domenica 5 febbraio 2012

Da il Cittadino del 30 Gennaio 2012


Ultimo addio al direttore “innovatore”

Picchetto d’onore per i funerali di Morsello a San Lorenzo

Il picchetto della polizia penitenziaria “saluta” la salma di Morsello (riquadro)


Picchetto d’onore per l’addio a Lui­gi Morsello, ex direttore della Casa circondariale di Lodi. Sabato matti­na sono stati celebrati i funerali per il 74enne che per anni ha guidato il carcere del capoluogo. Attorno al fe­retro si è riunita una grande folla, oltre alla moglie e ai figli. E in omag­gio all’uomo, che ha innovato il si­stema detentivo nazionale, gli agenti dell’amministrazione penitenziaria si sono schierati in alta uniforme sul sagrato della chiesa di San Lorenzo. Le esequie sono state celebrate dal parroco di San Lorenzo, don Attilio Mazzoni. A fianco a lui, sull’altare, per la liturgia eucaristica anche il cappellano della struttura di via Ca­gnola, don Luigi Gatti, e l’ex assi­stente spirituale della Casa circon­dariale, monsignor Mario Ferrari. «Ha trascorso la sua esistenza nel mondo della giustizia umana ­ ricor­da quest’ultimo ­ aveva un’intelli­genza vivacissima e un carattere gioviale, forse a volte un po’ burbe­ro, ma era solo un’impressione che nel giro di breve tempo si dissolve­va». Il sacerdote ha quindi ricostrui­to la brillante carriera dell’ex diret­tore, che aveva ricoperto ruoli im­portanti in ben 18 istituti, dal Nord al Sud del Paese. Era arrivato a Lodi nel settembre del 1997 ed era rimasto nel capoluogo fino al pensionamen­to, nel gennaio 2005. Molto apprezza­to da molti, si è distinto per il corag­gio di alcune iniziative. È stato in­fatti il primo direttore di carcere in Italia che ha avviato, proprio a Lodi, il reinserimento lavorativo dei dete­nuti che avevano compiuto reati co­me violenze sessuali o pedofilia. «La detenzione deve avere anche il fine di favorire il reinserimento sociale ­sottolinea monsignor Mario Ferrari dobbiamo educare coloro che sono detenuti a tornare nella comunità, con uno spirito rinnovato. Questo obiettivo Morsello l’ha perseguito nel suo lavoro. Le colpe hanno infatti certamente una responsabilità personale, ma ci sono anche responsabilità sociali e famigliari che non si possono negare». 
Alla cerimonia funebre ha partecipato anche il provveditore per le car­ceri lombarde, Luigi Pagano, oltre al comandante della polizia peniten­ziaria, Raffaele Ciaramella, diversi agenti impegnati in via Cagnola, e il volontario in carcere e assessore del Comune di Lodi, Andrea Ferrari. Luigi Morsello era stato infatti uno dei promotori dell’inserto che esce in allegato al Cittadino, intitolato “Uomini liberi”, e aveva dato impulso a diversi iniziative per aprire le porte del carcere alla città. La salma è stata sepolta al cimitero di San Bernardo.

giovedì 26 gennaio 2012

Addio a Morsello, cambiò il carcere(26 gennaio 2012)
Aveva appena compiuto 74 anni. Luigi Morsello, il direttore di carcere che ha innovato il sistema detentivo italiano, se n’è andato ieri mattina, intorno alle 6, nel suo letto d’ospedale. Da 15 giorni era ricoverato per problemi di fegato e non si è più ripreso. La sua scomparsa lascia un grande vuoto nel mondo penitenziario. Molto apprezzato per le sue doti umane, Morsello era arrivato a Lodi nel settembre del 1997 ed era rimasto qua fino al pensionamento, nel gennaio 2005. Proveniva da una lunga esperienza, nelle carceri italiane. Era stato in 18 istituti, dal Nord al Sud dello stivale, affrontando anche momenti difficili, negli anni caldi della contestazione, finendo persino a processo, per essere poi assolto. Morsello non faceva mistero neanche della sua malattia, la depressione bipolare che l’aveva condotto persino a spararsi un colpo di pistola. L’aveva dichiarato, senza problemi, nel corso di un’intervista rilasciata al direttore del «Cittadino» Ferruccio Pallavera, alla vigilia del pensionamento. Negli ultimi anni era riuscito a curarla, con l’uso di un farmaco che nessuno gli aveva mai consigliato. Era molto soddisfatto per questo. Eppure il tentativo di suicidio, aveva detto pensando in positivo, l’aveva legato ancora di più alla vita, alla moglie e ai suoi tre figli.
Parole di cordoglio arrivano dal provveditore Luigi Pagano. «È stato un mio direttore - commenta - e poi un amico quando è andato in pensione. Ci scrivevamo molto. La sua era una personalità a tutto tondo. Si interessava di tutto e su tutto aveva un’idea. Un’idea non da bar, ma da tecnico che entra nei dettagli con competenza. Era un uomo puntiglioso. Le sue note erano piene di riferimenti giurisprudenziali e bibliografici. Ci siamo visti l’ultima volta a Lodi per il suo libro “La mia vita dentro”», che era stato poi presentato anche in Parlamento.
«Era un direttore decisionista - aggiunge Pagano -, ovunque andasse lasciava il segno. Quando arrivava in un istituto, in quattro e quattro otto sistemava le cose. A tutto pensava, tranne che si potesse riposare. È stato il primo direttore di carcere in Italia che ha avviato, proprio a Lodi, il reinserimento lavorativo dei detenuti che avevano compiuto reati come violenze sessuali o pedofilia. Ci voleva un bel coraggio, in una struttura di provincia come la Cagnola, in quel periodo. Sulla base di questa sua esperienza è stato aperto un reparto analogo, successivamente, a Bollate. Ovunque andasse risolveva i problemi aperti. Era un burbero apparente: dietro la facciata si nascondeva un’infinita generosità». Sabato Pagano avrebbe dovuto partecipare all’inaugurazione dell’anno giudiziario. Invece ha scelto di venire con i suoi collaboratori ai funerali che si terranno nella chiesa di San Lorenzo, alle 9. (La salma partirà dalla casa, al 4 di via Vignati e sarà sepolta al cimitero di San Bernardo). «Era una persona originale - aggiunge con affetto il comandante della Cagnola Raffaele Ciaramella -, esercitava l’autorità senza problemi, non posso che dire bene di lui. Io e tutto il personale siamo molto rattristati e vicini alla famiglia. Per tutto il giorno non abbiamo parlato d’altro».
Pasquale Franco dell’Associazione lodigiana volontariato carcere riconosce a Morsello «doti di grande umanità. «Era una persona molto disponibile - racconta -. Ci diceva sempre: “Trovate un lavoro a questi detenuti che li facciamo uscire tutti. Il carcere non serve a niente. Se queste persone vanno fuori guadagnano qualcosa e mantengono la famiglia. Non si redimono certo stando in branda”. Avevamo portato anche il lavoro in carcere. La Bassani motori forniva i motori da avvolgere e assemblavano le plafoniere della Brocca. Poi le porte si sono aperte e i detenuti hanno iniziato a lavorare per la cooperativa San Nabore e per la Luna. Alcuni lavorano ancora lì adesso. Morsello era un uomo capace di comprendere i grandi drammi esistenziali che si nascondono dietro le persone ristrette. «Se ci fossimo trovati nelle stesse circostanze di vita di queste persone - diceva - avremmo fatto anche noi come loro. Veniva sempre incontro ai volontari. Capiva che eravamo preziosi. Morsello ha umanizzato il carcere». Il volontario di “Los Carcere” Andrea Ferrari è sinceramente commosso. «A lui - dice - devo il mio ingresso in carcere come volontario, insieme ad Alex Corlazzoli e Cristiano Marini. Con lui e il direttore del Cittadino abbiamo dato il via al giornale “Uomini liberi”. Sotto la sua direzione a Lodi abbiamo avuto il record di “articoli 21”, cioè di detenuti che uscivano in permesso di lavoro. Nonostante l’età, aveva molto più a cuore il lavoro all’esterno che le attività ludiche in carcere. Era uno che riusciva a pensare a tutto, persino a progetti sul territorio. Dopo il suo pensionamento il nostro rapporto di incontri è stato sempre costante. Parlavamo di tutto, di carcere, ma anche di politica. Amava molto questa città (Morsello era nato in Basilicata e si era laureato all’università di Napoli, ndr). La sua perdita non sarà facile da compensare. Morsello andava fino in fondo nelle sue battaglie. Quando mi capitava di andare in direzione, già in lontananza sentivo la musica classica che usciva dal suo ufficio. L’augurio è che ritrovi là dove andrà la musica che amava tanto e che questa gli dia serenità».
Cristina Vercellone


Cari amici blogger, il babbo è mancato questa mattina presto.
Mancherà a tutti moltissimo.Era un uomo straordinario.
Daniela

sabato 7 gennaio 2012

C’è del marcio in Danimarca




di Marco Travaglio


Ieri e oggi il Fatto pubblica il calendario dei processi eccellenti del 2012: una lista impressionante di politici, ex premier (uno, il solito), presidenti del Senato in carica (uno, il solito), ex ministri, ex sottosegretari, governatori, sindaci, assessori, banchieri, finanzieri, imprenditori, generali e altri presunti servitori dello Stato imputati o già condannati in primo grado per reati gravissimi. Il fior fiore della “classe dirigente” alla sbarra.
Basta quell’elenco a spiegare l’improvviso ritorno di fiamma per il “dramma delle carceri”, che naturalmente non li angoscia per l’esorbitante numero delle persone attualmente in galera, ma per quello altrettanto spaventoso dei Vip che potrebbero finirci presto.
Intanto il principale partito di opposizione, la Lega Nord, denuncia il vero scandalo che ammorba la politica italiana: la festa di Capodanno del premier Monti e famiglia nell’alloggio di servizio di Palazzo Chigi. Un baccanale trimalcionico così scandaloso da indurre Roberto Calderoli, novello Catone il Censore, a invocare le immediate dimissioni di Monti, previe scuse agli italiani, e a presentare un’interrogazione parlamentare per sapere “se corrisponda alla verità la notizia secondo cui la notte dell’ultimo dell’anno si siano tenuti dei festeggiamenti presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri in Palazzo Chigi” e “chi ha sostenuto gli oneri diretti e indiretti della serata” perchè “mentre i cittadini sono costretti a tirare la cinghia, per usare un eufemismo, dalle misure del suo governo, sarebbe incredibile, oltre che gravissimo, se venisse confermato che il premier ha utilizzato un Palazzo istituzionale e il relativo personale per una festa privata”.
Il neomoralizzatore padano dev’essere lo stesso che prendeva soldi da Fiorani e non batteva ciglio quando il suo premier (il solito) scarrozzava nani, ballerine e mignotte sugli aerei di Stato o faceva scortare le Papi-girl da plotoni di poliziotti e carabinieri. Purtroppo gli è andata male: Monti ha risposto di aver cenato sobriamente con una decina di parenti stretti senza spendere un euro di denaro pubblico: “gli acquisti di cotechino, lenticchie, tortellini e dolce sono stati effettuati a proprie spese dalla signora Monti”, che poi ha provveduto a cucinare e servire in tavola. A mezzanotte e un quarto erano già tutti a dormire. Una scena di tale sobrietà e mestizia che parlare di “festa” pare davvero eccessivo.
Ma, non contento della figuraccia, Calderoli ha voluto collezionarne una seconda con un’intervista alla Stampa in cui insiste a definire la cena “assolutamente inaccettabile” perchè “la signora Monti che sparecchia e lava i piatti non me la vedo” e a pretendere “una risposta nelle sedi istituzionali”. Bravo, parole sante, avanti così.
Ma, se gli scandali della politica italiana sono questi, fa bene il Corriere ad allestire un paginone intitolato “Corruzione in Europa, gli scandali degli altri”. Direbbe Totò: malcostume, mezzo gaudio.
Il bello è che, fra gli scandali degli altri, c’è il caso del presidente tedesco Wulff sull’orlo delle dimissioni per aver telefonato a un cronista della Bild pregandolo di interrompere una campagna di stampa contro di lui (l’ingenuo non sa che, in questi casi, si chiama direttamente l’Agcom per far chiudere un programma tv sgradito o l’editore del giornale per far licenziare il direttore).
C’è il caso, ancor più inquietante, del ministro della Difesa britannico Liam Fox che avrebbe spacciato un amico per un collaboratore per portarlo nei viaggi ufficiali (non gli era venuto in mente di spacciarlo per igienista dentale o nipote di Mubarak).
E soprattutto c’è il caso gravissimo della premier danese, Helle Thorning-Schmidt, travolta dallo scandalo non per una casa pagata a sua insaputa da un pubblico appaltatore, ma per la “dichiarazione fiscale poco trasparente del marito inglese”.
Tutto sommato, a noi va di lusso: abbiamo solo un premier che mangia cotechino e lenticchie nell’alloggio di Palazzo Chigi.
C’è del marcio, in Danimarca.

La droga del proibizionismo




BRUNO TINTI

Ho un amico laureato (anche) in teologia. Ci capita di discutere. Oggi abbiamo litigato sulla necessità del “male”, sulle scelte tra i “mali”, sull’ananke, la “necessità” che ci impone di fare non ciò che si dovrebbe ma ciò che si deve; sul traffico di stupefacenti. Gli ho detto (ma lui fa lo stesso mestiere che facevo io e quindi tutte queste cose le sapeva benissimo) che la percentuale di successo nel contrasto al traffico di droga è ridottissima. Che per sequestrare il 5 % del traffico di cocaina dall’America del Sud agli Usa si spendono miliardi di dollari. Che, secondo la Commissione Globale sulle politiche delle droghe, in dieci anni, dal 1998 al 2008, i consumatori di oppiacei sono aumentati del 34,5 % (da 12,9 milioni a 17,35); quelli di cocaina del 27 % e i dipendenti dalla cannabis sono aumentati da 147 a 160 milioni.

Lui mi ha detto che la ragione per cui si combatte la droga è che la droga è “male” e che combatterla è un imperativo etico. E che comunque anche una minima diminuzione del traffico si traduce in difficoltà di approvvigionamento. Io gli ho detto che impedire ai cartelli della droga di tenere in schiavitù intere nazioni (Colombia, Bolivia, Perù, Messico, Afghanistan, Pakistan e paesi emergenti dell’est europeo), di assassinare migliaia (magari di più?) di persone ogni anno, di condizionare la vita politica ed economica di milioni di persone; mi pareva imperativo etico di maggiore rilievo che combattere spinelli e righe di coca. Lui mi ha detto (non è mica scemo): “Lo so, tu vorresti legalizzare l’uso delle droghe: se le vendi in farmacia a 30 euro la dose i trafficanti spariscono di incanto. E per la verità anche la microcriminalità dei drogati che scippano e rapinano per comprarsi la dose. Ma non va bene perché a questo punto la facilità di approvvigionamento porterebbe a un incremento dell’uso”.

Io gli ho detto che l’incremento c’era già, ogni anno e che comunque oggi, con il proibizionismo, s’incrementa il marketing. Gli spacciatori stanno fuori delle scuole e regalano le prime dosi per farsi i clienti. È intervenuta sua figlia: “È vero papà, fuori della mia scuola lo sanno tutti che Ciccio è il capo dei ragazzi che ti vendono la marijuana”. Gli ho dato qualcos’altro di cui preoccuparsi: “Secondo te in qualsiasi discoteca c’è difficoltà a procurarsi ogni tipo di droga?”. “Il male va combattuto – ha concluso; secondo te, se una banda di terroristi sequestra 100 studenti e minaccia di ucciderli se lo Stato non ti ammazza (tu, il più probo e brillante degli uomini – ho annuito entusiasticamente), sarebbe giusto ammazzarti per salvare 100 ragazzi? Sarebbe una barbarie”. “No, non sarebbe giusto – gli ho detto – ma non per la ragione che dici tu. Perché, se lo Stato cedesse al ricatto, domani prenderebbero altri 100 studenti e gli ordinerebbero di ammazzare te, il secondo più probo e brillante etc etc”. Prima che desse fondo alla sua preparazione di filosofia teoretica gli ho dato il KO: l’ipse dixit che è alla base della filosofia tommasea. “Guarda che tutto questo lo dice quella Commissione di cui ti ho parlato”: “Terminare con la criminalizzazione delle droghe. Sfidare i luoghi comuni sbagliati invece di rafforzarli. Incoraggiare i governi a sperimentare modelli di regolamentazione giuridica della droga per minare il potere del crimine organizzato e salvaguardare la salute e la sicurezza dei cittadini.” Non l’ho convinto.

Il Fatto Quotidiano, 6 Gennaio 2012

Non ci provate



MARCO TRAVAGLIO

Il Corriere della Sera comunica: “Non sarà una sentenza della Consulta a far saltare il clima di tregua in Parlamento, non sarà la Corte a provocare fibrillazioni che metterebbero in difficoltà il governo di emergenza nazionale: in prossimità del verdetto sui referendum elettorali, istituzioni e partiti di ‘maggioranza’ sono stati rassicurati sul fatto che i quesiti per abrogare il Porcellum verranno bocciati. Così le forze politiche contrarie ai referendum non sarebbero costrette a muoversi d’urgenza per cambiare la legge, con l’obiettivo di evitare la consultazione. Una corsa affannosa contro il tempo alzerebbe il rischio di tensioni tra i partiti che si scaricherebbero sull’esecutivo. Con la bocciatura dei referendum, verrebbe quindi messo in sicurezza il sistema politico, non il sistema elettorale”. Secondo Repubblica, anch’essa molto informata, sei giudici sarebbero pro referendum, cinque contro e quattro incerti. Fra i contrari figurano i soliti Luigi Mazzella e Paolo Maria Napolitano (noti per la cena con B., Letta e Alfano prima della decisione sul lodo Alfano), oltre a Grossi (nominato dal presidente Napolitano),Frigo (indicato dal Pdl) e al presidente Quaranta (eletto dalla Corte dei conti e gradito al Pdl). Non sappiamo se tutto ciò sia vero, ma è molto probabile, visto che ieri nessuno ha smentito nulla.

Quindi, a una settimana dalla sentenza dell’11 gennaio, la Corte costituzionale, “giudice delle leggi” e massimo presidio di legalità del Paese, fa filtrare a due giornali, ai “partiti di maggioranza” e a imprecisate “istituzioni” gli orientamenti dei suoi membri, che devono restare segreti anche dopo la decisione, figurarsi prima. E se Repubblica attribuisce le divisioni a questioni giuridiche (il presunto “vuoto legislativo” che seguirebbe all’abolizione del Porcellum, peraltro smentito dai promotori che vogliono resuscitare il precedente Mattarellum), il Corriere dà una lettura tutta politica. Come se spettasse alla Consulta “mettere in sicurezza il sistema politico” (manco fosse una fognatura da coibentare) o preoccuparsi della “tregua in Parlamento” e del “governo di emergenza nazionale” (che i partiti, pur di sventare il referendum, rovescerebbero per andare al voto anticipato). E come se il referendum non fosse la più alta espressione della democrazia diretta, ma una cosa sporca da “evitare” a ogni costo per scongiurare “tensioni tra i partiti” e “sull’esecutivo”. Il tutto in barba a quei poveri illusi (1.210.466 cittadini) che hanno firmato il referendum pensando di vivere in una democrazia. Ora invece apprendono che non bisogna disturbare i manovratori: una casta, anzi una cosca di partitocrati nascosti dietro un pugno di banchieri e “tecnici” autoproclamatisi salvatori della Patria.

Destra e sinistra non esistono più: sopravvive solo la cultura autoritaria e oligarchica di queste sedicenti sentinelle del Bene che si sono autoinvestite del compito di confiscare la sovranità popolare e decidere loro, riunite in qualche tunnel, catacomba, loggia o angiporto, cosa è giusto per noi. Il silenzio della Consulta fa il paio con quello dei partiti: anche quelli che sei mesi fa esultavano per i referendum contro nucleare, acqua privata e impunità dopo averli sabotati in ogni modo; anche quelli (Pd e Fli) che hanno raccolto le firme contro il Porcellum con Parisi, Segni, Di Pietro e Vendola. Bersani e Fini non hanno nulla da dire su una Consulta che preannuncia la bocciatura del referendum? Nel 2009, alla vigilia della sentenza sul lodo Alfano – l’ha accertato il Tribunale del Riesame di Roma – la P3 riuscì “a ottenere l’assicurazione sul voto, nel senso voluto dai sodali, di sette dei 15 giudici della Corte”. Poi uno cambiò idea e il lodo fu bocciato nove a sei: ma “resta il fatto che tale ingerenza ci fu e venne esercitata su almeno sei giudici costituzionali che anticiparono a un soggetto come il Lombardi la loro decisione”. Ora la P3 è imputata per un’impressionante serie di reati. Ma i sei giudici sono sempre alla Consulta. Nessun’istituzione ha pensato di stanarli e cacciarli. Nessun monito si è levato dai colli più alti contro questo scandalo a cielo aperto. Da oggi però quei sei giudici infedeli devono sentirsi osservati: 1.210.466 cittadini italiani li guardano.

Il Fatto Quotidiano, 6 gennaio 2012

(Aggiornamento del 6 Gennaio 2012, 19.17) - La Corte Costituzionale ha diffuso oggi una nota in cui “smentisce categoricamente le fantasiose illazioni relative a presunte dichiarazioni attribuite dalla stampa a componenti della Corte in relazione alla prossima decisione riguardante l’ammissibilità dei quesiti referendari in materia elettorale”. 


Caso Raphael Rossi, il Mattino: ‘Rapporto finito per questioni di soldi e di consulenze’




VINCENZO IURILLO

Il quotidiano di Napoli cita un report commissionato ai dirigenti di Asìa dal vice sindaco con delega all’Ambiente, Tommaso Sodano, sui sei mesi della presidenza Rossi
Dietro il licenziamento o le dimissioni che dir si voglia di Raphael Rossi dalla presidenza di Asìa, la municipalizzata dei rifiuti di Napoli, ci sarebbe stato uno scontro su questioni di soldi. E più precisamente, sui costi di gestione e sulle consulenze firmate dal giovane manager venuto da Torino su chiamata del sindaco Luigi de Magistris per rilanciare un’azienda ingrippata e per avviare sul serio la raccolta differenziata nella città delle emergenze continue. E’ la tesi che fa capolino da un documentato articolo di Adolfo Pappalardo su Il Mattino. Nel quale si fa riferimento a un report commissionato ai dirigenti di Asìa dal vice sindaco con delega all’Ambiente, Tommaso Sodano, sui sei mesi della presidenza Rossi. Interpellato per dire la sua sulla vicenda, Sodano preferisce non commentare precisando però di non aver commissionato nessuna relazione. Ma non ne smentisce il contenuto, limitandosi ad aggiungere “che quando c’è un cambio di management in un’azienda è normale che chi subentri voglia sapere come ha lavorato chi lo ha preceduto”.

Il report citato dal Mattino, punta il dito su 5 consulenze decise da Rossi per un totale di 150.000 euro circa. Quattro di queste consulenze sono state chieste ai collaboratori più fidati di Rossi, provenienti anch’essi da Torino: si chiamano Robiati, Di Polito, Varisotti e Vecchiottie da tempo fanno squadra con il manager torinese. La quinta consulenza riguarda Studium, società che si occupa di studi in materie ecologiche, fondata dal professore di Sociologia della Sapienza di Roma Domenico De Masi. Sono tutte consulenze inferiori alle 50.000 euro, limite entro il quale Rossi, conformemente ai pieni poteri attribuitigli dall’azionista (il Comune di Napoli), poteva deliberare senza informare il Cda. Circostanza che però avrebbe fatto arrabbiare qualcuno, indispettito dal non aver potuto analizzare il curriculum e le competenze dei professionisti scelti. O forse semplicemente per non averne potuti indicare altri al loro posto. Malumori comunque generici, quelli messi nero su bianco sul documento, nel quale sarebbero finite anche le spese relative alla presidenza Rossi. Lo stipendio del manager torinese ammontava a circa 2500 euro al mese. Ai quali, però, si dovrebbero aggiungere un rimborso non forfettario di 2400 euro, il costo dell’appartamento in affitto occupato dal manager, le spese telefoniche e il rimborso delle spese di viaggio andata e ritorno verso Torino, dove Rossi ha casa e famiglia.

In assenza di spiegazioni convincenti da chi avrebbe dovuto fornirle, le ragioni dell’avvicendamento di uno dei simboli della rivoluzione arancione alla guida di Asìa, assomigliano a un complicato puzzle di tasselli. Andrebbero incastratati tutti e bene, per avere un quadro chiaro. Ma i tasselli stanno emergendo in maniera frammentaria, uno alla volta, e forse ne mancano ancora diversi. Cosicché il quadro riporta molti pezzi bianchi e altri poco chiari. Del puzzle fanno sicuramente parte i numerosi ‘no’ pronunciati da Rossi, i cui pieni poteri hanno finito per infastidire qualcuno, e ricordati sul blog aperto sulla versione web de ‘Il Fatto Quotidiano’, tra i quali quello all’assunzione di 23 ex lavoratori ultracinquantenni del bacino Napoli 5, sul quale ha riferito ai magistrati che indagano sull’Immondizia Connection a Napoli. E un tassello importante del puzzle è sicuramente il deterioramento dei rapporti con Sodano, che su molte vicende sindacali e gestionali ha assunto posizioni diametralmente opposte a quelle di Rossi. Ora spunta il tassello delle spese di gestione dell’Asìa. Sulle quali Rossi ha assicurato che spiegherà tutto nelle prossime ore sul suo blog.