di Marco Travaglio
I dati d’ascolto hanno già fatto giustizia delle censure preventive tentate dai Tafazzi della Rai contro Vieni via con me. Sulla qualità del programma nessuno ha avuto nulla da ridire: sarebbe curioso il contrario, in una tv farcita di politicanti, servi, mignotte di regime e silicone. Solo in un Paese ridotto a lazzaretto uno scrittore del calibro di Saviano attenderebbe quattro anni dal trionfo di Gomorra prima di avere in tv uno spazio tutto suo.
Ciò premesso, Roberto potrebbe convenire con noi che molti, da uno come lui, si aspettavano qualcosa in più. Non c’era bisogno di scomodare lui per dire che Falcone era un uomo giusto e per questo fu vilipeso in vita e beatificato post mortem: tutte cose ampiamente risapute.
Da Saviano ci si attende che parli dei vivi, non dei morti già santificati: cioè di quei personaggi (magistrati, ma non solo) che oggi rappresentano una pietra d’inciampo per il regime e proprio per questo, come Falcone, vengono boicottati, screditati e infangati appena osano sfiorare certi santuari. Elencarli è superfluo, li conosciamo bene. E conosciamo gli argomenti tabù di cui in tv conviene non parlare, perché chiunque ci abbia provato s’è ritrovato in mezzo a una strada o in un dossier di Pio Pompa e i suoi fratelli.
L’impressione è che, nel programma di Fazio e Saviano, si sia deciso di rinviare ad altra data i temi più scottanti (mafia e Stato, trattative sulle stragi, monnezza e politica camorrista, casi Dell’Utri, Cuffaro, Schifani), lasciando al magnifico Benigni il ruolo del rompighiaccio.
Speriamo che vengano recuperati nelle prossime puntate.
La critica, dunque, investe non tanto Saviano, quanto i suoi autori, che hanno allestito il perfetto presepe della sinistra politicamente corretta, con tutti i santini, gli angioletti, i pastori, le pecorelle e le altre statuine leccate e laccate, pettinate e patinate.
La versione televisiva delle figurine Panini veltroniane.
Da quel presepe, in cui è appena entrata la statuina di un Vendola sempre più imparruccato, devono sparire le figure controverse, scapigliate, borderline. E allora, per una malintesa par condicio, ecco l’assurdo parallelo tra la “fabbrica del fango” dei corvi anti-Falcone e chi, magari sbagliando ma mettendoci la faccia, criticò il giudice poi morto ammazzato.
Chi scrive pensa che il grande Sciascia, mal consigliato, prese un’epica cantonata accomunando Borsellino ai “professionisti dell’antimafia”, infatti ne fece pubblica ammenda in un incontro con Borsellino.
Ma tutt’altro discorso meritano i rilievi che molti suoi amici mossero a Falcone quando andò a lavorare per il ministro Martelli nel governo Andreotti. Saviano ha mostrato l’avvocato Alfredo Galasso mentre, sul palco di Costanzo, invitava l’amico Giovanni a “uscire dal palazzo” maleodorante di cui entrambi conoscevano i padroni di casa e i rapporti con la mafia già immortalati – Leoluca Orlando lo ricordò quella sera, nella staffetta Santoro-Costanzo – nelle relazioni dell’Antimafia.
Chi l’ha detto che avesse torto Galasso e ragione Falcone?
Il fatto che Falcone sia un martire cristallino della lotta alla mafia non significa che non abbia mai sbagliato in vita sua.
Il suo primo progetto di Superprocura (assoggettata al governo) disegnato con Martelli suscitò la rivolta di centinaia di magistrati, Borsellino compreso. E in ogni caso Galasso le critiche a Falcone le mosse vis à vis, senza nascondere la faccia o la mano in dossier o lettere anonime. Che c’entra allora Galasso con la fabbrica del fango?
Non a torto, Aldo Grasso ha definito gli eccessi di retorica di Vieni via con me come un antipasto del governo di unità nazionale. Lunedì sera il conformismo “de sinistra” che pettina tutti allo stesso modo ha sbaragliato il conformismo berlusconiano del Grande Fratello. Ma c’è da dubitare che sia quello l’antidoto al berlusconismo. Questo sarà pure al tramonto, ma almeno è durato trent’anni. Il presepe del perfetto progressista rischia di stufare molto prima.
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