lunedì 2 marzo 2009

Scandalo velodromo


di Alessandro Ferrucci

Giù la testa, tapparelle chiuse e vetri aperti. C’è l'esplosione del Velodromo di Roma. Oltre 66mila metri quadri crollati sotto 1800 cariche di tritolo piazzate dal Genio militare: è il 24 luglio del 2008, sono le 17.50, e la storia di uno dei più avveniristici impianti per ciclismo da pista, costruito in occasione delle Olimpiadi del 1960, finisce in un attimo. Al suo posto deve nascere la «città dell’acqua, dello sport e del benessere», con piscine, un centro medico di diagnostica e riabilitazione motoria, un albergo e ancora e ancora... È business, dicono.

Se ne parlava da giorni, mesi, anni, tra i dubbi. In particolare dei comitati di cittadini, architetti e appassionati pronti a ribattere punto su punto a chi raccontava dei fanta milioni che sarebbero arrivati sul quartiere di Roma, simbolo dell’architettura fascista. Eppure il botto c’è stato. Forte, calibrato, spettacolare, «senza nessuna scossa rilevata dai sismografi», fanno sapere dalla Eur spa, la società proprietaria del Velodromo. Ma polveroso. Molto.

Per giorni le case dei dintorni sono state invase da una finissima coltre «che si era infilata dappertutto» racconta Cristina, una delle cittadine coinvolte. Con il fastidio direttamente proporzionato alla paura; la paura di aver inalato ingenti quantità di amianto. Anche perché è stato inatteso: l'esplosivo era stato piazzato il giorno prima, il 23, ma l’operazione bloccata per un ricorso al Tar. Poi però, l’ordine del Prefetto: «Fatele brillare, non sono più removibili e quindi pericolose». Boom. «E noi avvisati da un volantino appeso qua e là. Basta. Io camminava poco lontano e sono stata “assalita” dalla polvere. Se ci penso ancora, tremo. Ho paura della polvere-killer». Si, perché «dagli anni ‘30 fino alla legge del ’92, che ne ha proibito l’impiego, in Italia si utilizzava molto il cemento amianto» spiega la professoressa Gaia Remiddi, docente di progettazione e architettura urbana presso la facoltà di architettura de La Sapienza. «Era un materiale eccezionale: leggero, economico, resistente - continua -. E i tre responsabili del progetto, gli architetti Ligini e Ricci, più l'ingegnere Ortensi, ne facevano largo uso in tutte le loro realizzazioni». Compreso il Velodromo.

Per questo nel 2005 la Eur spa, di proprietà al 90% del Ministero delle Finanze e il resto del Comune, «effettua una mappatura a vista dei materiali» interviene Matilde Spadaro, consigliere del Municipio XII. Quindi via il gruppo elettrogeno e la centrale termica, pericolosi per gli operai impegnati nel mantenimento della struttura. Con un «però»: da quanto è emerso nella Commissione ambiente dello stesso Municipio, la ricognizione di circa quattro anni fa non fu finalizzata alla demolizione, come ha spiegato lo stesso Dott. Fulvio D’Orsi, responsabile dell’amianto per la Asl competente. Ecco, così, salire la preoccupazione di tutti coloro i quali sono coinvolti, compreso il professor Annibale Montana, geologo dell’Università di Roma3, e abitante all’Eur: «I miei punti interrogativi nascono da una vicenda vissuta in prima persona: nel 2004 con una mia studentessa ho visitato l’impianto. Tutto bene. Mentre i problemi sono sorti nel momento un cui ho chiesto la possibilità di effettuare dei prelievi di calcestruzzo. Era per una una ricerca. La riposta del responsabile, Filippo Russo, fu un secco no. Immotivato, direi anche maleducato». Nessuna accusa diretta da parte del professore «non ho le prove, ci mancherebbe, rilevo solo un comportamento alquanto anomalo. Da spiegare». Dubbi, e ancora dubbi. Motivati da dati allarmanti sul mesoteliamo: secondo una sentenza del 2008 della Cassazione, il cancro ai polmoni può arrivare a prescindere della quantità e del tempo di esposizione all’asbesto.

Insomma, bastano pochi granelli per «assicurarsi» un tumore alla pleura, incurabile. E stando alle stime degli pneumologi italiani, ogni anno 3mila persone vengono stroncate da patologie maligne correlate proprio all’amianto. «Per questo in molti si sono mossi per ottenere delle risposte» continua Matilde Spadaro. E il 5 agosto un coordinamento di cittadini e comitati presenta un esposto alla Asl e all’Arpa per verificare la non sussistenza di polveri pericolose. Ecco le prime indagini e la scoprta di tubazioni sospette fatte di cemento-amianto della lunghezza di 25 metri. Veleno puro, portato via con tutte le cautele. O quasi.

Stando a delle immagini realizzate da un’inquilina di un palazzo di fronte l’ex Velodromo, il 20 gennaio scorso si notano delle ruspe atte a scavare. Ancora polvere. Secondo la Asl anche in questo caso non c’è pericolo. Per il rappresentante territoriale per la sicurezza, invece sì: «Visto che le indagini non sono ancora chiuse, sarebbe meglio evitare interventi così invasivi. O quantomeno farli in regime di maggiore sicurezza». Vuol dire utilizzare delle pompe idrauliche puntate sulla zona, in modo da tenere bassa la polvere. Sempre lei...

«Comunque manca una settimana alla fine delle nostre indagini - rassicura il professor D’Orsi - e fino ad ora non abbiamo rilevato tracce d'amianto». Ricerche partite a settembre, un mese e mezzo dopo l’eplosione «perché l’area era sotto sequestro. E inoltre l’amianto trovato è stato già tolto». In notevole quantità: al 3 dicembre sono circa 2mila litri rilevati in sette punti. Una briciola rispetto a tutto quello che c’è ancora in giro per l’Italia: il Cnr ha calcolato che ne resistono 2,5 miliardi di metri quadri. Equivalgono a 32 tonnellate di cemento e amianto. Otto milioni di metri cubi. C’è ancora spazio, tempo e modo per preoccuparsi.
aferrucci@unita.it

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