paese ce l'avrebbe
fatta riabbassare. Ecco un'idea quasi banale per combattere l'evasione:
consentire ai cittadini di detrarre dal reddito soggetto a tassazione una quota
delle loro spese. Poter detrarre il 30% sarebbe sufficiente per indurli a
chiedere una ricevuta, anche se ciò comporta un prezzo maggiorato dell'Iva. L'effetto
netto sul gettito sarebbe certamente positivo.
L'Italia è divisa in due: c'è una parte del Paese
che funziona e una no. Bisogna permettere alle risorse di spostarsi verso la
parte che funziona. Anche questa è equità: non proteggere chi, non produttivo,
pesa su chi lo è. Una ricerca di alcuni economisti (Matteo Brugamelli e
Roberta Zizza della Banca d'Italia e Fabiano Schivardi
dell'università di Sassari) mostra che, dopo l'introduzione dell'euro, le
piccole e medie imprese italiane si sono divise, a grandi linee, in due gruppi.
Alcune hanno investito, inventando nuovi prodotti e cercando nuovi mercati: la
loro produttività è cresciuta e così i salari dei loro dipendenti. Altre
aziende invece non hanno investito: la loro produttività è rimasta invariata e
oggi i loro prodotti non sopravvivono alla concorrenza. Queste ultime
dovrebbero chiudere, lasciando spazio alle imprese più efficienti per crescere
e così aumentare la produttività media del Paese. Ma ciò non accade se lo Stato
protegge le imprese improduttive, ad esempio utilizzando la cassa integrazione
(che spesso mantiene lavoratori legati a imprese che non hanno futuro), anziché
promuovere un moderno sistema di sussidi di disoccupazione che aiutino i
lavoratori a spostarsi da un'azienda all'altra. Anche questo frena la crescita:
sia perché la presenza di aziende vecchie e protette rende più difficile
crearne di nuove, sia perché le protezioni costano, e a pagarle sono le imprese
che guadagnano.
C'è poi l'equità fra padri e figli, fra
anziani e giovani. Il ministro Elsa Fornero è arrivata al governo con due idee
chiare, una sulle pensioni: un'altra sul lavoro. Pensava, giustamente, che il
nostro sistema previdenziale fosse stato reso sostenibile dalla riforma Dini:
bisognava solo accelerarla. In pochi giorni lo ha fatto e oggi le pensioni
italiane, pur non perfette, sono più sostenibili che in molti Paesi europei.
Anche sul mercato del lavoro Fornero ha (o almeno
aveva) idee chiare: è necessario un contratto unico che accolga un giovane al
primo impiego e poi lo accompagni nella sua vita lavorativa. Un contratto che
si differenzi solo per quanto un'impresa deve pagare se decide di licenziare un
dipendente: nulla i primi mesi e un ammontare via via crescente col trascorrere
del tempo e del rapporto di lavoro. Vi sono diversi modi per disegnare un
simile contratto, alcuni proposti da Olivier Blanchard, il capo economista del
Fondo monetario internazionale, altri dal senatore Pietro Ichino. In entrambe
le proposte si tratta di contratti a tempo indeterminato per tutti, ma
rescindibili, se necessario, per motivi economici dell'impresa. Si può
prevedere un periodo di apprendistato alla tedesca, ma il punto cruciale è
eliminare il precariato e far sì che i giovani non si sentano più dei paria,
cui viene negato un mutuo per acquistare una casa e così il sogno di formare
una famiglia. All'interno di un'azienda i lavoratori possono distinguersi per
la loro anzianità, ma non fra chi è fortunato e ha un contratto a tempo
indeterminato e chi quella fortuna non ha avuto. Insomma, ai giovani il governo
deve offrire un futuro più certo e ridare loro un po' di fiducia. Ma i giovani
non si devono aspettare il posto fisso nel senso dell'illicenziabilità, del
lavoro a vita nella stessa impresa.
La sostituzione della cassa integrazione con un
moderno sistema di sussidi temporanei è il complemento necessario del contratto
unico e permetterebbe di usare il periodo di disoccupazione per investire nella
propria formazione. Il rifiuto da parte dei sindacati di dialogare su questi
argomenti dimostra, ancora una volta, che a queste organizzazioni i giovani e
l'equità intergenerazionale non interessano. L'ottima Elsa Fornero non deve
arrendersi ai sindacati. Il Paese le deve già molto, le chiediamo ancora più
coraggio e Mario Monti le deve tutto il suo appoggio.
Si parla poi di equità con riferimento al fatto che i
salari in Italia sono più bassi che altrove. Secondo dati dell'Eurostat, a
parità di caratteristiche individuali, le retribuzioni mensili nette italiane
nel settore privato risultano in media inferiori di circa il 10 per cento a
quelle tedesche, del 20 a
quelle britanniche e del 25 a
quelle francesi. Non c'è da sorprendersi: i salari non sono «una variabile
indipendente» per citare una frase storica (in seguito per la verità rinnegata)
di Luciano Lama, leader della Cgil negli anni 70. I salari dipendono dalla
produttività, che in Italia è cresciuta molto meno che negli altri Paesi
europei: non solo per colpa dei sindacati, ma anche di quegli imprenditori che
si sono illusi che si potesse vivere di rendita.
Il primo grafico (guarda)
mostra come la produttività del lavoro in Italia sia stagnante almeno dal 2000,
mentre nella la media dei Paesi dell'Euro cresceva, specialmente in Germania.
Non solo la produttività in Italia cresce poco, ma i salari poi non la seguono
correttamente, premiando troppo l'anzianità. Come si vede nel secondo grafico (guarda),
i salari medi italiani crescono con l'età mentre, ad esempio, in Gran Bretagna,
raggiungono un apice in corrispondenza delle età più produttive e calano negli
anni successivi. Insomma, in Italia conta soprattutto (troppo) l'anzianità, in
tutti i campi. Per correggere questa situazione ci vuole un accordo costruito
su tre punti: le imprese offrono un contratto unico e rinunciano ai sussidi
pubblici; lo Stato riduce le tasse sul lavoro, finanziando gli sgravi con i
tagli ai sussidi alle imprese; i sindacati accettano una gestione più
flessibile del lavoro. Il presidente di Confindustria dice che i sussidi non
bastano perché sono solo 2,7 miliardi l'anno. Se ha ragione, a chi vanno i
rimanenti 27,3 miliardi di «sussidi alle imprese» che appaiono nel bilancio
dello Stato? Probabilmente a imprese che li meritano ancor meno degli associati
a Confindustria. Se si avesse il coraggio di tagliarli vi sarebbe lo spazio per
finanziare sia una riduzione molto significativa del cuneo fiscale sia il
passaggio dalla cassa integrazione a un moderno sistema di sussidi.
Equità e crescita si combinerebbero anche
privatizzando imprese pubbliche, dove talvolta - come nel caso di Finmeccanica,
un tempo additata quale gioiello del sistema pubblico - abbiamo appreso che
dilagava la corruzione. Spiegavamo in un precedente articolo che se la Borsa è
depressa, lo sono anche i prezzi dei Btp: quando mai si ripresenterà
l'occasione di ritirare a 70 centesimi titoli che a scadenza dovremmo ripagare
100? Privatizzare è il modo corretto per ridurre il debito, come fece il
governo Ciampi negli anni 90. Ci preoccupa invece leggere che tornano di moda
proposte di ridurre il debito in modo più o meno forzoso, inducendo le banche
ad acquistare titoli pubblici garantiti dal patrimonio dello Stato.
Innanzitutto perché se il patrimonio garantisce solo alcuni titoli, il prezzo
degli altri, quelli non garantiti, evidentemente cadrebbe, quindi non si vede
che beneficio ne venga allo Stato. Ma soprattutto queste proposte sembrano
ignorare che le nostre banche hanno bisogno urgente di capitale fresco.
Altrimenti, come è accaduto il mese scorso, la liquidità che ricevono dalla
Banca centrale europea, o la impiegano per acquistare Bot semestrali o la
ridepositano a Francoforte. Comunque, non prestano denaro alle imprese perché
non hanno il capitale necessario per farlo. Le fondazioni, che sono i loro
maggiori azionisti, non hanno più risorse per ricapitalizzare le banche: quindi
la condizione per far riprendere il credito alle imprese è attirare nuovi
azionisti privati. Pensate che ci sarebbero se le banche venissero usate per
acquisti forzosi di titoli pubblici? L'ora delle alchimie finanziarie è finita.
L'Italia si salva solo se l'economia reale riparte.
Infine l'università. Caro presidente del Consiglio,
rilegga un libro a lei caro, Prediche Inutili di Luigi Einaudi, e
inserisca nella legge sulle liberalizzazioni cui sta lavorando l'abolizione del
valore legale della laurea: un provvedimento, come spiegava Einaudi, che
aumenterebbe competizione e merito nei nostri atenei.
Alberto Alesina e Francesco Giavazzi2 gennaio 2012
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