Quando Angela Merkel e Nicola Sarkozy hanno insieme invocato, dal podio di Bruxelles, un «governo economico europeo» gli spasmi dell’Europa, vittima potenziale di una crisi causata da altri, sono divenuti evidenti. Che fosse minacciata l’Unione stessa si poteva fingere di ignorarlo finché erano colpiti una banca, un settore industriale, o uno Stato vicino; non più ora che vacilla un Paese dell’euro. Lo si capisce particolarmente in Germania, il Paese che, rinunciando al marco, ha posto la propria sicurezza monetaria nelle mani dell’Europa (un passo che
Ora, se vogliamo che, tra i molti possibili, prevalga l’esito migliore dobbiamo interpretare il corso storico che produce lo spasmo e definire correttamente i compiti del «governo economico europeo». Per farlo occorre capire che finisce la fase, iniziata un quarto di secolo fa, in cui il progetto europeo, in contraddizione coi Trattati fondatori, si esauriva nel mercato unico. Un mercato unico nel quale l’intervento pubblico veniva bandito dalle competenze europee anche in campi previsti dai Trattati dove l’Unione poteva far risparmiare soldi e guadagnare efficacia (energia, ricerca, trasporti e altri). Il mercato doveva essere europeo, ma l’intervento pubblico ridiventava monopolio nazionale. Onde l’asfissia del bilancio dell’Unione, il no al piano Delors del 1992, il no agli eurobonds.
L’Unione regrediva a coordinatore di politiche nazionali, non era attore in proprio. Non strumenti europei di politica economica, ma concerto degli strumenti nazionali: un concerto senza spartito e senza direttore che emetteva cacofonie peggiori di quelle immortalate da Fellini in Prova d’orchestra. Si diffondeva l’assurda pratica in nome della quale Bruxelles compensava l’assenza di competenze proprie ficcando il naso in quelle altrui, ben più di come faccia un vero governo federale; pratica senza costrutto perché, al dunque, i coordinandi decidevano di non darsi reciprocamente fastidio e producevano solo impotenza e discredito per l’Unione stessa. Ironia della sorte, la strategia del «mercato soltanto » ha infine minato il mercato stesso. Un numero crescente di direttive europee definisce l’armonizzazione necessaria come la libertà per ognuno di fare quello che vuole, legittimando regole nazionali che discriminano lo straniero. Quale ministro, ho dovuto recepire nell’ordinamento italiano norme europee autorizzanti pratiche protezionistiche che le leggi italiane vietavano: l’Europa m’imponeva non l’apertura ma la chiusura delle frontiere!
Oggi la crisi minaccia di morte proprio il mercato e siamo al bivio tra coordinamento e vero governo economico dell’Unione. Questo avrà un senso e sarà efficace solo se doterà l’Ue di competenze e strumenti propri, come i Trattati prevedono. Non solo una effettiva applicazione del patto di Stabilità che ponga fine all’indulgenza reciproca, ma anche iniziative quali un programma europeo di investimenti finanziati con obbligazioni dell’Unione, una riforma del bilancio che riduca la spesa nazionale e aumenti (meno che proporzionalmente) quella europea, una tassa europea sulle emissioni di carbonio, una vigilanza finanziaria realmente europea, una vera politica dell’energia.
Tommaso Padoa-Schioppa
14 marzo 2010
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