giovedì 30 aprile 2009

METAFORE

LEONARDO SALERNO

Ciao Luigi, ecco un'altra foto che ho pubblicato oggi su facebook, si presta a molte interpretazioni, oggi l'ho usata per comunicare agli amici di facebook di non inviarmi comunicazioni con applicazioni che ritengo inutili perchè io non voglio diventare prigioniero del web come quel palo stretto dal filo spinato.
Questa foto fa parte dei miei ricordi adolescenziali, perchè si tratta di un filo spinato della recinzione del mio piccolo appezzamento di terreno, ormai abbandonato, al mio paese, dove andavo a giocare con i miei compagni ed ivi sviluppare la destrezza di oltrepassare la recinzione senza farsi male.
Dopo circa 38 anni è ancora li, il filo arrugginito che tiene stretto il palo che ha resistito a tutte le intemperie di questi anni.
A presto
Leonardo

Le crepe del G8


di Marco Lillo

È il quartiere generale dei soccorsi e dovrà ospitare il vertice dei Grandi. Ma un esposto contesta il progetto della scuola Fiamme Gialle: i piloni costruiti senza verifica antisismica.
A guardarla svettare nel cielo dell’Aquila, con le sue camerate che hanno resistito al terremoto, sembra davvero solida. Eppure la caserma Vincenzo Giudice della Guardia di Finanza, quella che dovrà ospitare nei primi giorni di luglio le delegazioni degli Stati del G8 nasconde sotto terra un mistero inquietante. Le sue fondamenta sarebbero state costruite con una tecnica anomala che non rispetta le norme e senza i calcoli necessari per verificarne la tenuta sotto sisma. Questo è quello che sostiene la relazione allegata a un esposto dell’Ordine degli ingegneri di Roma inviato alla Procura dell’Aquila del novembre del 2004. Il fascicolo è stato archiviato, ma la relazione resta significativa. Quando le delegazioni dei grandi del mondo, dopo una lunga giornata di lavori si stenderanno a riposare sui letti della scuola sottufficiali, fisseranno certamente il tetto chiedendosi prima di addormentarsi: "Reggerà sotto i colpi di un eventuale nuovo terremoto?".

L’onda lunga dello sciame non si esaurisce e a luglio, se le scosse continueranno, le delegazioni dei maggiori Stati industriali (che, nonostante il nome del vertice resti sempre G8, sono ben 23) dovranno ballare con gli aquilani sul terreno di Coppito, una frazione a pochi chilometri dal centro storico. Non si sa ancora chi dormirà nel complesso. Che sia Obama o l’ultimo degli sherpa sarà interessato però a leggere questo documento datato 2004. Il titolo è: "Esame tecnico strutturale e valutazione di elementi di anomalia o illegittimità nella costruzione del complesso di edifici "B2" della Scuola della Finanza dell’Aquila". La relazione riguarda nove palazzine che ospitano metà dei 2 mila allievi ed è firmata da un generale del genio aeronautico, Antonio Capozzi, e da un professore ordinario di tecnica delle costruzioni, Piero D’Asdia, incaricati nel 2004 dall’Ordine di Roma di verificare se i nove edifici fossero a norma e sicuri in caso di terremoto. La relazione di 57 pagine si conclude così: "Il progetto delle fondazioni, calcolato con uno schema, è stato realizzato con un altro del tutto anomalo e inspiegabilmente privo di una valida verifica dell’interazione terreno-struttura sotto sisma". Non basta: "L’incertezza statica è fondata e non assicura la pubblica incolumità". Parole che non sembrano spot a favore della decisione di Berlusconi di trasferire a Coppito il vertice. Obama e Medvedev forse sorrideranno un po’ meno, abbracciati al Cavaliere, sapendo che sopra la loro testa "sussistono potenzialmente sotto sisma problemi per la pubblica incolumità". Brown e Sarkozy non faranno salti di gioia scoprendo che "la situazione attuale di incertezza nella sicurezza degli edifici in esame, sotto sisma, non è tollerabile". La relazione fu fatta propria dall’Ordine nel 2004, che la inviò in Procura. Ma è stata scritta prima del sisma ed è contraddetta da altri tecnici e dalla magistratura. Comunque resta un documento da valutare con attenzione, tanto che lo stesso Guido Bertolaso, dopo esserne venuto a conoscenza, nel 2005, scrisse a Regione e Comune per chiedere chiarimenti. Insomma, anche se la magistratura ha archiviato tutto, anche se l’edificio ha retto al sisma, vale la pena raccontare questa storia. Anche perché dimostra che i controlli rigidi in Italia diventano di moda solo dopo i terremoti. Mentre prima restano riservati a pochi e isolati Don Chisciotte del rigore.

La caserma Giudice è stata realizzata da un consorzio guidato dalla Todini costruzioni dal 1986 al 1995 per un costo di 314 milioni di euro. Il progetto è firmato da uno studio famoso: quello di Vittorio De Benedetti. Solo dopo la costruzione dell’ultimo lotto, uno dei collaboratori dello studio, l’ingegner Sergio Andruzzi, si accorse dell’anomalia: il complesso B2, uno dei due gruppi di nove edifici che ospitano le camerate degli allievi, è stato realizzato, contrariamente a quanto scritto nel progetto e diversamente dal B1, senza che i pali di cemento delle fondazioni siano collegati alla struttura. Non c’è continuità nella gettata di calcestruzzo tra i piloni e le nove camerate sovrastanti. Una parte della caserma che ospiterà i grandi del mondo poggia su uno strato di 15 centimetri di materiale "stabilizzato" e non è vincolata ai pali sottostanti.

L’ingegnere Andruzzi, quando si avvede della difformità rispetto al progetto iniziale, salta sulla sedia. I calcoli che lui stesso aveva eseguito erano basati sulla tecnica di costruzione antisismica dei pali collegati, prevista dalla legge. La realizzazione invece si basa su un disegno che contrasta con i calcoli e usa una tecnica non prevista dalle norme senza che nel progetto si spieghi perché e soprattutto senza un calcolo che ne verifichi la tenuta in caso di sisma. Andruzzi affronta il suo professore e gli contesta la scelta (ideata dal figlio Stefano, erede dello studio). Dopo una discussione accesa, Andruzzi denuncia alla Procura dell’Aquila la storia della caserma che secondo lui è fuori legge.

Se avesse ragione, bisognerebbe abbattere un edificio costato 50 miliardi di vecchie lire e approvato (senza spendere una sola parola sull’anomala tecnica adottata) da due fior di collaudatori. Uno dei quali è il potente Angelo Balducci, che poi diverrà presidente del Consiglio superiore dei lavori pubblici. Per ben due volte la magistratura dell’Aquila archivia le denunce di Andruzzi. I periti del pm e del gip d’altronde, pur rilevando la difformità dal progetto, concordano sul fatto che l’opera non è pericolosa. Non avendo avuto successo con i magistrati, Andruzzi si rivolge all’Ordine di Roma nel 2004. Ed è proprio su incarico dell’Ordine, come detto, che i due periti D’Asdia e Capozzi stilano il loro parere . Nella disfida tra Andruzzi e il suo capo il verdetto è netto: "Ci sono illegittimità e violazioni delle normative tecniche nella progettazione e nella realizzazione della scuola e l’arbitraria separazione pali-struttura pone in dubbio la sicurezza sotto sisma". Nonostante tutto, l’esposto viene archiviato dalla Procura dell’Aquila in meno di un mese. Il 18 febbraio 2006, i due consulenti tornano alla carica, chiedendo all’Ordine di "far valutare al Demanio e alla Guardia di Finanza il grado di sicurezza del complesso, attualmente incerto ed indefinito, come indicato nelle conclusioni della consulenza, sussistendo allo stato attuale potenzialmente sotto sisma problemi per la pubblica incolumità".

Anche Andruzzi insiste e scrive ad Antonio Di Pietro quando diventa ministro delle Infrastrutture. Il ministro chiede un parere al Consiglio superiore dei lavori pubblici che nomina un’apposita commissione, la quale prima nota che, "in effetti, la fondazione è stata realizzata, diversamente da quanto progettato, senza vincolo di incastro tra platea e pali", ma poi salva l’opera con questa formula vaga: "Tale tipologia di struttura, pur differendo da quanto progettato, non appare comunque totalmente inusuale esistendo altri importanti esempi di opere costruite con criteri simili in zone ad alta sismicità come il ponte Rion nel golfo di Patrasso". Il Consiglio annota poi che nel progetto ci sarebbero dovuti essere calcoli coerenti con l’opera realizzata ma non ne trae le conclusioni.

L’indomito Andruzzi torna alla carica e insegue Di Pietro intervenendo durante una trasmissione radiofonica per contestargli la sua inattività. Con la solita franchezza il ministro rispose: "Ho sollecitato gli uffici. Di più cosa potevo fare? Metterci il mio stipendio per ricostruire la caserma? Non basterebbero cinquant’anni di buste paga". Effettivamente, se i mille ricorsi di Andruzzi fossero stati accolti, il contribuente avrebbe perso 25 milioni di euro in un sol colpo. E a tacitare le polemiche è arrivato il boato del 6 aprile. La scuola ha subito alcune lesioni, ma è rimasta in piedi. "L’espresso" ha risentito gli autori della relazione alla luce degli ultimi eventi. Le loro posizioni oggi divergono. Il professor D’Asdia non rinnega quanto scritto allora, ma aggiunge: "La scuola ha retto al terremoto e direi che, con tutti i difetti del collaudo, ha superato una sorta di prova sul campo". Quindi, disco libero per il G8. Il generale Capozzi resta scettico: "Quella caserma non rispetta le norme tecniche e oggi manca una verifica scientifica che possa offrire le dovute garanzie di sicurezza".

Ursus sfida l'Europa


MICHELE SERRA

Laureati in cyclette, gigolò e lanciatrici di bolas tra i candidati di Berlusconi alle Europee. Altro che veline e attricette

Con una nota ufficiale, il Popolo della libertà definisce "false e pretestuose le notizie di stampa sulle candidature alle europee. Non è vero che Silvio Berlusconi intenda mandare a Strasburgo solamente veline e attricette. Ci sono anche una contorsionista, una lanciatrice di bolas e due mantenute d'alto bordo con profumeria a Parigi. Inoltre - prosegue la nota - sono state taciute artatamente anche le numerose e qualificate candidature maschili, tutte di alto profilo". Per rimediare alla lacuna, rendiamo note le più qualificate.

Gloriano Una laurea breve in cyclette e un'esperienza professionale come gigolò hanno proiettato Gloriano Ramirez sulla copertina di 'Chi', la rivista ideologica della nuova destra italiana. Nella sua prestigiosa brochure, già presentata alla stampa estera in vista delle elezioni, Gloriano appare in copertina a torso nudo, unto di olio di cocco. All'interno, largo spazio per la sua versatile personalità: lo si può ammirare anche unto di besciamella, unto di olio di camion e, nell'ultima pagina, nella versione impanata che ha fatto impazzire le elettrici del Pdl.
Il suo programma politico prevede l'introduzione del perizoma tra le radici culturali dell'Europa.

Max Patanò 'Un ventriloquo per l'Europa' è lo slogan elettorale di questo popolare artista, che ha commosso il pubblico pomeridiano di Raiuno e Raidue raccontando la sua dura gavetta. Max, poverissimo, è infatti l'unico ventriloquo al mondo ancora sprovvisto di pupazzo: è costretto a mimare con le mani l'impertinente papero Goldo, che sogna un giorno di poter possedere davvero. Berlusconi, con uno dei suoi tipici atti di generosità, gli ha messo a disposizione uno dei suoi portavoce, ma Max, sia pure a malincuore, ha dovuto rinunciare: non riesce a tenere in braccio Capezzone nemmeno con lo speciale supporto messo a disposizione dai tecnici Mediaset.


Christian Christiani Costretto a ritirarsi dalla 'Fattoria' perché le mucche lo caricavano a prima vista, Christian si è iscritto a uno stage per tronisti, ha fatto il manichino vivente in un porno shop e infine ha cantato 'Rose rosse' all'inaugurazione di un caseificio. Convinto dai suoi genitori a rifarsi una vita normale grazie a un paio di rapine in banca, Christian non è riuscito a rimanere lontano dal mondo dello spettacolo. Aiutato dallo stesso Berlusconi, ha conosciuto finalmente il successo come direttore di 'Studio Aperto'. Alla richiesta di un suo programma per le europee, ha risposto che qualunque programma gli va bene, purché in prima serata.

Ursus Orfei Ultimo di una celebre stirpe di domatori, Ursus non ha avuto la stessa fortuna dei suoi avi: il suo numero con le aragoste non ha incontrato i favori del pubblico. Né gli è andata meglio come domatore di gatti e di branzini (l'errore è stato farli esibire insieme). Il successo gli è arrivato di colpo grazie all'aiuto di Berlusconi, che lo ha imposto nel cast dell'edizione moldava del 'Grande Fratello'. A Strasburgo Ursus vuole valorizzare la sua esperienza circense: intende coprire l'emiciclo di segatura e percorrerlo a dorso di elefante. Ha anche proposto che il presidente dell'assemblea inauguri ogni seduta con un prolungato rullo di tamburo.

Professor Manlio Carotenuto Laureato alla Sorbona in filologia classica, autore di importanti studi sulla letteratura romanza, Berlusconi gli ha offerto la possibilità di riscattarsi del suo passato compromettente. Lo ha imposto come petomane nel cast del nuovo show serale di Canale 5, 'Venghino signori'. Nella finalissima, battendo un suonatore di pettine e l'unico danzatore del ventre maschio al mondo, il professor Carotenuto ha stravinto petando le prime dieci battute del 'Bolero' di Ravel. Andrà al Parlamento europeo in rappresentanza del mondo della cultura.
(30 aprile 2009)

From 1966 film by Mikhail Shapiro of Dmitri Shostakovich's opera 'Katerina Izmailova' (the revised version of Lady McBeth of Mtsensk District).
The great Russian dramatic soprano, Galina Vishnevskaya, both sings and acts as Katerina Izmailova.
This is from Act I; after having a run in with the handsome new worker, Sergei, with her boring husband away on a business, Katerina is tired of her meaningless existence and longs for passion in her life... Zherebyonok k kobilke toropitsya.
Konstantin Simeonov conducting the Orchestra of the Shevchenko Opera & Ballet Theatre, Kiev.
If you enjoy this short clip, buy the Decca Label dvd of 'Katerina Izmailova'.
Very little of Vishnevskaya's performance during the Soviet era was preserved since all records of her in the USSR were systematically erased after her and her husband, Mtislav Rostropovich, were forced into exile for housing Aleksandr Solzhenitsyn at their dacha while he wrote all those great anti-Soviet books.
A crying shame!!

L'esempio di Torino nel mondo in crisi


30/4/2009
MARIO CALABRESI

Viviamo tempi inaspettati: l’automobile italiana va in soccorso di quella americana, un giovane afroamericano guida la nazione più potente del mondo, in pochi mesi è stata bruciata più ricchezza che in due guerre mondiali. L’incertezza è la cifra delle nostre vite e anche i giornali sono divisi tra la passione di raccontare una stagione eccezionale e la paura per una crisi che non li risparmia. Nel mondo occidentale c’è chi chiude i quotidiani, chi scommette sulla loro scomparsa e chi si ostina a credere, tenacemente, che proprio in mezzo alle difficoltà si debba guardare lontano. Immaginare sfide completamente nuove. «Non è importante quante volte cadi ma quanto in fretta ti rialzi», recita un motto popolare negli Stati Uniti: farlo proprio significa cercare di vedere possibilità e occasioni nelle avversità.

Così nella crisi globale della carta stampata, davanti alla necessità di ripensare i modelli tradizionali di giornalismo, Torino, casa di questo giornale, può esserci di esempio: si era persa nella fine della città fabbrica, ma ha trovato la forza di ripensarsi e di rinascere diversa, piena di fermenti e di energie nuove. Si parla molto del declino dei giornali e non possiamo negare che la tecnologia moltiplica le possibilità di ricevere informazioni e riduce i tempi dedicati alla lettura, ma poi ogni mattina oltre trecentomila persone ripetono il gesto di comprare La Stampa. A tutto questo dobbiamo provare a dare risposte: il flusso quotidiano su Internet, le notizie più fresche sui cellulari e le e-mail, mentre il senso della giornata troverà ancora il suo approdo naturale nella carta stampata.

Diversi i supporti, identici i valori di fondo, quelli che si sono tramandati per quasi un secolo e mezzo: l’amore per il lavoro fatto con cura, l’etica della responsabilità, i fatti, non le ideologie. Così come la fedeltà alla tradizione laica, da intendersi come rispetto delle posizioni, delle idee, delle fedi.

La Stampa continuerà ad essere un giornale con le sue radici in Piemonte, in Liguria e in Valle d’Aosta, ma che non rinuncia a parlare al resto dell’Italia e a raccontare cosa accade a Napoli e a New York, a Parigi e a Pechino. Il segreto di questo giornale è di non essersi mai chiuso nel suo territorio ma di aver raccolto gli stimoli migliori che venivano da tutto il Paese e dall’altra parte delle Alpi.

Ho avuto la fortuna di seguire Barack Obama, Presidente da cento giorni, in giro per gli Stati Uniti negli ultimi due anni e al di là delle sue parole d’ordine, «Speranza» e «Cambiamento», trovo che la sua vera forza sia la capacità di guardare avanti, di non farsi ingabbiare dentro schemi ideologici che appartengono ad un altro secolo. «Sono convinto - ha scritto nel suo libro più famoso - che ogni volta che esageriamo, demonizziamo o siamo arroganti, siamo condannati alla sconfitta. Sono la caccia alla purezza ideologica, l’ortodossia rigida e l’eterna prevedibilità del dibattito che ci impediscono di vedere le sfide che abbiamo davanti».

La sfida per i giornali è oggi quella di riuscire a decifrare la complessità offrendo chiavi di lettura. È di essere credibili, affidabili, corretti e curiosi. Il giornalismo non è intrattenimento, tanto meno l’inseguimento dell’ultima stranezza: mi sta a cuore che si spieghi se la febbre suina è davvero pericolosa, senza cadere in un sensazionalismo fine a se stesso, o se un terremoto può essere previsto senza farsi condizionare dalle convenienze politiche. Adesso per me comincia un’avventura nuova come direttore di questo giornale, e ho un doppio debito di gratitudine verso Giulio Anselmi non solo per avermi lasciato un giornale bello e autorevole, ma anche per aver creduto in me quando mi assunse all’Ansa diventando il mio primo direttore.

Il direttore che invece non ho mai avuto è stato Indro Montanelli. Quando vent’anni fa mi chiese se volevo fare il praticante, non ne avevo l’età e stavo iscrivendomi all’università, però poi mi regalò una passeggiata nei giardini di Porta Venezia, a Milano. Di quella camminata mi piace ricordare la sola cosa che secondo lui avrei dovuto stamparmi in testa: «I giornalisti sono al servizio dei giornali e i giornali dei lettori. Chi pensa il contrario farebbe bene a cambiare mestiere».

mario.calabresi@lastampa.it

Cerimonie e dispetti in Abruzzo


30/4/2009
LIETTA TORNABUONI

Prima del Papa, in Abruzzo, il 25 Aprile con i suoi dispettucci politici da scolari: Franceschini che dice «Sarò a Onna»; Berlusconi che replica «Vengo anch’io», sfalsa gli orari e, tra podio, discorso e telecamere, gli ruba l’idea e la scena. Dopo il Papa, Pescante ha solennemente promesso in conferenza-stampa un evento sportivo, la festa della Polizia è annunciata all’Aquila, sopravviene sulle macerie del terremoto il cosmopolitismo del G8. Il buon senso, invece, manca. Quando i terremotati chiedono che non si spengano i riflettori, si riferiscono a se stessi e ai loro problemi tragici, non al via vai di personalità e cerimonie, nazionali e internazionali, delle quali ovviamente non potrebbe fregargli di meno. Ciascuna di queste manifestazioni, la cui organizzazione sarà inevitabilmente difficile e assorbirà il lavoro di molti, non può rappresentare altro che un autentico impaccio per persone che stanno così male. La condizione dei terremotati è differente e infastidita dalle telecamere puntate altrove: mica sono politici.

Il modo per aiutare gli abruzzesi non è metterli in mostra, ma dar loro una solidarietà materiale: soldi, cose necessarie alla vita, accelerazione della ricostruzione. Il territorio devastato dal terremoto non è un salone per cerimonie: come si fa a non capirlo? Idee simili possono piacere solo al governo, l’unico che può considerarle soccorrevoli, entusiasmanti o utili. La lontananza tra presidente del Consiglio e cittadini colpiti non potrebbe essere più abissale: nulla pare poter indurre il primo ad astenersi dal fare i fatti suoi, ciò che crede essergli vantaggioso, neppure drammi che spezzano il cuore. È incomprensibile che l’essere andato sette-otto volte all’Aquila (impossibile non sapere quante volte, dato che ogni telegiornale o quasi l’ha ripetuto all’infinito) possa apparire uno sforzo sovrumano, un record altruista, la premessa a un lungo periodo di pre-elettorali celebrazioni ed esposizioni mediatiche.

Per le sentenze ci manca il Re Sole


30/4/2009
BRUNO TINTI

Ai tempi del Re Sole, quando si mandava una persona in prigione, si usava la «lettre de cachet». C’era scritto che Tizio doveva essere portato alla Bastiglia dove sarebbe restato per anni o per tutta la vita. Semplice ed efficace come sistema. Per fortuna le cose sono cambiate e adesso per farlo un pm deve chiedere a un gip; e gip e Tribunale della libertà debbono essere d’accordo. Poi si deve fare un processo con sentenza confermata in Appello e in Cassazione. Si capisce che oggi tenere qualcuno in prigione è più complicato.

Soprattutto perché chi firmava la «lettre de cachet» non spiegava perché il malcapitato doveva andare alla Bastiglia. Oggi i giudici debbono motivare. Questa faccenda della motivazione è sottovalutata da tutti. Quando si parla di giustizia, sembra che i problemi siano la separazione delle carriere, l’obbligatorietà dell’azione penale, le intercettazioni. Nessuno che si chieda: ma, dopo che il giudice ha detto in aula che Fiero Farabutto è stato condannato a 20 anni di reclusione, che succede? Bisogna spiegare la decisione, scrivere la sentenza.

Il problema è che tutti credono che il processo penale sia come nei film: la giuria dichiara l’imputato colpevole: il giudice gli dice che dovrà scontare 20 anni; e poi tutti a casa, meno l’imputato che va in prigione. Solo che succede nei film e negli Stati Uniti d’America, dove giudici e giuria non emettono sentenze ma verdetti: sentenze di condanna non motivate. In Italia questo non è possibile: bisogna spiegare. È a questo che serve la sentenza. Solo che spiegare è una cosa complicata. Bisogna raccontare quello che è successo, quello che hanno detto gli imputati, le parti offese, i testimoni, la polizia, i periti; perché quello che hanno detto alcuni è ritenuto attendibile mentre quello che hanno detto altri è falso; bisogna analizzare le argomentazioni degli avvocati difensori, se è necessario bisogna confutarle. Per un processo che abbia un imputato, un reato (ma un reato semplice), una parte offesa e due testimoni, in meno di due ore non ce la si fa. A volte arriva il cataclisma o maxiprocesso: 100 imputati, 13 associazioni a delinquere, 28 omicidi, centinaia di rapine ed estorsioni, centinaia di testimoni, decine, centinaia di avvocati. Si va avanti per un anno o due. Poi la sentenza: e si comincia a scrivere. Quanto ci si mette? 200, 500, 1000 ore? In giorni, 10, 100, 200? Ma se il giudice che deve scrivere questo romanzo fiume fa solo questo; se, tre volte la settimana, deve andare in udienza e il pomeriggio deve scrivere le sentenze dei processi che ha trattato la mattina, i tempi si moltiplicano.

Nei giorni scorsi tutti si sono indignati per i mafiosi di Bari scarcerati perché, dopo un anno, il gup non ha ancora depositato la sentenza. Il processo di Bari aveva 161 imputati. I reati erano quattro associazioni a delinquere e un’infinità di reati comuni. Quanti mesi erano necessari per scrivere questa sentenza? E cosa è stato fatto per aiutare il giudice in quest’opera micidiale? È stato sollevato parzialmente dal lavoro ordinario (ma solo per i processi con detenuti) per 4 mesi. Per il resto, rimboccarsi le maniche e via.

Dobbiamo metterci d’accordo. Vogliamo un processo supergarantito (il nostro processo penale lo è, anzi, di più)? Allora dobbiamo rassegnarci a un processo che dura anni. E, se non vogliamo tenere in prigione gli imputati per tempi lunghissimi fino alla sentenza definitiva, ma non vogliamo farli uscire prima, dobbiamo moltiplicare per 10, 15 - chi lo sa? - i giudici che debbono scrivere le sentenze. E dove pigliamo questi giudici, visto che a ogni concorso non si coprono nemmeno i posti disponibili per mancanza di candidati con preparazione sufficiente? E poi, ammesso che li troviamo, come paghiamo migliaia di giudici? La verità è che tutto questo non si può fare: mancano giudici e soldi. Quindi è inevitabile che i mafiosi di Bari e di tanti altri posti escano per decorrenza termini. Questa virtuosa indignazione di chi sa bene che il sistema giudiziario italiano non può fornire il prodotto che gli si chiede è inaccettabile. La nostra classe dirigente dovrebbe una buona volta riconoscere che è arrivato il tempo di costruire un nuovo processo penale, efficiente e razionale. E se questo significherà la perdita dell’impunità per quella parte di essa che prospera nel malaffare, pazienza.

Democrazia con l'elmetto


30/4/2009
MICHELE AINIS

Nel condominio delle nostre istituzioni si sta aprendo una stagione di conflitti. Le avvisaglie sono chiare, benché ancora nessuno abbia sparato il primo colpo di fucile. Sono altrettanto chiari i due fronti contrapposti su cui si dispongono i condomini: da un lato gli organi di garanzia; dall’altro lato gli organi politici. Sul primo fronte è acquartierata, da Tangentopoli in avanti, la magistratura; e infatti il rapporto fra politica e giustizia indica un nodo irrisolto della nostra vita pubblica. Ma più di recente vi si è aggiunto il tribunale costituzionale, dopo la sentenza che ha preso a morsi la legge sulla fecondazione assistita.
Senza troppi giri di parole, la maggioranza ha salutato questa decisione come una ferita alla democrazia. Se è così, avremo altre ferite da medicare nel prossimo futuro, quando la Consulta s’occuperà del lodo Alfano o del testamento biologico. Anche perché al suo fianco va prendendo posizione un organo di garanzia politica qual è il presidente della Camera, che a giorni alterni spedisce un altolà al governo. E soprattutto si profila una maggiore intransigenza del Capo dello Stato. Dopo il caso Englaro, Napolitano ha moltiplicato le critiche contro l’uso troppo disinvolto dei decreti, contro l’eccesso dei voti di fiducia, in ultimo - nel discorso di Torino - contro un rischio autoritario nel nostro orizzonte collettivo. Certo, l’esecutivo può reagire minimizzando, facendo orecchie da mercante: per l’appunto la strategia esibita in quest’ultima occasione. Tuttavia il presidente può a sua volta trasformare la moral suasion nell’esercizio specifico e puntuale dei propri poteri di veto, per esempio rinviando alle Camere le leggi di conversione dei decreti. E allora i contendenti avranno un elmetto da indossare, dalle buone maniere passeranno alle maniere forti.

Un oroscopo infausto? Dipende dal giudizio sulla vecchia idea di Montesquieu: quella di separare i poteri e le funzioni, di distinguere la decisione dal controllo. In Italia è un’idea in crisi ormai da tempo, da quando alla separazione si è via via sostituita l’integrazione delle competenze. Ci ha messo del suo pure la Consulta, elaborando il canone della «leale collaborazione» fra i diversi attori della cittadella burocratica. Ovviamente c’è del giusto, perché un aereo cade a picco se il pilota non dialoga con il copilota. Ma c’è anche un pericolo, in primo luogo perché se tutti fanno tutto non saprai mai a chi chiedere conto dei misfatti. E in secondo luogo perché la logica dell’integrazione può risolversi - e spesso si risolve - nel predominio del più forte.
È accaduto con l’esperienza regionale, e sta proprio in ciò la causa del suo fallimento. Nel 1947 i costituenti scolpirono un modello che divideva con un colpo d’accetta le attribuzioni statali e regionali. Nel 1970, quando finalmente le regioni si presentarono ai nastri di partenza, trovarono il circuito già occupato dalle autoblu ministeriali. Furono perciò costrette a montare sul sedile posteriore, e da allora in poi si sprecano i progetti di riforma. Ma è accaduto, per fare un altro esempio, riguardo al potere di grazia. Per sessant’anni esercitato in condominio dal Capo dello Stato e dal governo, anzi riservando al primo un ruolo puramente notarile. Finché Ciampi non ha sollevato un conflitto dinanzi alla Consulta, che a propria volta ne ha sancito definitivamente le ragioni.

Ecco, i conflitti. La logica dell’integrazione - delle competenze e dei poteri - porta in ultimo alla sedazione dei conflitti. E infatti non c’è più distinzione né frizione tra il legislativo e l’esecutivo, l’uno è protesi dell’altro. Non c’è laicità, non c’è separazione tra sfera pubblica e sfera religiosa, da quando è crollato il «muro» fra Stato e chiese di cui parlava Thomas Jefferson. Non c’è neppure un referendum oppositivo in mano ai cittadini, da quando l’astensionismo lo ha disinnescato. Ma i conflitti sono il sale delle democrazie, sono la via obbligata per restituirvi responsabilità e chiarezza. Non a caso l’istituto del conflitto fra i poteri è un asse portante dello Stato di diritto. E d’altronde l’alternativa si chiama organicismo, si chiama populismo, consiste nell’unità fittizia della cittadinanza che parla solo attraverso la voce del suo Capo. No, non dobbiamo aver paura dei conflitti. Preoccupiamoci piuttosto di non prendere troppi sedativi.

michele.ainis@uniroma3.it

LE CIABATTE DELL'IMPERATORE


MASSIMO GRAMELLINI
30.4.2009

Hanno destato scalpore le dichiarazioni rilasciate alle agenzie di stampa dalla moglie del leader democratico Franceschini. «Ho letto su un giornale che mio marito sarebbe stato visto domenica notte in una sala da tè, alla festa di compleanno di una ragazza di 100 anni, Rita Levi Montalcini. Che cosa ne penso? La cosa mi ha sorpreso molto, anche perché domenica notte Dario era sul divano di casa in ciabatte e divisa da boy scout, intento a sorbirsi il suo brodino di pollo e a guardare in tv la replica delle avventure di don Milani».

«Vorrei fosse chiaro che io e i miei figli siamo vittime e non complici di questa situazione. Dobbiamo subirla e ci fa soffrire. Sapesse quante volte gli chiediamo di cambiare canale, di girare non dico su "La Fattoria", ma almeno su Antonella Clerici o i puffi. Lui niente, sostiene che sono programmi osceni, ciarpame senza pudore a sostegno del divertimento dell'Imperatore. E intanto non molla il telecomando. Me lo lascia solo quando viene a trovarlo qualcuno dei suoi amici di sinistra: tutta gente malvestita e maleodorante, come ha giustamente rilevato il sig. Berlusconi, specie da quando si è ritirato Bertinotti, che era l'unico di loro a saper abbinare i calzini alle mozioni. È tale la puzza che, appena quei ceffi se ne vanno, mi tocca spalancare le finestre e chiamare D'Alema per fare un po' di corrente. Domenica ho aspettato che mio marito finisse di digerire il brodino e gli ho proposto un colpo di vita: andiamo a fare baldoria all'oratorio con don Mazzi e Nilla Pizzi? Non mi ha neanche risposto. Si era addormentato».

Veronica e il risiko di Arcore

MATTIA FELTRI
30/4/2009

Si va avanti a suggestioni. «Anche la signora ha creduto a quello che hanno messo in giro i giornali. Mi dispiace», ha detto ieri Silvio Berlusconi dalla Polonia. E i massimi ermeneuti dell’espressione facciale - e così i filologi: «signora», non «mia moglie» - hanno letto la crisi irreversibile. Le dinamiche, lì dentro, sono strane. Veronica Lario (nome d’arte di Miriam Bartolini, in omaggio a Veronica Lake) sembra preccuparsi più della teatralità dei fatti che della loro sostanza. «Quello che succede è sotto gli occhi di tutti», ha confidato ancora ieri, ancorando le proprie ragioni alla cronaca: «Avete visto quell’uomo che ha cercato di darsi fuoco perché non gli candidano più la figlia?». Da dieci anni, dice, sta pensando al divorzio, e intanto la retroscenistica studia i dettagli, le foto mano nella mano, i rari raduni estivi della famiglia. Si litiga per la platealità del gesto, e platealmente ci si rappacifica. La novità - dopo l’articolo a Micromega in sostegno al pacifismo, l’intervista al Corriere in appoggio ai referendari della procreazione assistita, la lettera alla Repubblica in lagnanza delle galanterie del premier con Mara Carfagna e Aida Yespica - è che il marito è sempre pessimo, ma anche il padre precipita: si scopre a mezzo stampa che non ha partecipato al diciottesimo compleanno dei figli, perlomeno di quelli di secondo letto.

Come se il casato volesse svelarci a poco a poco i risvolti cinematografici che tutti si aspettano. «Non posso dire che sia la mia migliore amica», disse un giorno Maria Elvira, la primogenita, detta Marina e figlia, come Pier Silvio, di Carla Elvira Lucia Dall’Oglio. Si riferiva a Veronica, e lì nacque la leggenda della stirpe divisa, da una parte Veronica e i suoi tre ragazzi, dall’altra Marina e Pier Silvio, in mezzo il fondatore impegnatissimo ad appianare. Una questione di stile, a un primo sguardo. Barbara, oggi ventiquattrenne, se ne andò a farsi intervistare da Daria Bignardi e ne disse di tutti i colori. Confermò d’aver ceduto a Sandro Bondi i diritti dinastici sul mausoleo di Arcore, programmandosi il riposo eterno in un luogo più sobrio; quasi replicante del morbido distacco materno, spiegò che ai figli (nel frattempo ne ha avuto uno e aspetta il secondo) non avrebbe fatto vedere Buona domenica, i reality show e il Bagaglino, i quali erano non soltanto buona fonte di reddito ma anche l’orgoglio di Pier Silvio, gran capo di Mediaset. Quella dell’autonomia di pensiero è una carta calata con frequenza. In coppia con la sorella minore, Eleonora, Barbara comparve sulla copertina di Vanity Fair, e le fanciulle invitavano il babbo (anno 2004) a vendere le tv a Rupert Murdoch, cessione alla quale si erano opposti - e con successo, e con gran vanto - Marina e Pier Silvio; l’idea di Barbara, mai sposata dal padre, che le coppie omosessuali dovrebbero aver facoltà di convolare, e quelle eterosessuali di regolarsi senza matrimonio, sembrò quasi una innocente rivendicazione di modernità.

E però qui le cose si assommano. Barbara che, coi più filantropi rampolli milanesi, firma le borse in beneficenza ai popoli colpiti dallo tsunami; Luigi, il più piccolo, vent’anni, che accompagna i disabili a Lourdes. Ecco, Luigi, un’infanzia trascorsa in un’immagine che si direbbe da bamboccione, la sua fede marmorea («Telefono, chiedo di Luigi e mi dicono di richiamare perché è raccolto in preghiera. Richiamo e mi dicono che è ancora raccolto in preghiera. Ma allora sta dicendo messa!», raccontò Silvio), il suo amore per il Milan e Andry Shevchenko (il bomber che soffiò la fidanzata a Pier Silvio), il futuro designato da presidente del Milan.

Macché: nella celeste provvidenza crede ancora, ma ha deciso di provvedersi da sé. Proprio il giorno successivo alla lettera della madre alla Repubblica, il Sole 24Ore pubblicò la notizia che Luigi era entrato nel consiglio d’amministrazione della Holding Quattordicesima, attraverso cui Luigi e le sorelle controllano la loro quota di patrimonio. In realtà la controlla solo Luigi. Amministra gli averi di Barbara ed Eleonora, e li fa fruttare. Nel frattempo ha scoperto di avere il bernoccolo del banchiere («l’alta finanza mi appassiona davvero», ma lo disse in epoche meno tossiche) e proprio un mese fa ha dirottato cinque milioni della Holding Quattordicesima in un fondo della Sator, la banca di Matteo Arpe. I soliti notisti hanno ritenuto di ricordare che Arpe se ne era andato da Capitalia in gran baruffa con Cesare Geronzi, banchiere amatissimo dal premier perché il suo è l’unico istituto di credito «non in mano alla sinistra».

E insomma, gli incroci si fanno ingarbugliati, Barbara che si sta laureando con una tesi su Amartya Sen - l’economista della disuguaglianza - e che ambisce apertamente alla Mondadori. Eleonora, che pure studia economia a New York, e un giorno tornerà con mire e idee. E in questo gran concerto di aspettative su come impegnare le aziende e i denari e di opinioni su come dovrebbe andare il mondo, ogni tanto Veronica riemerge dalla assoluta dedizione alla famiglia, e punta il dito contro le bricconerie troppo esibite dal marito. Val la pena di vivere anche solo per vedere come va a finire.

Bach / Art of fugue - Contrapunctus01 / Glenn Gould

Massimo D'Alema (1949-2010)

29 Aprile 2009

Continua la serie dei necrologi in anticipo con la Volpe del Deserto Massimo D'Alema.

D'Alema è mancato alla politica italiana con largo anticipo. Nel suo stile. Lo piangono la moglie Linda, devota archivista di Licio Gelli, i parenti stretti e Silvio Berlusconi che perde il suo alleato più fedele. Nonostante la sua fresca dipartita è stato uno dei politici italiani più longevi. Nel 1963 era già iscritto alla FGCI. All'inizio degli anni '70 diventa capogruppo in consiglio comunale. Da allora non ha più lavorato. La sua idea della politica, ispirata dalle letture di Bruto e Cassio (Massimo era un appassionato di Storia), di Giuda e di tutte le opere di Giulio Andreotti, era semplice e efficace. Io sono io e voi non siete un cazzo. Dopo la morte di Berlinguer, l'infarto di Natta e il suicidio (putroppo solo politico) di Occhetto, diventa segretario del PDS. Inizia una nuova era del comunismo in Italia. Massimo riuscirà dove nessuno prima di lui. Il PCI scomparirà alle elezioni politiche del 2006. Il PD si disintegrerà alle europee del 2009. Il tutto in incognito. Baffino, uomo discreto, lasciò a Topo Gigio Veltroni e a Boccone del Prete Franceschini i meriti dei disastri.

Massimo D'Alema seppe sempre scegliersi i nemici e gli amici. La scelta di Veltroni come avversario interno è stata il suo capolavoro. Veltroni infatti è uno che perde soprattutto quando vince e, vicino a lui, chiunque è scambiato per uno statista. Gli amici della Mondadori e di Mediaset non si sono mai tirati indietro nel proporre D'Alema alle più alte cariche dello Stato. Massimo non tradisce i veri amici e le televisioni dello psiconano sono diventate, grazie a lui, un patrimonio del Paese.

Tra le ultime affermazioni politiche di un certo rilievo va ricordata la mancata autorizzazione da parte del Parlamento Europeo a Clementina Forleo per l'utilizzo delle intercettazioni telefoniche nell'ambito della scalata alla BNL. La comunicazione con i soldi pubblici è sempre stata una delle sue passioni sin dai tempi dell'Unità. Negli ultimi anni si è dedicato alla sua creatura televisiva Red edita da "Nessuno TV" grazie a quattro milioni di fondi statali all'anno. Ulisse gridò al ciclope di chiamarsi Nessuno per non farsi riconoscere. Nessuno TV è il nome giusto per D'Alema.

La programmazione di Red, oggi 23 dicembre 2010, sarà interamente dedicata al profilo dello scomparso. Un appuntamento ricco di interviste di chi lo ha conosciuto da vicino, dall'imprenditore barese Cavallari a Giovanni Consorte. Il discorso commemorativo sarà tenuto da Fedele Confalonieri.

from Piano Sonata Op.35 No.2 played by Arturo Benedetti Michelangeli

All’arrembaggio dei pirati


30 Aprile 2009
Autore
Antonio Palagiano

E’ la seconda volta in pochi giorni: una nave italiana è attaccata dai pirati al largo della Somalia. Per fortuna l’armatore l’aveva previsto e così il fattore sorpresa questa volta l’hanno subìto i rapinatori del mare, che si sono visti spiazzati da tanta reazione imprevista: raffiche d’acqua e colpi di pistola.

In penisola sorrentina si mormora che qualche bucaniere (forse 2) sia stato colpito dagli ex 007 del Mossad assoldati, a giusta ragione, da Gianluigi Aponte patron della M.S.C.

Resta ancora ostaggio dei terroristi l‘equipaggio del Buccaneer (15 persone, di cui 10 sono italiani) il cui armatore non aveva previsto l’attacco dei predoni del mare.

L’Italia è il paese del continente europeo più bagnato dal mare e la sua flotta commerciale e del turismo da crociera è una tra le prime al mondo. Migliaia di cittadini italiani lavorano come personale qualificato su petroliere, portacontainers e transatlantici. Pertanto l’Italia è, con i suoi oltre duemila passaggi annuali al largo delle coste somale, uno dei Paesi più esposti agli attacchi.

Si sa bene che i barchini che sferrano gli assalti godono del supporto di navi appoggio che garantiscono loro l’autonomia in alto mare e si sa anche che quelle basi itineranti non possono sfuggire ai controlli dei radar. Qui non siamo di fronte alle carrette del mare straripanti di disperati che fuggono dalla miseria. Qui si tratta di organizzazioni criminali che hanno colpito ben 110 volte nel 2008 e con un giro d’affari di decine e decine di milioni di dollari l’anno! Il trend per il 2009 è in aumento, ma finora nulla è stato fatto di concreto. Mi domando perché il governo italiano non si faccia promotore di un’iniziativa presso l’ONU che autorizzi il contingente militare internazionale, che sorveglia una così vasta area di mare, a bloccare tali navi madre e ad attaccarle per catturare i predoni.

Questa situazione è diventata drammatica ed urgente. Non è il caso di attendere il rimpatrio dei primi morti prima di reagire.

mercoledì 29 aprile 2009

GRAZIE ZIA





Girato con uno stile conturbante ma soprattutto disturbante da Salvatore Samperi a ventiquattro anni, Grazie Zia si inserisce nel quadro politico in cui nasce in maniera del tutto originale raccontando una ribellione che arriva alla misantropia e a una visione agra della vita che non lascia posto alla speranza.

Lisa Gastoni è la bellissima interprete di questo sensuale film che all'epoca scandalizzò per l'audace e torbido rapporto tra zia e nipote.

Alvise, figlio di un industriale di provincia, esprime la sua protesta contro la società fingendo di essere paralizzato alle gambe. In partenza per Hong Kong i genitori lo affidano a Lea, una giovane zia che esercita la professione di medico e ha, da lunghi anni, una relazione con Stefano, un vanitoso e imbelle intellettuale di sinistra. Pian piano e sottilmente, Alvise stacca Lea da Stefano e la fa innamorare di sè, trascinandola, fino a farle dimenticare il mondo e la professione, in una serie di torbidi giochi, ma rifiutandosi di dare completezza all'insano rapporto. Cosicchè, quando Alvise l'invita a un'ultimo gioco, quello dell'eutanasia, Lea accetta senza difficoltà e gli somministra il veleno.

Lisa Gastoni è una delle grandi interpreti del cinema italiano che ha abbinato l’incredibile sensualità alla estrema professionalità.
Di padre italiano e madre irlandese, negli anni del dopoguerra si trasferisce a Londra dove inzia la sua carriera di fotomodella e attrice.

Approda al cinema italiano negli anni 60, interpretando alcuni film di fantascienza con il nome di Jane Fate , quindi, dopo un breve matrimonio con un noto fisico, si lega al produttore Joseph Fryd con cui nel 1966 gira da protagonista Svegliati ed uccidi di Carlo Lizzani , al fianco di Robert Hoffmann e dei fratelli Volontè. La pellicola ottiene un notevole successo e l’interpretazione di Lisa Gastoni viene premiata con il Nastro d'Argento.
Il film maggiormente legato all'immagine di Lisa Gastoni è però indiscutibilmente il cult movie , Grazie zia (1968) di Salvatore Samperi, nel quale è una conturbante e raffinata zia, attirata in un morboso rapporto psico-incestuoso dal nipote paralitico, interpretato dal giovane Lou Castel, reduce dal successo di I pugni in tasca di Marco Bellocchio. La sua interpretazione sarà premiata con la Targa d'oro al Premio David di Donatello

Negli anni '70 gira pochi film, in virtù di una sua scelta di lavorare solo con registi di qualità ma nel '75 vince il secondo Nastro d'Argento con Amore amaro di Florestano Vancini.
Negli anni successivi abbandona gli schermi, dedicandosi alla pittura e alla scrittura. Vi ritorna recentemente con alcune eccellenti interpretazioni per il cinema e la televisione, ottenendo con Cuore sacro di Ferzan Ozpetek una candidatura al David di Donatello e al Nastro d'Argento.

Filmografia essenziale
Maria Montessori: una vita per i bambini (2007) nel ruolo di Gemma Montesano (per la TV)
Tutte le donne della mia vita (2007) nel ruolo di Diletta, madre del protagonista
La provinciale (2006) ne ruolo di Giacinta Foresi, madre della protagonista (per la TV)
Cuore sacro (2005) nel ruolo di Eleonora
L' Immoralità (1978) nel ruolo di Vera
Lo Scandalo (1976) nel ruolo di Eliane Michoud
Labbra di lurido blu (1975) nel ruolo di Elli Alessi
Mussolini ultimo atto (1974) nel ruolo di Claretta Petacci
Amore amaro (1974) nel ruolo di Renata Andreoli (vincitrice del Nastro d'Argento)
La Seduzione (1973) nel ruolo di Caterina
Maddalena (1971) nel ruolo di Maddalena
L' Invasione (1970) nel ruolo di Marina
L' Amica (1969) nel ruolo di Lisa Marchesi
Grazie zia (1968) nel ruolo della zia Lea
La Pecora nera (1968) nel ruolo di Alma
I sette fratelli Cervi (1967) nel ruolo di Lucia Sarzi
L'uomo che ride (1966) nel uolo di Lucrezia Borgia
Svegliati e uccidi (1966) nel ruolo di Yvonne (Candida) Lutring
I Criminali della galassia (1965) nel ruolo di Connie Gomez
They Who Dare (1954) nel ruolo della fidanzata di George
Le avventure di Mary Read (1961) primo film dell'attrice per la regia di Umberto Lenzi, nel ruolo di Mary Duello nella Sila (1962) di Umberto Lenzi, nel ruolo di Miss Parker

1967: Nastro d'Argento alla migliore attrice protagonista
1968: Targa d'oro al Premio David di Donatello x Grazie zia
1975: Nastro d'Argento alla migliore attrice protagonista

Vincitore Miglior fotografia in bianco e nero ( Nastri d'Argento della SNGCI, 1969)

Figlio dei suoi tempi, il ’68, Alvise (Lou Castel) è un ragazzo ribelle ma a modo suo, infatti protesta fingendo di non essere in grado di camminare. Lo fa perché non vuole assumersi delle responsabilità nella società in cui vive, simula per urtare gli odiati familiari: il padre industriale, Stefano (Gabriele Ferzetti) lo zio giornalista comunista verso il quale sfoga l'odio bruciando dei soldatini rappresentanti i vietcong. L’unica persona della famiglia che sopporta è la bella zia medico Lea (Lisa Gastoni) ed è proprio da lei che suo padre lo spedirà per un periodo, nella speranza che le sue gambe riprendano a funzionare.
Insofferente verso tutto e tutti, Alvise e la zia iniziano un rapporto un po’ particolare in qualche modo tendente alla sofferenza, al sadomasochismo. Stefano, che intuisce la sua recita di finto infermo, si vedrà gradualmente allontanato dalla compagna la quale passerà sempre più tempo con il nipote facendo così chiacchierare anche le due anziane domestiche.
Alvise è tutto una provocazione. Nei confronti della zia prova attrazione e repulsione, forse perché sa cose su di lei che noi non sappiamo ma intuiamo, coma la sua pazzia. Nella coppia che formano l’elemento forte è Alvise e non sua zia che invece si lascia manovrare dal nipote come una marionetta. Il loro è un rapporto violento sia sul piano fisico che psicologico. Alvise poi ha degli atteggiamenti infantili che scioccano o innervosiscono i presenti. Ogni loro discorso da intellettuali illuminati gli scatena una reazione eccessiva anche perché vede cosa si nasconde dietro le loro belle, giuste e sagge considerazioni: una ipocrisia che non gli appartiene. Anche la disinibita danza della giovane cantante Nicoletta (Luisa De Santis) gli provoca una reazione allergica. Eppure anche lui, anzi soprattutto lui, è un falso. Anche lui ha una facciata che non corrisponde alla realtà, anche lui appartiene e assomiglia a questo mondo che tanto odia. Dinnanzi a questa contraddizione inestricabile, a questo mal di vivere che lo tiene prigioniero, Alvise può fare solamente una cosa, e l’unica persona che gli può dare una mano a realizzarla è l’amata e sfruttata zia.

Rubinstein - Brahms, Piano Concerto No.1 - I Maestoso (1/3)

Johannes Brahms - Ninnananna

Luigi de Magistris prosciolto: non avevo dubbi

28 Aprile 2009

Oggi l'ex pm di Catanzaro Luigi de Magistris, candidato alle Europee con l'Italia dei Valori, e' stato prosciolto dall'inchiesta "toghe lucane". Il gip di Salerno Maria Teresa Belmonte scrive "e' stata provata l'assoluta correttezza e gli ostacoli posti alle inchieste dell'ex pm Luigi de Magistris" e specifica "le indagini hanno dimostrato le gravi interferenze subite nel condurre le sue inchieste". Su questo risultato non avevo dubbi.

Lascio spazio ad un'intervista di Luigi de Magistris e ad un mio intervento sulla vicenda.

Luigi de Magistris: Questo è il decreto di archiviazione del gip del Tribunale di Salerno, che accoglie una richiesta della Procura della Repubblica di Salerno, per fatti che tra l’altro sono costati il trasferimento a tre coraggiosi magistrati, quello di investigare sulla nuova P2 che io stavo ricostruendo a Catanzaro.

Questo provvedimento non mi meraviglia ovviamente, io ero molto fiducioso, e sono ancora fiducioso, perché avendo operato sempre nella massima trasparenza non ho nulla da temere. E’ un provvedimento molto importante perché sancisce l’assoluta correttezza del mio operato, nonostante strategie mediatico istituzionali che hanno teso, e continuano a tendere, ad infangare il mio onore e la mia professionalità, ed il lavoro che io ho svolto. Tentano di delegittimarlo ma non ci riusciranno, perché la verità è sancita nella storia di questi anni trascorsi a Catanzaro. Quello che è grave piuttosto, è che io, per accuse strumentali, sia stato costretto a lasciare la magistratura, e di questo, il Csm, ha una responsabilità molto importante visto che io sognavo di fare il magistrato, e l’ho fatto per 15 anni con grande, anzi grandissima, abnegazione e sacrificio. Probabilmente sacrificando i migliori anni della mia vita.

Però detto questo, e lo dico con estrema serenità, poiché di fronte a provvedimenti ingiusti del Csm che non mi hanno più consentito di fare il pubblico ministero si apre uno scenario entusiasmante che è quello di portare gli stessi ideali, la stessa passione, la stessa forza in un progetto politico che passa attraverso l’attuazione e la difesa della Costituzione. L’attuazione dei diritti, diritto all’ambiente, al lavoro, all’occupazione, alla tutela delle fasce sociali più deboli. E penso che in questo momento sia fondamentale frenare il disegno voluto dalla P2, quello di annientare tutti gli organi di garanzia e controllo dalla magistratura al pluralismo dell’informazione. Bisogna vigilare da un punto di vista democratico affinché non passi un disegno illiberale. Oggi è un giorno importante, ma non tanto per me, perché io non temevo nulla, ma per quei cittadini calabresi onesti che hanno manifestato per un magistrato, che nulla faceva, se non difendere la loro terra.

Antonio Di Pietro: De Magistris è stato prosciolto, ma questa non è una notizia. E’ ovvio che chi fa il proprio dovere non dovrebbe pagarne poi le conseguenze penalmente.
Il problema è un altro, perché è stato eliminato?
Perché non gli è stato consentito di svolgere il suo lavoro?
Perché in tutti questi mesi ed in questi anni gli è stato tolto il fascicolo?
E' stato criminalizzato come se fosse lui il criminale, come è successo a me e a tanti altri che fanno questo mestiere.
Perché chi fa il proprio dovere deve pagarne sempre le conseguenze?
Oggi certamente è una non notizia il suo proscioglimento, ma deve essere una notizia il fatto che quando si toccano i poteri forti allora scatta subito la chiusura del cerchio da parte della casta per impedire a qualcuno di fare il proprio dovere.
Ecco perché abbiamo candidato de Magistris, ecco perché l’Italia dei Valori sta insistendo molto per mandare in Europa persone di qualità, perché vogliamo che dall’Europa siano emanate direttive che facciano si che chi fa il proprio dovere possa andare avanti e non gli vengano tagliate mani e piedi.

Grillo168 - Non ci sono piu' le date di una volta

28 Aprile 2009

Buon 168 cari signori, oggi mi sento un po’ in vena di fare un ragionamento, usare questo organo dei più limitati che abbiamo perché pensavo al 25 aprile. Pensavo a queste date, queste date che dovremmo ricordarci per qualcosa, ma che in effetti stanno scomparendo: le date stanno scomparendo. Mi sto accorgendo che sono passati per esempio 15 anni dal massacro del Rwanda, dove sono morte un milione di persone, e non ne parla nessuno, mi sto accorgendo che il 25 – 26 aprile in tutto il mondo si parlava dell’anniversario di Chernobyl dove è esploso uno dei reattori russi e qui non ne parla nessuno.
Abbiamo parlato di questa celebrazione del 25 aprile della libertà, della liberazione, della Resistenza, non è stata una celebrazione, è stata una commemorazione, l’abbiamo commemorata la libertà e la Resistenza, l’abbiamo commemorata guardando questa gente, questo intreccio nauseabondo di questi piccoli politicanti che vanno lì a fare sfilate per due o tre voti in più o in meno.
Abbiamo commemorato questa Resistenza che ha combattuto contro il fascismo, non contro i comunisti o contro i fascisti, contro il fascismo, contro il nazismo, contro certe cose che avevano un significato. E allora guardiamoci adesso, abbiamo combattuto, o hanno combattuto i nostri padri e i nostri nonni, per che cosa? Per eliminare il fascismo? Vi sembra che sia stato eliminato il fascismo? Non c’è il postfascismo, c’è il pre-piduismo! Il pre-piduismo ce l’abbiamo, è una forma più vergognosa di fascismo, più melliflua di fascismo perché non si fa riconoscere, perché sorride. Non fanno i gesti sconvolgenti come il fascista, fanno i sorrisi, fanno gli spot, fanno le fiche, fanno le luci, fanno i balletti!
Allora vi sembra normale? E cos’è cambiato oggi? Abbiamo ministri che sono neofascisti, Presidenti della Camera che sono neofascisti, consiglieri e sindaci che sono fascisti. Allora cosa abbiamo cambiato? La Resistenza voleva la fine della guerra, vi sembra che noi abbiamo rispettato questo principio? Siamo in guerra, siamo in guerra e la chiamiamo pace, ecco perché il cervello è da analizzare e bisognerebbe sapere cosa c’abbiamo dentro questa roba qua, perché non si possono chiamare beati i costruttori di pace quelli con gli elicotteri e i bazooka che sono in Iraq e in Afghanistan. Allora di cosa parliamo? Della libertà di informazione, i fascisti non avevano la libertà di informazione però almeno erano coerenti con la loro ideologia. Oggi c’è la libertà di stampa, c’è la libertà di informazione secondo voi? Il governo si autocensura direttamente. Non ne ha bisogno, finanzia quelli che può finanziare e si autocensura dove può autocensurarsi.
Allora voglio capire perché, oggi facciamo missioni di pace in Afghanistan e parliamo di pace quando abbiamo la più grande base americana in Europa che è a Vicenza e abbiamo 90 testate nucleari sul nostro territorio. Di cosa stiamo parlando?
Allora stiamo mischiando, stiamo cambiando la storia, allora ricorderemo i nazisti insieme alle vittime all’Olocausto, arriveremo a questo, intitoleremo una piazza a Craxi. Piazza Craxi, Via Pertini e Vicolo Gramsci. Impastiamo tutto in questa nauseante melma nauseabonda di questa gente che veramente ci vuole uno psichiatra per capire quello che sta succedendo oggi.
Ma vi sembra normale che non parliamo del Rwanda quando il mistero, mistero ... non ce n’è mistero! La responsabilità del genocidio del Rwanda è stata dell’O.N.U. e soprattutto della Francia. La Francia che si è comportata malissimo con l’Africa e adesso va in Africa a comprare uranio per le sue centrali; centrali che vuol vendere in Italia e la sua più grande azienda che costruisce centrali, la EDF, è sotto inchiesta perché manda le spie a controllare Greenpeace, a controllare tutte le associazioni contro il nucleare.
Parliamo ancora di nucleare, lo capite cosa c’è qua dentro? Mi piacerebbe aprirle le teste, aprirle di questi personaggi, cosa c’hanno dentro! Come si può pensare al nucleare, il nucleare è fuori prezzo, non riescono neanche più a montarlo, è fuori prezzo, non ha senso... Gli Stati Uniti che hanno 100 centrali nucleari non ne fanno più una, si sono resi conto che spendono 1 miliardo di dollari a testa per stoccare le scorie sotto il monte Yucca. Non ce la fanno e loro non costruiscono più centrali nucleari che non sono zona sismica e noi che siamo tutta zona sismica vogliamo farla in Abruzzo.
Allora dico cosa sta succedendo in questa nazione, me lo dite? Non possiamo fare gli assistenti sociali, 60 milioni di persone sono assistenti sociali. Siamo in mano a questa gente che come va fuori fa e colleziona figure di merda, il nano va con la Merkel e lì che telefona, poi passa dall’altra parte e vuole la foto con Obama. Sono collezionisti di figure di merda e noi li prendiamo come grandi statisti, noi siamo dei feticisti delle figure di merda, feticisti di figure di merda, perché non è possibile che noi non vediamo queste cose e ce le fanno rimarcare dall’estero, che facciamo delle figure incredibili.Allora com’è possibile vedere uno come lo psico-nano alto intelligente con i suoi capelli, giovane e e statista, com’è possibile vedere questa gente qui intelligenti come Gasparri, li vediamo così.
Allora c’è qualcosa nella nostra psiche, nel nostro DNA, siamo pazzi, ce lo dice anche il New York Times che siamo pazzi: Formigoni fa una legge per proibire questo genere di conforto alimentare, di necessità, bere e mangiare per la strada perché sta male, per proibire il kebab, ma è proibito anche leccare il gelato, non si può in Lombardia leccare un gelato per la strada altrimenti ti multano.
Adesso c’è pieno di milanesi che arrivano sui Giovi con il gelato e leccano sui Giovi perché in Liguria si può ancora leccare il gelato!
Allora che senso ha, ci prendono per il culo, ci scrivono che siamo pazzi, noi non siamo pazzi, noi siamo qualcosa di diverso, siamo qualcosa di diverso perché non si può pensare di andare a fare i G8, poi questi G8 perché non stanno a casa loro, ci sono le teleconferenze, rompono i coglioni 20 mila persone che me li vedo che girano per le macerie con davanti nani, ballerine che fanno, con Apicella, come Nerone sarà lì con Apicella che canterà “c'aggià fa .. le macerie ... c'aggià fa ... macerie”!
Allora le date stanno scomparendo, stanno scomparendo le date dei referendum, sono scomparse le nostre date dei referendum, sta scomparendo la data che doveva essere quella di giugno è stata spostata al 21 giugno la data per il referendum sulla legge elettorale, perché altrimenti sarebbe scomparsa la Lega.
Allora voglio dire che i cittadini non esistono più cari signori, non stanno più esistendo, e allora bisogna cominciare a combattere: cittadini con l’elmetto sempre pronti. Liste civiche, cambiamenti dal basso e soprattutto cominciare dai comuni, comuni e regioni, regioni e Parlamento: l’Italia deve diventare nostra!

Razzismo, sventiamo Durban III


28/4/2009
ALDO RIZZO

Dopo la conferenza dell’Onu a Ginevra sul razzismo, si continua a discutere se l’esito sia stato migliore di quanto alcuni temessero, se abbiano avuto ragione i presenti o gli assenti, e così via. Ma sarebbe meglio sperare che non ci siano altre conferenze di questo tipo, e che l’Onu trovi altri modi di combattere il razzismo. Il vertice ginevrino è stato definito Durban II, pensando all’analoga conferenza che si tenne in Sud Africa otto anni fa. In realtà, questa riunione planetaria (o quasi) era la quarta nel suo genere. Le prime due si svolsero nel 1978 e nel 1983 e già allora gli Stati Uniti non parteciparono, per la manifesta tendenza della maggioranza (Paesi arabi e Terzo mondo) a farne l’occasione d’una messa sotto accusa dell’Occidente e in particolare di Israele.
A Durban nel 2001 le cose non andarono meglio. La vigilia fu dominata dalla richiesta arabo-palestinese di paragonare il sionismo al razzismo (benché un’infausta dichiarazione in tal senso dell’Assemblea generale dell’Onu fosse stata sepolta da una marea di proteste e revocata) e dalla domanda di «compensazione» di diversi Paesi africani, in particolare agli Stati Uniti, per la tratta degli schiavi di alcuni secoli fa. La seconda (volendo prescindere dal contesto storico e dai decisivi progressi della condizione degli «schiavi», in un’America che aveva combattuto una sanguinosa guerra civile per la loro liberazione, e che stava per avere, come oggi ha, un Presidente di origine africana) poteva anche apparire in qualche misura plausibile, mentre la prima, per quante critiche politiche si potessero e si possano fare ai governi israeliani, consisteva nel riproporre una provocazione assoluta. E tuttavia, sia pure in termini in parte diversi dalla famigerata risoluzione dell’Assemblea generale, rimase nel documento finale un’esplicita e dura condanna dello Stato ebraico.

È nel ricordo di Durban I che gli Stati Uniti e altri Paesi, tra i quali Italia e Germania, oltre naturalmente a Israele, non hanno accettato di partecipare alla Durban II. Ma ci si continua a chiedere se questa volta non sia stato diverso, se non abbiano avuto ragione i presenti a contrastare un altro esito infausto, e se il documento finale non sia poi migliore del previsto. Può darsi. La specifica condanna di Israele questa volta non c’è, anche se la si ritrova implicita nel richiamo ai risultati della Durban I. E ci sono apprezzabili impegni sul piano generale, per la parità e la dignità delle persone. Ma ciò non basta per benedire questo tipo di riunioni. Intanto è da vedere, con giustificato scetticismo, quale esito pratico avranno gli impegni presi o le promesse fatte da Stati non certo famosi per la tutela dei diritti umani e civili, mentre resta la possibilità che si offre ai leader più esagitati ed estremisti di farsi la loro propaganda, magari a uso interno. E, più generalmente, c’è un clima di confronto, che porta a divisioni (anche all’interno di gruppi omogenei come l’Unione europea) più che alla concorde ricerca della soluzione migliore.

Insomma, anche se la Durban II è stata meglio, o meno peggio, della Durban I, speriamo che non ci sia una Durban III. Nel senso, certo, che non ce ne sia più bisogno. Ma, se il bisogno ci sarà, perché il razzismo, un po’ ovunque, non cesserà di colpo, esistono altri rimedi. Sul piano dei principi da rispettare, non c’è già la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, approvata dall’Onu nel 1948 e ribadita e aggiornata cinquant’anni dopo? E, se uno o più Paesi non ne tengono conto, non è meglio che l’Onu stessa intervenga sui casi specifici, con le opportune sanzioni? Invece di celebrare alla pari, di fatto, buone e cattive intenzioni, in megaconferenze, nel migliore dei casi, compromissorie.

Se scompare la Liberazione


Adriano Prosperi
27-04-2009

E così scomparirà forse dal vocabolario delle feste nazionali la parola "Liberazione". A partire dal 25 aprile 2009, da quella che sarà stata (forse) l´ultima Festa della Liberazione, la sostituirà un´altra parola, solo in apparenza simile: "Libertà". Un mutamento che sembra del tutto naturale, di fatto già avvenuto, come bere un bicchier d´acqua, come trovare la definizione adatta per riempire le caselle di un gioco di parole incrociate. Una piccolissima modifica, una roba da niente. Tanto piccola e innocua che questo mutamento di fatto è come se fosse già avvenuto. Del resto, l´accoglienza è stata benevola, perfino un po´ distratta. Una parola, nient´altro. I pochi, prevedibili dissensi sanno più di blando rimpianto per la dipartita di un vecchio amico di famiglia che di lotta per difendere valori non negoziabili. Nel consenso si avverte un respiro di sollievo, come quello a cui dà voce un editoriale sul Corriere della Sera di ieri. È – vi si legge – «una ferita che si chiude».
C´era dunque una ferita: la parola "Liberazione" la teneva aperta, la parola "Libertà" la chiude. Caso singolare, degno di attenzione. Una parola divideva, di più: feriva e faceva sanguinare, l´altra – pur della stessa famiglia – magicamente risana la ferita, ricompone la società, fa scomparire l´ultimo riflesso delle passioni da cui era nata. E certo quelle passioni se le portava dietro fin da quando era nata: perché erano quelle passioni che l´avevano generata nella mente di una minoranza di italiani. Quegli uomini parlavano anche di libertà ma intanto vedevano l´urgenza di un´azione da compiere, un´azione liberatoria, «questa cruenta lotta di liberazione» – come scriveva il 25 settembre del 1945 il partigiano Didimo Ferrari al commissario della Divisione Lunense, l´azionista e futuro storico Roberto Battaglia. Ma se libertà e liberazione erano così solidali nella lingua di allora, che cosa le ha fatte diventare nemiche nella lingua di oggi? «Il concetto di libertà – ha scritto Marc Bloch – è uno di quelli che ogni epoca rimaneggia a suo piacere». Più difficile rimaneggiare "Liberazione" – quella specifica e precisa lotta di liberazione che si svolse in un determinato momento della storia italiana. Quanti liberatori attivi ebbe l´Italia tra il 1940 e il 1945? C´era allora il "Consolidated B-24 Liberator": un bombardiere quadrimotore. Lo vedevamo dal basso quando veniva a bombardare un´Italia già alleata della Germania e poi occupata dai tedeschi, dove popolazioni inermi tradite dai rappresentanti dello Stato aspettavano che qualcuno li liberasse dalla condizione schiavile in cui erano precipitati. Se qualcuno non si fosse ribellato e non avesse dato vita all´organizzazione di Comitati di Liberazione Nazionale, gli italiani avrebbero avuto una liberazione tutta americana, insieme alle "AM-Lire" stampate dagli alleati.
Non sarebbe stata la prima volta. Nella storia d´Italia altre svolte rivoluzionarie del mondo moderno sono state vissute in modo passivo. Per una di loro, quella della Grande Rivoluzione francese esportata dalle armate napoleoniche in tutta Europa, lo storico napoletano Vincenzo Cuoco coniò il termine di "rivoluzione passiva", che rimase buono anche per altri usi.
Ma almeno in un caso l´Italia è stata attiva e creativa: nell´invenzione del regime fascista, guidato da un capo che si presentò agli inizi come rivoluzionario. Lo storico che sottolineò questo aspetto, Renzo De Felice, fu anche colui che coniò una espressione poi entrata nel linguaggio comune delle narrazioni della storia italiana del ´900: "gli anni del consenso". Significava quella espressione che l´adesione degli italiani al regime fascista era stata un fenomeno di massa. E questo è servito spesso nella polemica ideologica a sminuire ancora di più la piccolezza del fenomeno della Resistenza come guerra di liberazione condotta da italiani. Poteva mai nascere dal paese del consenso di massa al fascismo, un altro e opposto paese capace di lottare per riscattare la propria dignità? Nella stanchezza di un´Italia lontanissima da quei tempi oggi sembra giunto il tempo per cancellare anche nel linguaggio l´ultima traccia verbale di una stagione lontana. Ma nella parola "Liberazione" e solo in quella è iscritto il ricordo di un fatto storico che ha segnato la discontinuità tra due Italie. Questo termine sta a ricordare che c´è stata una lotta di una parte del paese contro un´altra, che quella parte pur minoritaria seppe allora raccogliere l´esito della fine del consenso al regime e conquistarsi nel paese un altro e diverso consenso di massa: quel consenso che, attraverso libere elezioni e nella dialettica di ideali diversi ma capaci di dialogare e di incontrarsi sulla sostanza, dette vita e forma alla Costituzione repubblicana. Lo si cancelli, se si vuole, se si può.
Vediamo bene che c´è un patteggiamento intorno a questo e che non mancano offerte di pagamento in buona moneta: tale è il ritiro della legge che equipara gli italiani di Salò e quelli dei Comitati di Liberazione, tale è la possibilità di una revisione della Costituzione non a colpi di maggioranza. E il prezzo che si chiede è solo una piccola operazione di "lifting" verbale. Tuttavia una cosa deve essere tenuta presente: il banco di prova più delicato del potere si trova proprio qui, nella capacità di iscriversi nel linguaggio, di mutare le denominazioni delle feste come momento simbolico della vita collettiva. E non è solo nell´universo dantesco che per una "paroletta" ci si danna o ci si salva.