Non c’è giorno che la Cina non faccia notizia per una ragione o per l’altra o, meglio, per ragioni paradossalmente contrapposte. Se restringiamo il paradosso all’ottica italiana, vediamo da un lato la Camera censurare all’unanimità il governo cinese per la violazione dei diritti umani nel Tibet dove mezzo secolo fa, nel marzo 1959, fallì un’impetuosa rivolta anti-cinese costringendo il Dalai Lama alla fuga verso l’India. Ma da un altro lato vediamo però e sentiamo Gianfranco Fini, presidente della stessa Camera, aprire un seminario sulle relazioni tra il gigante asiatico e l’Europa con le seguenti parole: «La Cina, il cui ruolo è destinato ad accrescersi, ormai è un attore globale con il quale dobbiamo confrontarci in tutti i settori».
La censura, nell’auspicio realistico di Fini, sembra rivolgersi non tanto all’assenza dei diritti umani a Lhasa, quanto alla mancanza d’una più coesa e più perspicace politica europea nei confronti di una Cina che oggi, nella tempesta che minaccia le economie del mondo industriale, appare attestata su posizioni sensibilmente meno vulnerabili di quelle occidentali.
Quasi in simultanea la Camera di commercio di Milano ha reso noto che intende attivare al massimo con iniziative fieristiche e imprenditoriali la sua sede a Shanghai, dove dal 1° maggio 2010 si apriranno per 184 giorni i padiglioni di 185 Paesi partecipanti all’Expo.
Se poi allarghiamo l’ottica dall’Europa all’America rivediamo il paradosso ingrandirsi al pantografo. Qui il contrasto tra la difesa dei valori civili dell’Occidente, che la Cina violerebbe soprattutto nel Tibet, e la tutela degli interessi vitali della massima potenza occidentale che la Cina con le sue manovre anti-crisi potrebbe o agevolare o peggiorare, manda quasi un assurdo stridore cacofonico. Per l’America, maestra storica di democrazia, cosa deve prevalere nella bufera di una crisi che da Wall Street a Detroit ne sta colpendo i gangli strutturali più delicati ed essenziali? La battaglia morale con la Cina sui diritti del monaco tibetano? Oppure la cooperazione realistica con la Cina che detiene buoni del tesoro americani per 700 miliardi di dollari? La risposta l’ha già data una delle più note militanti per i diritti umani, Hillary Clinton, la quale, nella recente visita a Pechino in veste di segretario di Stato dell’amministrazione Obama, ha parlato di tante cose senza spendere una parola sul Tibet o sulla satrapia del Sudan protetta dai cinesi. Un’altra americana famosa, Bianca Jagger, membro del direttivo di Amnesty International, ex moglie del leader dei Rolling Stones, pur criticando la Clinton non ha potuto fare altro che prendere atto delle complesse ragioni della paralisi morale di Washington: «Non facciamoci illusioni. L’America dipende ormai finanziariamente da Pechino, che se la ride delle sue minacce, sapendo di avere la superpotenza in pugno. Gli Stati Uniti si sono indebitati fino al collo con la Cina e l’era in cui potevano dettare politica ad altri Paesi è finita».
Ma la Cina è diventata davvero così forte, una sorta d’usuraia ricattatrice a livello globale, da poter dettare lei, oggi, le sue leggi nel mondo? Nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu, nello sfruttamento delle materie prime africane, nelle questioni nucleari della Corea del Nord, nei rapporti con le Borse mondiali, nelle relazioni con gli Usa, nei mercati finanziari europei? La Cina rappresenta davvero l’unico miracolo di resistenza alla crisi che da un pezzo scompagina l’America, lambisce già la Russia, devasta gran parte dell’Europa centrorientale, incombe su quella occidentale?
Bisogna stare attenti a non scambiare lucciole per lanterne. La Cina odierna, che proviene con la sua relativa solidità economica e sociale da tre decenni d’ininterrotta riforma capitalista, è tuttora nello slancio di una crescita che le consente di mantenersi a un tasso di sviluppo dell’8%. Nella scia del grande decollo, ha elaborato una capacità di ammortizzatori anti-crisi ignota all’Occidente, il quale ha esaurito, in parte, le sue risorse di resistenza non solo materiale ma anche psichica. La Cina non è più sana in assoluto dell’America, dell’Europa o della Russia; è soltanto meno malata e perciò anche meno minacciata dall’incubo di un disastro imminente. Con i forzieri bancari pieni di buoni americani e di valuta convertibile può destreggiarsi meglio di altri Paesi fra inflazione e deflazione, può dare perfino l’impressione ottica di una fuga in avanti premendo l’acceleratore sugli investimenti nella sanità pubblica, nel mercato interno, nelle spese militari, nelle esibizioni titaniche che dalle Olimpiadi di Pechino del 2008 si prolungheranno nell’Esposizione universale di Shanghai del 2010.
La crisi vera della Cina è d’una qualità diversa dalle crisi occidentali; sotto l’apparente mobilità, è una crisi di rallentamento, di terapia, tesa a raffreddare un’economia che correva il rischio di surriscaldarsi e di perdere la cadenza di una crescita ordinata. L’altra faccia del miracolo continuo, la faccia problematica, è difatti il crollo delle esportazioni e lo spettro della disoccupazione che, temperata a petto della potenza demografica del Paese, può toccare pur sempre decine di milioni di individui e fomentare il pericolo che il Partito comunista cinese teme più d’ogni altro: il disordine sociale e le jacqueries rurali e urbane. La rigidità sul Tibet, che preoccupa tanti democratici occidentali, che ignorano il passato di miseria a cui la teocrazia medievale dei preti buddisti sottoponeva una popolazione ignorante e sfruttata, non è di per sé un problema per il governo e tanto meno per la maggioranza Han che, dopo l’azzeramento maoista, si gode i frutti del «socialismo ricco» raccomandato da Deng e realizzato dai suoi eredi capital-comunisti; è il «cattivo esempio» indipendentista quello che più spaventa i governanti che sentono minacciata l’unità nazionale, non tanto dai tibetani, disponibili al compromesso autonomistico, quanto dalle ben più agguerrite, più popolose e più intransigenti minoranze islamiche del Sinkiang.
Continuare a insistere sui diritti civili, da parte occidentale, è un’inutile perdita di tempo alla quale, meno che mai oggi, i governanti cinesi possono dare una risposta. Quella che essi paventano è la ripercussione politica interna di una crisi economica esterna che, per ora, hanno deciso di tenere il più possibile lontana dalla Grande Muraglia. È tenendo conto di tali preoccupazioni essenzialmente politiche che l’Occidente, forse, anziché chiedere e aspettare l’impossibile, potrebbe ottenere qualche vantaggio dalla locomotiva cinese che, seppure rallentata, non desiste dal suo percorso. Bisognerebbe non ostacolarla ma facilitarle il punto di raccordo e d’incontro utile per tutti, per loro e per noi.
La censura, nell’auspicio realistico di Fini, sembra rivolgersi non tanto all’assenza dei diritti umani a Lhasa, quanto alla mancanza d’una più coesa e più perspicace politica europea nei confronti di una Cina che oggi, nella tempesta che minaccia le economie del mondo industriale, appare attestata su posizioni sensibilmente meno vulnerabili di quelle occidentali.
Quasi in simultanea la Camera di commercio di Milano ha reso noto che intende attivare al massimo con iniziative fieristiche e imprenditoriali la sua sede a Shanghai, dove dal 1° maggio 2010 si apriranno per 184 giorni i padiglioni di 185 Paesi partecipanti all’Expo.
Se poi allarghiamo l’ottica dall’Europa all’America rivediamo il paradosso ingrandirsi al pantografo. Qui il contrasto tra la difesa dei valori civili dell’Occidente, che la Cina violerebbe soprattutto nel Tibet, e la tutela degli interessi vitali della massima potenza occidentale che la Cina con le sue manovre anti-crisi potrebbe o agevolare o peggiorare, manda quasi un assurdo stridore cacofonico. Per l’America, maestra storica di democrazia, cosa deve prevalere nella bufera di una crisi che da Wall Street a Detroit ne sta colpendo i gangli strutturali più delicati ed essenziali? La battaglia morale con la Cina sui diritti del monaco tibetano? Oppure la cooperazione realistica con la Cina che detiene buoni del tesoro americani per 700 miliardi di dollari? La risposta l’ha già data una delle più note militanti per i diritti umani, Hillary Clinton, la quale, nella recente visita a Pechino in veste di segretario di Stato dell’amministrazione Obama, ha parlato di tante cose senza spendere una parola sul Tibet o sulla satrapia del Sudan protetta dai cinesi. Un’altra americana famosa, Bianca Jagger, membro del direttivo di Amnesty International, ex moglie del leader dei Rolling Stones, pur criticando la Clinton non ha potuto fare altro che prendere atto delle complesse ragioni della paralisi morale di Washington: «Non facciamoci illusioni. L’America dipende ormai finanziariamente da Pechino, che se la ride delle sue minacce, sapendo di avere la superpotenza in pugno. Gli Stati Uniti si sono indebitati fino al collo con la Cina e l’era in cui potevano dettare politica ad altri Paesi è finita».
Ma la Cina è diventata davvero così forte, una sorta d’usuraia ricattatrice a livello globale, da poter dettare lei, oggi, le sue leggi nel mondo? Nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu, nello sfruttamento delle materie prime africane, nelle questioni nucleari della Corea del Nord, nei rapporti con le Borse mondiali, nelle relazioni con gli Usa, nei mercati finanziari europei? La Cina rappresenta davvero l’unico miracolo di resistenza alla crisi che da un pezzo scompagina l’America, lambisce già la Russia, devasta gran parte dell’Europa centrorientale, incombe su quella occidentale?
Bisogna stare attenti a non scambiare lucciole per lanterne. La Cina odierna, che proviene con la sua relativa solidità economica e sociale da tre decenni d’ininterrotta riforma capitalista, è tuttora nello slancio di una crescita che le consente di mantenersi a un tasso di sviluppo dell’8%. Nella scia del grande decollo, ha elaborato una capacità di ammortizzatori anti-crisi ignota all’Occidente, il quale ha esaurito, in parte, le sue risorse di resistenza non solo materiale ma anche psichica. La Cina non è più sana in assoluto dell’America, dell’Europa o della Russia; è soltanto meno malata e perciò anche meno minacciata dall’incubo di un disastro imminente. Con i forzieri bancari pieni di buoni americani e di valuta convertibile può destreggiarsi meglio di altri Paesi fra inflazione e deflazione, può dare perfino l’impressione ottica di una fuga in avanti premendo l’acceleratore sugli investimenti nella sanità pubblica, nel mercato interno, nelle spese militari, nelle esibizioni titaniche che dalle Olimpiadi di Pechino del 2008 si prolungheranno nell’Esposizione universale di Shanghai del 2010.
La crisi vera della Cina è d’una qualità diversa dalle crisi occidentali; sotto l’apparente mobilità, è una crisi di rallentamento, di terapia, tesa a raffreddare un’economia che correva il rischio di surriscaldarsi e di perdere la cadenza di una crescita ordinata. L’altra faccia del miracolo continuo, la faccia problematica, è difatti il crollo delle esportazioni e lo spettro della disoccupazione che, temperata a petto della potenza demografica del Paese, può toccare pur sempre decine di milioni di individui e fomentare il pericolo che il Partito comunista cinese teme più d’ogni altro: il disordine sociale e le jacqueries rurali e urbane. La rigidità sul Tibet, che preoccupa tanti democratici occidentali, che ignorano il passato di miseria a cui la teocrazia medievale dei preti buddisti sottoponeva una popolazione ignorante e sfruttata, non è di per sé un problema per il governo e tanto meno per la maggioranza Han che, dopo l’azzeramento maoista, si gode i frutti del «socialismo ricco» raccomandato da Deng e realizzato dai suoi eredi capital-comunisti; è il «cattivo esempio» indipendentista quello che più spaventa i governanti che sentono minacciata l’unità nazionale, non tanto dai tibetani, disponibili al compromesso autonomistico, quanto dalle ben più agguerrite, più popolose e più intransigenti minoranze islamiche del Sinkiang.
Continuare a insistere sui diritti civili, da parte occidentale, è un’inutile perdita di tempo alla quale, meno che mai oggi, i governanti cinesi possono dare una risposta. Quella che essi paventano è la ripercussione politica interna di una crisi economica esterna che, per ora, hanno deciso di tenere il più possibile lontana dalla Grande Muraglia. È tenendo conto di tali preoccupazioni essenzialmente politiche che l’Occidente, forse, anziché chiedere e aspettare l’impossibile, potrebbe ottenere qualche vantaggio dalla locomotiva cinese che, seppure rallentata, non desiste dal suo percorso. Bisognerebbe non ostacolarla ma facilitarle il punto di raccordo e d’incontro utile per tutti, per loro e per noi.
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