FURIO COLOMBO
Su questa scena si vedono tre
personaggi: chi governa, la politica e il popolo. C’è una relazione strana fra i tre.
Oscilla tra speranza e sospetto, tra giudizio positivo di attesa e preventiva
condanna. Questa oscillazione divide la politica tra favorevoli e contrari a
chi governa, ma ciò avviene lungo linee che non corrispondono ai partiti o alle
idee (non oso dire “ideologie”) e che dunque lascia tutto in sospeso, perché al
momento ogni conta è impossibile. Però
alla politica, qualunque essa sia, certa o incerta, in movimento verso
nuove aggregazioni o immobile, si sovrappone l’immagine della politica, che è
pessima. Il problema è molto più grave di ciò che si definisce “anti politica”.
Si tratta della diffusa percezione di un fallimento, di un vuoto pauroso, anche
da parte di chi non pensa che tutto sia marcio e corrotto, ma ha capito che
quel tutto, in ogni caso, non funziona, gira su se stesso, afferma e nega,
promette e dimentica, persino se non c’è il sospetto o la denuncia di un tornaconto.
È chiaro, però, che quando una macchina si inceppa in modo così grave e
prolungato, il problema non è più se tutta questa gente immobile sia troppo
pagata o troppo poco onesta, il problema è l’impressione, pericolosa e
terribile, che non serva, che se ne possa o debba fare a meno. Nel
migliore dei casi, che non fa differenza.
Poi c’è il popolo. Esso appare in tre vesti: la prima è quella degli indignati, che non hanno predilezioni tra governo e opposizioni, fra una soluzione e l’altra. Sono stati a lungo delusi e intendono dichiararsi fuori e dire “no” comunque. La seconda incarnazione è quella di sostenitori e militanti delle coalizioni contrapposte, sui quali si esercitano ogni settimana i più validi sondaggisti. Ma tutti gli oroscopi sono oscuri perché le coalizioni sono o potrebbero essere frantumate, neppure chi dice “sì” e “no” a una parte o all’altra sa chi sarà assente, presente o nuovo arrivato, o se ci sarà un rimpasto profondo delle alleanze, al punto da spostare i pezzi del gioco. La terza incarnazione è quella di chi risponde per sè, non per uno schieramento che non è più sicuro di conoscere. E perciò questa terza incarnazione ci rivela un popolo che si astiene o non vota nella percentuale mai vista del 45 per cento. Se questa descrizione è attendibile, tutta l’attenzione torna, nel caso italiano, a spostarsi sul governo detto “tecnico”, professori, banchieri, manager. Nei giorni scorsi un giornale americano ha provato a stimolare i lettori sul come è nato questo governo tecnico, e ha immaginato che la Cancelliera tedesca lo abbia imposto con richiesta perentoria, al presidente italiano. Persino in un film sarebbe un modesto copione che probabilmente il produttore pregherebbe di riscrivere. Perché oscura del tutto il fatto che la politica italiana (qualunque cosa sia e da qualunque parti la si giudichi) aveva fermato le macchine, non per un giorno ma per più di due anni, proprio in periodo di pericolo estremo che è stato definito più volte “del precipizio”.
Dunque il “governo tecnico” è apparso una necessità al modo in cui lo è una ingessatura in caso di frattura scomposta. Infatti ciò che è accaduto in Italia è un fenomeno senza precedenti o analogie da invocare non tanto o non solo per la natura anomala e stravagante del berlusconismo quanto per il disciplinato e rigoroso silenzio stampa, grandi e piccoli giornali e TV che si sono impediti di notare eventi clamorosi, ridicoli, assurdi, vistosamente pericolosi, mentre il resto del mondo vedeva, prendeva nota e detraeva ogni volta dalla quota di affidamento e fiducia. Infatti ciò che è stato giustamente addebitato all’Italia non era la vistosa anomalia psichica di un insieme di personaggi che, in posizione di responsabilità, andavano da Gasparri a Brunetta, da Bossi a Sacconi e il loro continuo trasmigrare ogni giorno dalla sottomissione religiosa al voto di fiducia sulla prostituzione minorile. Era il fatto che il resto della classe dirigente, imprese, manager, due sindacati su tre, tutta la stampa, prendessero e commentassero come vero l’intero pacchetto del non governo berlusconiano e non si permettessero di ridere sulle “leggi inutili” bruciate col lanciafiamme in prima serata o di denunciare con allarme la totale mancanza di attenzione alla crisi economica, mentre minacciava l’Italia un fenomeno distruttivo come le guerre, ma affrontato con demente allegria. Ma intanto anche l’opposizione restava al suo posto, persuasa che fosse meglio assecondare il vento folle che devastava l’Italia e allarmava il mondo, con il buon comportamento nelle commissioni e in aula. Per questo, per forza, arrivano i tecnici. E allora ci sono due domande inevitabili per la nuova, durissima opposizione di Di Pietro. Una è se, qualunque sia il giudizio, si possa combattere fianco a fianco con la Lega. I sindacati hanno le loro forti ragioni di opposizione come difesa del lavoro ma nessuno potrebbe confonderli con Calderoli. L’altra è che la Lega della persecuzione ai Rom e agli immigrati, degli affondamenti in mare e del trattato con la Libia, ha molto da temere da una situazione di libera Informazione (si vedano adesso i primi flash sulla vita privata del Trota) ma poco da perdere. Perché Bossi si è attenuto, più o meno con tutti i suoi, alla regola berlusconiana di sbarazzarsi della reputazione, che non ha. Di Pietro invece ha costruito un movimento politico importante sulla sua reputazione di giudice.
E ha condotto finora molto bene la sua battaglia. Ma se accusa di “televendita” il governo che ha bloccato il disastro di Berlusconi e si associa a Calderoli nelle affermazioni tipo Pontida, quale sarà il suo spazio (e la sua reputazione) nella politica che dovrebbe venire dopo? E a cosa serve ripetere che “passeremo la parola al popolo” se la politica continua a difendere in modo ermetico solo se stessa? Che cosa si aspetta dal popolo? Si allarga la distanza e si rafforza “l’altra protesta”, che non vuole legami con la politica di un tipo e dell’altro, che c’era prima. Adesso la prova più importante è il grado di separazione da quel prima.
Poi c’è il popolo. Esso appare in tre vesti: la prima è quella degli indignati, che non hanno predilezioni tra governo e opposizioni, fra una soluzione e l’altra. Sono stati a lungo delusi e intendono dichiararsi fuori e dire “no” comunque. La seconda incarnazione è quella di sostenitori e militanti delle coalizioni contrapposte, sui quali si esercitano ogni settimana i più validi sondaggisti. Ma tutti gli oroscopi sono oscuri perché le coalizioni sono o potrebbero essere frantumate, neppure chi dice “sì” e “no” a una parte o all’altra sa chi sarà assente, presente o nuovo arrivato, o se ci sarà un rimpasto profondo delle alleanze, al punto da spostare i pezzi del gioco. La terza incarnazione è quella di chi risponde per sè, non per uno schieramento che non è più sicuro di conoscere. E perciò questa terza incarnazione ci rivela un popolo che si astiene o non vota nella percentuale mai vista del 45 per cento. Se questa descrizione è attendibile, tutta l’attenzione torna, nel caso italiano, a spostarsi sul governo detto “tecnico”, professori, banchieri, manager. Nei giorni scorsi un giornale americano ha provato a stimolare i lettori sul come è nato questo governo tecnico, e ha immaginato che la Cancelliera tedesca lo abbia imposto con richiesta perentoria, al presidente italiano. Persino in un film sarebbe un modesto copione che probabilmente il produttore pregherebbe di riscrivere. Perché oscura del tutto il fatto che la politica italiana (qualunque cosa sia e da qualunque parti la si giudichi) aveva fermato le macchine, non per un giorno ma per più di due anni, proprio in periodo di pericolo estremo che è stato definito più volte “del precipizio”.
Dunque il “governo tecnico” è apparso una necessità al modo in cui lo è una ingessatura in caso di frattura scomposta. Infatti ciò che è accaduto in Italia è un fenomeno senza precedenti o analogie da invocare non tanto o non solo per la natura anomala e stravagante del berlusconismo quanto per il disciplinato e rigoroso silenzio stampa, grandi e piccoli giornali e TV che si sono impediti di notare eventi clamorosi, ridicoli, assurdi, vistosamente pericolosi, mentre il resto del mondo vedeva, prendeva nota e detraeva ogni volta dalla quota di affidamento e fiducia. Infatti ciò che è stato giustamente addebitato all’Italia non era la vistosa anomalia psichica di un insieme di personaggi che, in posizione di responsabilità, andavano da Gasparri a Brunetta, da Bossi a Sacconi e il loro continuo trasmigrare ogni giorno dalla sottomissione religiosa al voto di fiducia sulla prostituzione minorile. Era il fatto che il resto della classe dirigente, imprese, manager, due sindacati su tre, tutta la stampa, prendessero e commentassero come vero l’intero pacchetto del non governo berlusconiano e non si permettessero di ridere sulle “leggi inutili” bruciate col lanciafiamme in prima serata o di denunciare con allarme la totale mancanza di attenzione alla crisi economica, mentre minacciava l’Italia un fenomeno distruttivo come le guerre, ma affrontato con demente allegria. Ma intanto anche l’opposizione restava al suo posto, persuasa che fosse meglio assecondare il vento folle che devastava l’Italia e allarmava il mondo, con il buon comportamento nelle commissioni e in aula. Per questo, per forza, arrivano i tecnici. E allora ci sono due domande inevitabili per la nuova, durissima opposizione di Di Pietro. Una è se, qualunque sia il giudizio, si possa combattere fianco a fianco con la Lega. I sindacati hanno le loro forti ragioni di opposizione come difesa del lavoro ma nessuno potrebbe confonderli con Calderoli. L’altra è che la Lega della persecuzione ai Rom e agli immigrati, degli affondamenti in mare e del trattato con la Libia, ha molto da temere da una situazione di libera Informazione (si vedano adesso i primi flash sulla vita privata del Trota) ma poco da perdere. Perché Bossi si è attenuto, più o meno con tutti i suoi, alla regola berlusconiana di sbarazzarsi della reputazione, che non ha. Di Pietro invece ha costruito un movimento politico importante sulla sua reputazione di giudice.
E ha condotto finora molto bene la sua battaglia. Ma se accusa di “televendita” il governo che ha bloccato il disastro di Berlusconi e si associa a Calderoli nelle affermazioni tipo Pontida, quale sarà il suo spazio (e la sua reputazione) nella politica che dovrebbe venire dopo? E a cosa serve ripetere che “passeremo la parola al popolo” se la politica continua a difendere in modo ermetico solo se stessa? Che cosa si aspetta dal popolo? Si allarga la distanza e si rafforza “l’altra protesta”, che non vuole legami con la politica di un tipo e dell’altro, che c’era prima. Adesso la prova più importante è il grado di separazione da quel prima.
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