giovedì 11 marzo 2010

Il decreto oltre confini


di Gian Carlo Caselli

Un gran pasticcio. Le ricostruzioni dei fatti divergono, ma frequente è la denunzia di varie forme di “dilettantismo”, con (si dice) contrasti di bottega per i nomi in lista e un’insaziabile avidità di panini. Segue un tentativo del governo di rattoppare in qualche modo la situazione con un decreto-legge interpretativo “salva liste”. Tentativo dai più giudicato maldestro, perché ha innescato una spirale di pronunzie della magistratura (ordinaria e amministrativa), con code di ricorsi e contro-ricorsi, mentre alcune regioni intendono rivolgersi alla Consulta denunziando un conflitto. Con la cupa prospettiva, ora, che la situazione possa degenerare in una sorta di rissa dagli esiti incerti.

Sullo sfondo (come poteva mancare?) il logoro refrain dei magistrati che “ce l’hanno con noi” e una intuibile “orticaria” per le regole, buone soprattutto quando sono gli altri a doverle osservare.

Come si vede, una matassa assai ingarbugliata, che ha prima di tutto gravi profili politici, dei quali però non intendo occuparmi perché ritengo di non avere né titolo né ruolo per farlo. Restando invece nel perimetro degli aspetti tecnico-giuridici della “querelle”, mi sembra di decisiva importanza interrogarsi – in ogni caso – su una questione di fondo: se si comincia a voler scrivere le sentenze con decreto-legge, dove andremo a finire?

Ho iniziato a pormi questo interrogativo sabato scorso, ascoltando al mattino le rassegne stampa radiofoniche che sintetizzavano un’intervista del ministro della Difesa Ignazio La Russa al Corriere della Sera sul tema appunto del decreto interpretativo. Credevo di aver capito male. Non può essere – mi dicevo – che un ministro della democratica Repubblica italiana, che come tutti deve ispirarsi alla Costituzione, sostenga tesi del genere. Poi ho comprato il giornale e ho letto coi miei occhi (pagina 2 del 6 marzo, intervista di Alessandro Trocino intitolata “Ora è impossibile che il Tar ci dia torto”) questa testuale dichiarazione del ministro: “Non potevamo (aspettare il Tar): questo decreto serve al Tar per decidere meglio. Ora è impossibile che ci dia torto”. Stropicciarsi gli occhi, darsi dei pizzicotti non è servito a nulla. Le parole quelle erano e quelle restavano. Carta canta. Ed ecco snocciolato, sostanzialmente, il principio che le sentenze si possono scrivere con decreto governativo. Per di più da un pulpito autorevole e prestigioso come quello di un ministro.

Ora sappiamo che il ministro è stato cattivo profeta, ma questo “infortunio” nulla toglie alla sostanza del problema. Ero e sono convinto – in base al principio della separazione dei poteri – che non spetta al governo scrivere le sentenze (con decreto legge o in qualsivoglia altro modo), ma esclusivamente alla magistratura. Me l’avevano insegnato sui banchi dell’università.

Ne avevo trovato conferma leggendo, tra gli altri, un certo Charles de Secondat, barone di La Brède, meglio noto ai giuristi e non solo come Montesquieu. Quello che ha insegnato e ancora oggi insegna a tutti che la libertà si ottiene col rispetto della legge, ma è garantita – appunto – dalla divisione dei tre poteri principali dello Stato: legislativo, esecutivo e giudiziario. Principi che nella nostra Costituzione sono ripresi e consacrati con assoluta, univoca chiarezza, disegnando un sistema di bilanciamento dei poteri (“checks and balances”) che è proprio di ogni democrazia occidentale. Bilanciamento in assenza del quale la “tirannide della maggioranza” è sempre in agguato, come scriveva già un paio di secoli fa Alexis de Tocqueville, altro pilastro del pensiero liberale moderno.

Vero è che il libero e autonomo esercizio della funzione giudiziaria ha dovuto subire – nel nostro paese – condizionamenti non infrequenti. Lo dimostra la lunga sequenza di leggi “ad personam”, talora finalizzate anche all’assoluzione di imputati eccellenti, ad esempio stabilendo che il fatto (caso tipico il falso in bilancio) non è più previsto dalla legge come reato, oppure dimezzando la prescrizione in corso d’opera. Ma si è trattato di leggi che venivano presentate come ispirate anche ad esigenze di carattere generale. Forse una foglia di fico, ma la facciata era fatta salva. Ben altra, invece, è la lunghezza d’onda quando si scrive un decreto legge perché un giudice (sia pure amministrativo) non possa decidere dando eventualmente torto alla maggioranza governativa, e si rivendica questo proposito con impegnative dichiarazioni “ministeriali”.

Posto un simile precedente, cosa potrebbe succedere, domani o dopodomani? Nel lontano 1900 (ma le sue parole valgono ancora oggi…) Gaetano Mosca scriveva: “È sperabile che le nostre classi dirigenti, edotte dall’esperienza, comprenderanno finalmente che, quando si permette uno strappo alla giustizia e alla legalità, non è possibile prevedere dove lo strappo andrà a fermarsi e che può eziandio accadere che esso si allarghi tanto da ridurre a brandelli tutto il senso morale di un popolo civile”. Parole che dovrebbero far riflettere. Ma se scivolano come acqua sul marmo i sacri postulati di Montesquieu o Tocqueville, figuriamoci Mosca. Eppure, chiedere che la tentazione di scrivere sentenze con decreto-legge non si riproponga, chiedere che nessuno abbia mai più a prospettare una simile idea, oggi in sostanza significa chiedere – semplicemente – che non siano oltrepassati i confini dell’accettabilità democratica.

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