CITTÀ DEL VATICANO. Il giorno dopo la sua lettera in cui lamenta ostilità e ammette errori, il Papa riceve un coro di profferte di fedeltà. Anche dagli episcopati - tedesco, austriaco, francese, svizzero - in cui le riserve sulla revoca della scomunica ai lefebvriani erano state più forti e sonore, tanto da far parlare il cardinale Ruini di «indebolirsi e a volte praticamente all'estinguersi, del senso di appartenenza ecclesiale». E, in fondo, sono sinceri; perché per molti di loro non è il Pontefice, che si avvia al suo ottantreesimo genetliaco, il bersaglio; ma alcuni suoi collaboratori, e in particolare il Segretario di Stato, il cardinale Tarcisio Bertone, che a dicembre compie 75 anni, e di conseguenza deve affidare al Papa la sua disponibilità a lasciare l’incarico.
Ci sono voci, molto solide, secondo le quali proprio negli episcopati di Germania, Austria, Svizzera e Ungheria si stiano raccogliendo consensi per un messaggio da far pervenire a Benedetto XVI, chiedendogli di accettare, a dicembre, la rinuncia del suo primo collaboratore. Ovviamente non propongono nessuno, ma un candidato sarebbe preferito: l’arcivescovo di Vilnius, Audrys Backis, diplomatico di carriera (cosa che Bertone non è), molto legato al cardinale Silvestrini, e al "Club di Villa Nazareth", l’istituzione creata dal cardinale Tardini per aiutare i ragazzi promettenti e privi di mezzi, che nel corso dei decenni è diventato il punto di riferimento della diplomazia in talare. Gli episcopati nordici avrebbero chi li ascolta anche a Roma, nella persona di monsignor Joseph Clemens, che è stato segretario del Papa fino a poco prima dell’elezione. Era (ed è) una delle persone che godono della familiarità del Papa (che va a cena da lui un paio di volte al mese) fino, dicono, a curarne la persona. «Con Bertone non c’è simpatia, e soprattutto il Segretario di Stato non amerebbe che il gioviale vescovo tedesco tornasse a un ruolo istituzionale vicino al Papa, per esempio nel ruolo di Prefetto della Casa Pontificia», dicono in Curia.
Ma le manovre dell’Europa del Nord non sono l’unica minaccia da cui il Segretario di Stato deve guardarsi. Anche il Sostituto alla Segreteria di Stato, l’arcivescovo Ferdinando Filoni, scelto proprio da Bertone, avrebbe da tempo cominciato a muoversi in maniera molto indipendente, allacciando rapporti stretti con l’arcivescovo Paolo Sardi, certamente non uno dei fan del Segretario di Stato, l’uomo che controlla i discorsi del Papa, e che da Benedetto XVI ha «ereditato» una figura molto importante: la ex governante del Pontefice, ora sua governante, Ingrid Stampa, che lavora in Segreteria di Stato; una delle poche persone che hanno accesso all’Appartamento. E qui si tocca un altro punto chiave, della crisi che sembra attraversare la Chiesa. Se sotto Wojtyla (finché è stato bene) l’Appartamento sembrava, secondo i critici, «una locanda», con gente che entrava e usciva continuamente, ora dopo le cinque, nei corridoi si sentono solo i passi del Papa, di don Georg e delle "Memores Domini" che lo accudiscono. «Rare le visite, persino dei cardinali d i Curia: il Prefetto dei Vescovi, Re, che deve per ufficio andare dal Papa per portargli le proposte di nomina dei vescovi in tutto il mondo, viene ricevuto una volta al mese. Il cardinale Hummes, Prefetto del Clero, cioè responsabile delle centinaia di migliaia di sacerdoti, è stato ricevuto due volte in due anni», dicono persone vicine al Papa. Altri porporati, una volta o al massimo due, dalla nomina.
Nel 1983, di ritorno da un viaggio nella Polonia di Jaruzelski, e dopo aver incontrato segretamente Lech Walesa imprigionato dal regime, Papa Wojtyla lesse sulla prima pagina dell’Osservatore Romano un fondo intitolato: «Onore al sacrificio», in cui si sosteneva che la Chiesa aveva sacrificato il leader di Solidarnosc alla realpolitik. Nel giro di poche ore il Papa accettò le dimissioni di monsignor Virgilio Levi, autore dell’articolo e vicedirettore del quotidiano. La Chiesa vive oggi nel regno di un papa mite; tanto mite da scrivere una lettera ai vescovi di tutto il mondo per scusarsi di essere stato servito male dai suoi collaboratori. Forse però qualche responsabilità ce l’ha anche il Pontefice. Se è vero che alla riunione in cui si è messa a punto la revoca delle scomuniche erano presenti, oltre a Benedetto XVI: il cardinale William Levada, Prefetto della Congregazione per la Fede; il cardinale Giovanni Battista Re, Prefetto della Congregazione per i Vescovi; il cardinale Dario Castrillon Hoyos, presidente di "Ecclesia Dei", la commissione incaricata di occuparsi dei lefebvriani; e il Sostituto alla Segreteria di Stato, l’arcivescovo Ferdinando Filoni (nel verbale della riunione ci sarebbero tre suoi interventi) è evidente che nessuno di loro può chiamarsi fuori. Ma a quella riunione non era presente, perché non convocato, l’uomo certamente più importante per l’immagine del Papa nel mondo, e cioè il Direttore della Sala Stampa Vaticana, padre Federico Lombardi. Joaquin Navarro Valls - di cui forse oggi Benedetto XVI rimpiange un troppo frettoloso allontanamento - aveva un contatto continuo con l’Appartamento. Nella corte vaticana questa posizione «privilegiata» gli procurò una quantità infinita di nemici (fra l’altro era - orrore - un laico!) che non mancarono di fargli pagare il conto. Con l’elezione di Benedetto XVI si tornava - furono parole pronunciate in Segreteria di Stato - «alla normalità». Ma se la «normalità» è quella di un Papa che deve scrivere ai vescovi per chiedere scusa di gesti di riconciliazione mal gestiti e mal spiegati...
Ci sono voci, molto solide, secondo le quali proprio negli episcopati di Germania, Austria, Svizzera e Ungheria si stiano raccogliendo consensi per un messaggio da far pervenire a Benedetto XVI, chiedendogli di accettare, a dicembre, la rinuncia del suo primo collaboratore. Ovviamente non propongono nessuno, ma un candidato sarebbe preferito: l’arcivescovo di Vilnius, Audrys Backis, diplomatico di carriera (cosa che Bertone non è), molto legato al cardinale Silvestrini, e al "Club di Villa Nazareth", l’istituzione creata dal cardinale Tardini per aiutare i ragazzi promettenti e privi di mezzi, che nel corso dei decenni è diventato il punto di riferimento della diplomazia in talare. Gli episcopati nordici avrebbero chi li ascolta anche a Roma, nella persona di monsignor Joseph Clemens, che è stato segretario del Papa fino a poco prima dell’elezione. Era (ed è) una delle persone che godono della familiarità del Papa (che va a cena da lui un paio di volte al mese) fino, dicono, a curarne la persona. «Con Bertone non c’è simpatia, e soprattutto il Segretario di Stato non amerebbe che il gioviale vescovo tedesco tornasse a un ruolo istituzionale vicino al Papa, per esempio nel ruolo di Prefetto della Casa Pontificia», dicono in Curia.
Ma le manovre dell’Europa del Nord non sono l’unica minaccia da cui il Segretario di Stato deve guardarsi. Anche il Sostituto alla Segreteria di Stato, l’arcivescovo Ferdinando Filoni, scelto proprio da Bertone, avrebbe da tempo cominciato a muoversi in maniera molto indipendente, allacciando rapporti stretti con l’arcivescovo Paolo Sardi, certamente non uno dei fan del Segretario di Stato, l’uomo che controlla i discorsi del Papa, e che da Benedetto XVI ha «ereditato» una figura molto importante: la ex governante del Pontefice, ora sua governante, Ingrid Stampa, che lavora in Segreteria di Stato; una delle poche persone che hanno accesso all’Appartamento. E qui si tocca un altro punto chiave, della crisi che sembra attraversare la Chiesa. Se sotto Wojtyla (finché è stato bene) l’Appartamento sembrava, secondo i critici, «una locanda», con gente che entrava e usciva continuamente, ora dopo le cinque, nei corridoi si sentono solo i passi del Papa, di don Georg e delle "Memores Domini" che lo accudiscono. «Rare le visite, persino dei cardinali d i Curia: il Prefetto dei Vescovi, Re, che deve per ufficio andare dal Papa per portargli le proposte di nomina dei vescovi in tutto il mondo, viene ricevuto una volta al mese. Il cardinale Hummes, Prefetto del Clero, cioè responsabile delle centinaia di migliaia di sacerdoti, è stato ricevuto due volte in due anni», dicono persone vicine al Papa. Altri porporati, una volta o al massimo due, dalla nomina.
Nel 1983, di ritorno da un viaggio nella Polonia di Jaruzelski, e dopo aver incontrato segretamente Lech Walesa imprigionato dal regime, Papa Wojtyla lesse sulla prima pagina dell’Osservatore Romano un fondo intitolato: «Onore al sacrificio», in cui si sosteneva che la Chiesa aveva sacrificato il leader di Solidarnosc alla realpolitik. Nel giro di poche ore il Papa accettò le dimissioni di monsignor Virgilio Levi, autore dell’articolo e vicedirettore del quotidiano. La Chiesa vive oggi nel regno di un papa mite; tanto mite da scrivere una lettera ai vescovi di tutto il mondo per scusarsi di essere stato servito male dai suoi collaboratori. Forse però qualche responsabilità ce l’ha anche il Pontefice. Se è vero che alla riunione in cui si è messa a punto la revoca delle scomuniche erano presenti, oltre a Benedetto XVI: il cardinale William Levada, Prefetto della Congregazione per la Fede; il cardinale Giovanni Battista Re, Prefetto della Congregazione per i Vescovi; il cardinale Dario Castrillon Hoyos, presidente di "Ecclesia Dei", la commissione incaricata di occuparsi dei lefebvriani; e il Sostituto alla Segreteria di Stato, l’arcivescovo Ferdinando Filoni (nel verbale della riunione ci sarebbero tre suoi interventi) è evidente che nessuno di loro può chiamarsi fuori. Ma a quella riunione non era presente, perché non convocato, l’uomo certamente più importante per l’immagine del Papa nel mondo, e cioè il Direttore della Sala Stampa Vaticana, padre Federico Lombardi. Joaquin Navarro Valls - di cui forse oggi Benedetto XVI rimpiange un troppo frettoloso allontanamento - aveva un contatto continuo con l’Appartamento. Nella corte vaticana questa posizione «privilegiata» gli procurò una quantità infinita di nemici (fra l’altro era - orrore - un laico!) che non mancarono di fargli pagare il conto. Con l’elezione di Benedetto XVI si tornava - furono parole pronunciate in Segreteria di Stato - «alla normalità». Ma se la «normalità» è quella di un Papa che deve scrivere ai vescovi per chiedere scusa di gesti di riconciliazione mal gestiti e mal spiegati...
Nessun commento:
Posta un commento