sabato 14 marzo 2009

Il Fini delle regole

14/3/2009
LUIGI LA SPINA

Anche in politica, le parole restano sempre molto indietro ai fatti. L’ha dimostrato pure l’ultimo scambio di accuse tra Berlusconi e Franceschini, a suon di definizioni vecchie e ormai senza alcun rapporto con la realtà. Perché sia il clerico-fascismo sia il catto-comunismo sono stati importanti filoni culturali e politici della nostra vita pubblica, ma appartengono a un passato senza eredi. Chi non se n’è accorto, o finge di non essersene accorto per comodità polemica, sottovaluta l’intelligenza dell’opinione pubblica, che invece è molto più occupata a capire le novità del presente per intuire gli sviluppi del futuro.

Al di là delle tumultuose vicende del Partito democratico che, almeno, contribuiscono a ridurre il tasso di ripetitività delle nostre cronache, la parabola politica e personale di Gianfranco Fini suscita, da un po’ di tempo, una crescente curiosità, molta sorpresa e, perfino, un qualche imbarazzo. Anche in vista dell’unificazione tra An e Fi nel nuovo partito, colpiscono le trasformazioni del presidente della Camera: da delfino, qualche volta impaziente di Berlusconi, al ruolo di implacabile suo censore, in nome del rispetto delle regole e degli equilibri tra poteri dello Stato.

Se questo atteggiamento potrebbe rientrare nelle funzioni e nei doveri di un’alta carica istituzionale, meno scontate, invece, sono le sue mosse politiche: da quelle internazionali, sulle responsabilità fasciste e naziste nei confronti degli ebrei, a quelle su questioni più domestiche.

Fini sfoggia un fermo laicismo, senza paura di turbare le coscienze cattoliche, in stragrande maggioranza sia nel suo partito sia nel suo elettorato. Ripudia il tradizionale «machismo» della destra italiana per un femminismo che, anche in questo caso, lo mette in contrasto con molti suoi antichi sodali, propugnando persino le «quote rosa». Sfida la paura per gli immigrati, motivo fortemente aggregante per mobilitare la richiesta di «legge ed ordine», tradizionale slogan sotto le vecchie bandiere della destra, con una serie di incalzanti dichiarazioni: a favore del loro voto nelle amministrative, contro la possibilità che i medici possano denunciare gli immigrati clandestini, contro il rischio di non registrazione all’anagrafe dei loro figli.

Parlare, perciò, di curiosità di tutta l’opinione pubblica è davvero giustificato, registrare la sorpresa di quella che ha sempre votato centrodestra è scontato, ma perché e dove alberga l’imbarazzo? A questo punto, bisogna smettere con le ipocrisie e formulare ad alta voce le domande che inquietano molti elettori del centrosinistra: Fini è diventato il garante della democrazia in Italia? Se, al termine del mandato di Napolitano, fosse lui e non Berlusconi ad ascendere al Quirinale, saremmo più tranquilli? Insomma, l’erede di quel partito che fu escluso per tutta la prima Repubblica dal famoso «arco costituzionale» può essere considerato, oggi, un sincero e rassicurante difensore della suprema legge del nostro Stato antifascista?

Finché qualche salace battutista, come la nostra «Jena» quotidiana, propone l’attuale presidente della Camera come segretario del Pd, si può sorridere e passare oltre. Ma quando Fini stesso trova che «non ci sia nulla di male» a considerare di sinistra certi suoi atteggiamenti e ricorda che fu Almirante a pronosticargli «l’apprendimento della democrazia» attraverso la frequentazione delle aule parlamentari, forse è il caso di riflettere un po’ di più su questa intrigante metamorfosi dell’ex leader neofascista.

È possibile che Fini abbia capito che la maggioranza dei suoi colonnelli guardi, ormai, più a Berlusconi che a lui. È probabile che giudichi, ormai, la gran parte del suo antico elettorato irrimediabilmente sedotta dalle sirene del capo del governo. È ragionevole che, ormai, non creda più alla possibilità di ereditare Palazzo Chigi dall’attuale presidente del Consiglio. Ma la sincerità delle intenzioni non conta in politica. Contano i fatti e le apparenze divengono spesso strade obbligate e senza ritorno.

Ecco perché, lasciando perdere le antiche definizioni e distogliendo i pensieri dagli automatismi mentali del passato, si può anche immaginare che il futuro del centrodestra italiano si possa giocare tra due ipotesi. La costituzione di un partito che non è mai esistito nella storia della nostra Repubblica: quello conservatore e democratico, sul tipo del modello inglese, e un altro, moderato e plebiscitario, sulla falsariga di quello che in Francia sta prefigurando Sarkozy. Sulla via del primo, almeno per ora, Fini pare un camminatore solitario, mentre l’autostrada di Berlusconi sembra molto affollata. Ma è affollata anche la truppa degli aspiranti eredi al trono del Cavaliere. E il proverbio ricorda che, qualche volta, è meglio essere soli che male accompagnati.

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