domenica 31 luglio 2011

Appalti pubblici Decide il cacicco



NON C’È PIÙ OBBLIGO DI GARA SOTTO IL MILIONE DI EURO

di Eduardo Di Blasi

Immaginate di vivere in un Paese scandinavo. Uno di quelli dove l’amministrazione della cosa pubblica funziona, dove non si hanno notizie di scandali politici di un qualche peso. E pensate che una legge come quella approvata in Parlamento un paio di settimane fa, a seguito della manovra economica, fosse stata fatta, ad esempio, in Danimarca o in Finlandia. La nuova norma dice che le amministrazioni pubbliche potranno affidare, senza obbligo di gara, appalti che non eccedano la cifra di un milione di euro. Vale a dire che se una amministrazione pubblica (scandinava) dovesse ristrutturare una scuola, costruire una piccola strada, asfaltare una piazza e la spesa stimata fosse sotto il milione di euro, potrà chiamare direttamente la ditta (scandinava) e affidarle l’appalto.

ECCO, ADESSO spostiamoci nel nostro Paese. E immaginiamo che questa legge, parte della manovra economica approvata in fretta e furia da Camera e Senato nelle scorse settimane, sia invece diventata realtà nell’Italia delle cricche, degli orologi preziosi e delle escort portati in dono a politici e funzionari per ingraziarsene i favori.

Con un tratto di penna i nostri legislatori hanno raddoppiato il limite entro cui si era obbligati a indire una gara pubblica. Questo limite, 500 mila euro, era stato fissato appena un paio d’anni fa. Quanti sono gli appalti sopra un milione di euro nel nostro Paese? Pochissimi.

Walter Schiavella, che è segretario generale della Fillea, gli edili della Cgil, tra i primi si è battuto perché la norma non entrasse nella manovra. Ma la semplificazione del dibattito politico sul testo, con la corsa all’approvazione con il fiato sul collo della speculazione finanziaria, ha fatto perdere peso anche alle critiche più motivate.

Il dato resta però impressionante : “L’80% degli appalti pubblici – afferma Schiavella carte alla mano (in parte le pubblichiamo in questa pagina ndr) – è per cifre inferiori al milione di euro”. La norma, quindi, ha un effetto pratico immediato che è quello per cui la politica, da sola, vale a dire senza valutare il progetto o il prezzo migliore, può decidere chi lavora e chi non lavora in Italia. Diventa una scelta autonoma, legale, dei governi di città, province, regioni, asl. Una scelta con ogni evidenza soggetta ai “corteggiamenti” delle imprese che devono lavorare per continuare a sopravvivere.

QUESTO, PERÒ, segnala Schiavella, è solo il primo effetto negativo per un settore, quello edile, che nella crisi “ha perso il 20% rispetto al Pil”. Una cifra enorme anche se paragonata al periodo del dopo-tangentopoli “in cui – ricorda il segretario Fillea – si perse il 9,6%”. Questo, dunque, è il quadro da cui si parte: aziende in sofferenza, grandi appalti pubblici al lumicino (“il fondo unico per le infrastrutture segna 250 milioni per il 2012, 500 per il 213 e 800 per il 2014”), regole difficili da far rispettare. L’unico mercato ancora ricco resta quello delle cosiddette “emergenze”, che agisce, ricorda Schiavella, sempre con leggi in deroga (le inchieste sulla cricca attengono proprio al rapporto tra questi pubblici ufficiali e gli imprenditori aggiudicatari delle opere pubbliche).

PER IL RESTO si assiste a un mercato per cui il 10% dei costruttori ottiene oggi in Italia il 28% degli appalti pubblici e ad una preoccupazione che è apparsa evidente a tutti gli addetti ai lavori ma non ai legislatori. La preoccupazione riguarda il tessuto produttivo degli edili nel nostro Paese: “Se non vanno avanti le imprese che meglio possono reggere il confronto con il mercato, ma quelle che hanno legami più o meno leciti con la politica – attacca Schiavella – non sarà un bene per l’economia. Soprattutto se queste imprese ‘scorrette’ abbiano legami con i gruppi della malavita organizzata”. Pensiamo al movimento terra o all’intero ciclo del cemento. Ultima preoccupazione: se l’unico discrimine per ottenere un appalto pubblico è avere un buon rapporto con il politico di turno, a chi importerà più della qualità del prodotto finale?

L’ARCHITETTO MAZZETTA



Da settimane i pm milanesi stanno interrogando Michele Ugliola, “mediatore” tra imprese e politici

di Davide Milosa

Da settimane ormai un uomo viene interrogato dai magistrati di Milano. Si chiama Michele Ugliola, pugliese di San Severo, classe 1958, professione architetto, ma soprattutto mediatore di tangenti e uomo cerniera tra l’impresa e la politica. Questo sostengono i pm, i quali, il 25 maggio scorso, lo hanno messo agli arresti domiciliari. Motivo: un giro di mazzette che ha azzerato i vertici del Comune di Cassano d’Adda, sindaco in testa.

LA STORIA, tutt’altro che chiusa, adesso promette di terremotare buona parte della politica lombarda. Ugliola, infatti, ex socialista, poi vicino a Forza Italia, già finito in guai giudiziari assieme all’ex assessore comunale del Pdl Giovanni Terzi, è uomo dai tanti contatti che vanno ben oltre la piccola realtà di Cassano. Di questo sta parlando con i pm. Di amicizie, denaro e politici. Insomma, sul tavolo della procura non c’è solo l’affare Penati. Ci sono diversi verbali secretati e soprattutto il secondo tempo della corruzione che coinvolge importanti esponenti regionali di Pdl e Lega nord

Sulla figura di Ugliola, infatti, si concentrano due tronconi d’indagine: il primo confluisce nell’inchiesta sulle bonifiche di Giuseppe Grossi e sulle speculazioni immobiliari di Luigi Zunino, compresa quella per l’ex area Falck a Sesto San Giovanni. Il secondo, invece, parte da Cassano e si incardina sulle dichiarazioni di Ugliola e del cognato Gilberto Leuci. Il sistema è lineare: Leuci batte cassa dagli imprenditori ritirando mazzette in contanti anche di 500 mila euro. Quindi passa il denaro all’architetto che lo distribuisce ai politici.

Il nome di Ugliola, titolare della Tema Consulting con sede in via Zuretti a Milano, emerge per la prima volta il 21 settembre 2009. I pm Laura Pedia e Gaetano Ruta, titolari dell’inchiesta sul re delle bonifiche Giuseppe Grossi, lo accusano di avere emesso fatture false per circa 800 mila euro all’Immobiliare Cascina Rubina (Icr) controllata dalla Risanamento di Zunino e proprietaria dei terreni dell’area Falck.

DURANTE le perquisizioni spunta una scrittura privata in cui a Ugliola viene conferito un incarico proprio in relazione alle aree di Sesto San Giovanni. In sostanza l’architetto deve interfacciarsi con l’amministrazione pubblica per conto dei privati. Gli accertamenti successivi mostrano che le consulenze sono state affidate a Ugliola direttamente da Risanamento e non da Icr. Secondo i finanzieri mancano elementi certi per dimostrare che l’attività sia stata svolta effettivamente. E dunque, se così è, a cosa sono serviti gli 800 mila euro?

Nell’autunno del 2010, il sindaco di Sesto, Giorgio Oldrini (indagato dalla Procura di Monza), risponde a un’interrogazione dei Verdi sulla presenza di Ugliola in comune. “A volte gli incontri erano tra diverse persone e qualcuno di noi dice: magari era assieme agli altri”. La risposta non risolve. Una cosa è certa: Ugliola ottenne l’incarico da Zunino di mediare con la politica sestese, per questo emise fatture fino a 800 mila euro, ma nessuno lo vide mai in comune. Un dato che non sfugge agli investigatori consapevoli di trovarsi davanti a un protagonista assoluto della scena politico-affaristica lombarda

E del resto la caratura dell’architetto emerge già il 13 ottobre 1998 quando finisce in carcere per una tangente da 250 milioni di lire all’allora consigliere comunale di Milano Giovanni Terzi, già assessore all’Urbanistica a Bresso. Anche qui il gioco è quello delle consulenze che Ugliola incassa senza fornire prestazioni. Sarà lui stesso a raccontarlo ai pm: “Quello era un incarico professionale che di fatto costituiva uno schermo per la mia attività di raccordo tra i privati e l’amministrazione di Bresso”. Dopo queste dichiarazioni l’architetto viene rimesso in libertà. E assolto definitivamente nel 2005. In quello stesso anno la Finanza trasmette un’informativa ai pm che indagano su Antonveneta. La nota, che non avrà rilevanza penale, rivela che il commercialista Salvatore Randazzo, siciliano di Paternò, professionista di riferimento della famiglia La Russa, “è il depositario delle scritture contabili di Michele Ugliola”.

SEI ANNI DOPO sul tavolo ci sono le modifiche del Pgt a Cassano d’Adda. Ugliola va a braccetto con il sindaco Pdl Edoardo Sala, che impone il suo architetto di fiducia all’imprenditore Fausto Crippa per la riqualificazione dell’ex Linificio Canapificio nazionale, uno dei più grandi d’Europa. “Ugliola – racconta Crippa – mi disse che se volevo l’approvazione del progetto era necessario elargirgli del denaro”. Di più: Crippa firma una scrittura privata in cui si impegna a versare a Ugliola un milione e mezzo di euro per consulenze. “Le richieste di Ugliola – erano motivate dalla necessità di dover pagare non meglio specificati politici”.

E di politici l’architetto ne conosce molti. Tra questi c’è il leghi-sta Marco Paoletti, anche lui indagato nell’indagine di Cassano. I due sono molto amici. Ed è lo stesso rappresentante del Carroccio, ex assessore locale e consigliere provinciale a Milano, a svelare il vero mestiere dell’architetto. Siamo nell’agosto 2009, Paoletti parla con Crippa. “Ugliola – dice – è più un mediatore, un intrallazzatore”. E ancora: “Quando bisogna mediare tra imprenditori, tecnici e politici ci vogliono anche questi personaggi”. Insomma il malaffare di oggi non è diverso da quella di ieri quando, racconta Leuci ai pm, Ugliola con il cognato e due dirigenti Esselunga mette in piedi un comitato d’affari. Il progetto (che non avrà rilievo penale): individuare aree dove costruire, ottenere i permessi corrompendo un funzionario del Comune di Milano, quindi proporne l’acquisto a Zunino, il quale a sua volta avrebbe girato l’affare all’ignaro Bernardo Caprotti. L’escamotage: la presenza di dirigenti Esse-lunga conniventi. La storia, dunque, sembra ripetersi con declinazioni diversi e identici risultati. Intanto la voce della collaborazione di Ugliola è già girata nei Palazzi della politica. E molti, ora, temono il peggio.

Tunnel carpale

di Marco Travaglio

Il tunnel carpale scavato da B. sotto i tribunali col piede di porco dei suoi legislatori e con la lingua dei suoi servi, ivi compresi i magistrati che infestano il ministero, ci regala la tanto sospirata Riforma Epocale della Giustizia.

Dopo 17 anni di cincischiamenti sporadici che allungavano qua e là i dibattimenti, accorciavano prescrizioni, abolivano reati, abbassavano pene, condonavano condanne, svuotavano galere, silenziavano pentiti e testimoni, favorivano imputati di serie A, limavano le unghie ai pm e le laccavano agli avvocati, scudavano premier e ministri, il Senato ha finalmente varato un provvedimento organico, sistematico, scientifico, definitivo: la morte del processo. Ma sì, un bel colpo secco, ci si leva il dente e non se ne parla più.

Sotto gli occhi di quel monumento alla legalità che è Schifani, ovviamente indagato per mafia, passa una legge che farebbe vergognare Al Capone, beffardamente battezzata “processo lungo”. Come a dire: vi aspettavate il processo breve? E invece approviamo quello lungo: ci eravate cascati, eh? È una specie di gioco delle tre carte (anzi, mezza dozzina) per disorientare i cittadini, che hanno altro a cui pensare, e il capo dello Stato, che ha la sua età: processo breve, prescrizione breve, salva-Ruby, salva-Mondadori, riforma del Csm, azione penale discrezionale, separazione delle carriere, responsabilità civile, lodo Alfano-bis, neo-immunità e poi zac!, processo lungo, tiè.

La norma voluta da Falcone, che dà valore di prova alle sentenze definitive nei processi su fatti analoghi, non c’è più: in ogni processo di mafia bisognerà ridimostrare che esiste Cosa Nostra. E se il rapinatore A viene condannato in Cassazione per aver rapinato una banca col rapinatore B, nel processo al rapinatore B bisognerà risentire tutti i testimoni: se A uguale B, non è detto che B sia uguale A. Tutto questo perché la Cassazione ha già stabilito che Mills fu corrotto da B., il che lascia presagire che B. abbia corrotto Mills, ma B. non vuol proprio sentirselo dire.

Nel processo “toghe sporche”, B. e Previti chiesero di sentire tutti e 1700 i giudici passati per Roma nell’ultimo mezzo secolo per dimostrare che non li avevano corrotti proprio tutti.

Il Tribunale di Milano rise molto e condannò Previti (B. se l’era già svignata).

Col processo lungo, che obbliga i giudici a sentire tutti i testi “pertinenti” anche se inutili, il processo sarebbe in pieno corso, in primo grado, con l’escussione del 900° teste o giù di lì, e si trascinerebbe fin verso il 2035, salvo prescrizione o decesso dei testi, degl’imputati e dei giudici, si capisce.

E così il processo Parmalat, dove Tanzi voleva sentire tutti e 35 mila gli azionisti del gruppo.

E così il processo Eternit (nomen, omen), dove pure i difensori si accontentavano di 9.841 testimoni. Il bello di questa 42° legge ad personam è che è pure ad canaglias: vale per tutti. I colpevoli, s’intende, visto che gli innocenti e le vittime non hanno interesse a tirare in lungo, non foss’altro che per finire presto e non pagare l’avvocato in eterno.

Se tutto va bene, e se esisterà ancora l’Italia, in settembre sarà approvata anche alla Camera e comincerà a dispiegare i suoi balsamici effetti.

Sempreché il capo dello Stato, che l’altroieri commemorava spiritosamente Rocco Chinnici, non s’accorga dell’art. 111 della Costituzione: quello che raccomanda umoristicamente la “ragionevole durata dei processi”.

E sempreché il neoministro Zitto Palma abbia l’accortezza di accompagnare il “processo lungo” con una norma complementare ormai imprescindibile. Perché tener aperti tutti quegli enti inutili chiamati “palazzi di giustizia” che costano un occhio fra giudici, pm, poliziotti, carabinieri, finanzieri, cancellieri, uscieri, segretari, se basta un avvocato con l’elenco telefonico sotto il braccio per far saltare tutto?

Dopo il “processo lungo” s’impone l’ultima riforma epocale: il “tribunale chiuso”.

Hevia - Busindre Reel

Caro Paolo ti scrivo: da 19 anni inseguo la verita'

ANTONIO INGROIA

Caro Paolo, sono passati 19 anni da quel maledetto 19 luglio 1992. 19 anni che mi manchi, che ci manchi, che non ti vedo più, che non ti incontriamo più. E mi colpisce che 19 sono anche gli anni che ci dividevano: infatti ora ti ho raggiunto, ho la tua stessa età. Gli stessi 52 anni che avevi tu quando sei morto ed è singolare, un segno del destino beffardo, il fatto che mi ritrovo alla tua stessa età, nello stesso posto da te ricoperto (Procuratore Aggiunto alla Procura Distrettuale Antimafia di Palermo). Del resto, in questi 19 anni non ho fatto altro che inseguirti: inseguire la tua ombra, inseguire le tue orme, inseguire il tuo modello, inseguire la tua carriera (insieme a Marsala ed insieme da Marsala a Palermo, e poi fino al posto di Procuratore Aggiunto a Palermo), ma la cosa che ho più inseguito di te è stata un'altra: la Verità sulla tua morte.

Cercando di ispirarmi ai tuoi insegnamenti: inseguire la Verità, cercarla, lottare per trovarla, senza mai rassegnazione, anzi quasi con ostinazione. Perché non posso rassegnarmi all'ingiustizia di una verità dimezzata e quindi incompiuta, e perciò negata. Perché la piena verità sulla tua morte terribile è sempre stata negata. Finora.

Ma a quella verità ho diritto come tuo allievo e come tuo amico, e ne hanno ancor più diritto i tuoi figli, tua moglie, i tuoi fratelli. E non solo i tuoi parenti, anche gli italiani onesti, di ieri e di oggi. E quella verità – lo sento – si avvicina, anno per anno, momento per momento. La verità rende liberi, ma bisogna essere liberi per poter conquistare la verità. Tu avevi un'ossessione per la verità, specie sulla fine di Giovanni Falcone, il tuo migliore amico, quasi un fratello, e anch'io ho una specie di ossessione – lo confesso – per la verità sulla tua morte. Certo, se tu vedessi l'Italia di oggi resteresti impressionato per il puzzo del compromesso morale, ma saresti felice dei tanti giovani liberi che vogliono verità. Dai quindi a loro e a noi ancora più energia e convinzione per vincere, per prevalere su chi non è libero, su chi non vuole la verità.

Noi possiamo dirti, ed io in particolare ti assicuro che faremo, che farò di tutto per trovarla questa verità. E con la verità verrà la giustizia. Il tuo esempio, il tuo modello ci aiuterà, così farai giustizia attraverso tutti noi. Sarà un modo di averti sempre fra noi, perché così, fra noi, ti abbiamo sentito in questi 19 anni, ed ancor più ti sentiremo, convinti di poterti sentire, da domani in poi, in un'Italia più giusta, in un'Italia più uguale. Più libera nella verità. Perché la verità rende liberi. La giustizia rende eguali. E noi vogliamo come te un'Italia più libera e più giusta. Un'Italia senza mafie e senza corruzione. Per rivederti sorridere. Per rivedere sul tuo volto quel tuo sorriso inconfondibile, il sorriso con il quale mi salutasti l'ultima volta che ci incontrammo, quel pomeriggio di metà luglio in Procura. Lo stesso sorriso che hai regalato ai tanti che ti hanno conosciuto, ti hanno apprezzato, ti hanno amato. I tanti dell'Italia migliore.

Il tuo Sostituto

sabato 30 luglio 2011

Tremonti: “Io spiato dalla Gdf” E la procura di Roma apre un’inchiesta


I magistrati indagheranno su quanto riferito due giorni fa alla stampa dal ministro dell'Economia che dichiarava di sentirsi "controllato e pedinato" dalla Gdf

Giulio Tremonti spiato e pedinato? La procura di Roma vuole vederci chiaro dopo quanto dichiarato dal ministro dell’Economia in un’intervista ed aprirà un fascicolo processuale sulla vicenda. L’uomo dei conti potrebbe essere convocato come persona informata sui fatti per approfondire le sue sensazioni. E, sempre sul presunto spionaggio, il direttore del Dis, Gianni De Gennaro, riferirà martedì prossimo al Copasir sul possibile coinvolgimento di 007.

Intanto, in una dichiarazione all’Ansa,
Tremonti getta acqua sul fuoco: ”Ho profonda stima e fiducia nella scorta della Guardia di Finanza che mi segue da moltissimi anni, gli stessi sentimenti per la Guardia di Finanza a partire dal suo comandante generale. Tutto quanto è a mia conoscenza l’ho rappresentato alcune settimane fa alla magistratura. Lo confermo. Il resto sono state ipotesi e forzature giornalistiche”.

“Forzature giornalistiche” che cominciano il 9 giugno scorso quando ‘Libero’ riferisce di un acceso faccia a faccia tra Tremonti e
Silvio Berlusconi, con il ministro che accusa il premier di “aver messo i servizi segreti alle mie calcagna”. Ieri è La Repubblica a raccogliere le confidenze del titolare dell’Economia. “Ho fatto – spiega il ministro a proposito della scelta di andare a vivere nella casa di Campo Marzio offertagli dal suo ex braccio destro Marco Milanese – una stupidata. E di questo mi rammarico e mi assumo tutte le responsabilità. Ma in quella casa non ci sono andato per banale leggerezza. Il fatto è che prima ero in caserma ma non mi sentivo più tranquillo. Nel mio lavoro ero spiato, controllato, pedinato. Per questo ho accettato l’offerta di Milanese…”. E’ lo stesso ex finanziere e deputato del Pdl – interrogato dai pm di Napoli che indagano sulla P4 – a fornire altri elementi. “Il ministro – ha fatto mettere a verbale Milanese – mi ha detto che ha avuto uno sfogo con il presidente del Consiglio perchè aveva saputo che era seguito. O comunque negli ambienti politici si dice che stanno attuando il metodo Boffo anche nei suoi confronti…per contrastare la sua ascesa politica”.

Intanto, tra voci di cordate, talpe, veleni, generali indagati e ministri spiati, la Guardia di finanza è nell’occhio del ciclone da settimane. Il Cocer non ci sta e chiede rispetto. Lo spunto è l’attacco di ieri del sottosegretario alla Difesa, Guido Crosetto. Dopo il quale il comandante della Gdf, generale Nino Di Paolo, aveva ricevuto la telefonata di solidarietà di Tremonti. Il Cocer definisce “inappropriate ed inopportune” le parole di Crosetto. Infatti, lamenta l’organismo, “definire la Guardia di Finanza un’organizzazione di cui aver paura offende la dignità dell’Istituzione e dei 63mila finanzieri che quotidianamente prestano la loro opera a tutela degli interessi del Paese”. Altra esternazione del sottosegretario che non è andata giù al Cocer è quella secondo cui “l’azione di controllo amministrativo si svolgerebbe in modo totalmente arbitrario”. Ciò, si rileva, “dimostra nessuna considerazione per il quadro giuridico che la regola”. L’organismo avanza quindi un sospetto: che “le dichiarazioni siano strumentali al tentativo di tornare ad un comandante generale proveniente dall’Esercito; a questo punto, oltre alle vere o presunte cordate interne, ce ne sarebbero anche di esterne con i loro sponsor politici”. Ma la Guardia di finanza, conclude la nota, “non può diventare, per l’ennesima volta, il campo di battaglia di uno scontro politico che non la riguarda, perchè questo fa male ai cittadini e al Paese”.

Non si fa attendere la replica di Crosetto. “Tentare una riflessione sulla base dei fatti di questi giorni – osserva – serve proprio a restituire all’istituzione il rispetto e la credibilità che si merita. Ed i primi a saperlo dovrebbero essere proprio i Cocer della Finanza che mi hanno sempre visto schierato al loro fianco, a difesa e tutela del personale, soprattutto quello di grado meno elevato. Ed in queste battaglie, o questi anni – conclude – chi si contrapponeva con forza a richieste legittime è sempre stato qualcun altro”.

Addio al giornalista D'Avanzo

Lutto nel mondo dell'informazione: è morto improvvisamente per un infarto Giuseppe D'Avanzo, firma di punta di Repubblica. A darne notizia è stato il sito del quotidiano fondato da Eugenio Scalfari.

GRANDE FIRMA - Nato a Napoli nel dicembre del 1953, laureato in filosofia, dopo aver lavorato al Corriere della Sera, nel 2000 è approdato al quotidiano ora diretto da Ezio Mauro. Con il collega Carlo Bonini ha curato le principali inchieste e gli scoop nei quali la cronaca nera si è incrociata con la politica, soprattutto estera e militare. Con Attilio Bolzoni, esperto di mafia, ha pubblicato Il Capo dei Capi. Vita e carriera criminale di Totò Riina (Rizzoli, 2007, decima edizione), da cui è stata tratta un'omonima miniserie tv trasmessa da Canale 5. Tra le inchieste di cui si è occupato vi sono: il "Nigergate", la falsa notizia che Saddam Hussein avrebbe voluto acquistare uranio in Nigeria; il rapimento di Abu Omar; poi il caso delle escort legate a Giampaolo Tarantini. D'Avanzo è poi l'autore delle «10 domande» rivolte al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, scaturite dalle rivelazioni sulla partecipazione del premier alla festa a Casoria per il diciottesimo compleanno di Noemi Letizia.

IL CORDOGLIO DI SCHIFANI - Il presidente del Senato, Renato Schifani, appresa la notizia dell'improvvisa e prematura scomparsa di D'Avanzo, ha voluto esprimere a nome suo personale e dei colleghi senatori il più sincero e commosso cordoglio. Del giornalista, ha scritto Schifani nel messaggio di cordoglio inviato alla famiglia «ricordiamo tutti la passione, il rigore professionale e la capacità di raccontare i fatti con chiarezza e senza compromessi».

Redazione online
30 luglio 2011

È morto improvvisamente oggi Giuseppe D’Avanzo, giornalista e scrittore. Nato a Napoli nel 1953, laureato in filosofia, dopo aver lavorato al Corriere della Sera, nel 2000 è approdato a La Repubblica, diventandone una delle firme di spicco.

Ha curato, con il giornalista Carlo Bonini, i principali scoop investigativi nei quali la cronaca nera si è incrociata con la politica, soprattutto estera e militare: dal Nigergate al rapimento di Abu Omar, fino alle 10 domande rivolte al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, scaturite dalle rivelazioni della redazione di Napoli di Repubblica sulla partecipazione del premier alla festa di compleanno di Casoria.

Con il cronista Attilio Bolzoni, esperto di mafia, ha pubblicato "Il Capo dei Capi". Vita e carriera criminale di Totò Riinà (Rizzoli, 2007, decima edizione), da cui è stata tratta un’omonima miniserie tv trasmessa da Canale 5.

Partecipa al lutto anche il mondo della politica. «La sua morte improvvisa e imprevedibile mi addolora profondamente - ha dichiarato Walter Veltroni - era un giornalista coraggioso e impegnato, da sempre era in prima fila nella denuncia dei mali del nostro Paese, che fossero l`arretratezza sociale, l`illegalità legata alle mafie, i rischi di deviazioni negli apparati statali, l`infiltrazione di corruzione e affarismi nella cosa pubblica e nella politica. Di Peppe D'Avanzo - conclude l'ex segretario del Pd - ricordo la passione e il calore, l`irruenza e insieme lo scrupolo fino al dettaglio più piccolo delle sue inchieste». Altrettanto commosso è l'addio di Renata Polverini: «L'improvvisa scomparsa di Giuseppe D'Avanzo lascia un grande vuoto nel giornalismo italiano - sottolinea la governatrice del Lazio - l'informazione e il Paese perdono un professionista attento e scrupoloso».

E' morto Giuseppe D'Avanzo grande firma di Repubblica

E' morto improvvisamente, oggi, Giuseppe D'Avanzo. Nato a Napoli nel 1953, era una delle firme principali di Repubblica. Le sue inchieste hanno fatto la storia del quotidiano. Dal Nigergate alla vicenda Abu Omar, dal caso delle escort legate a Giampaolo Tarantini1 fino alle dieci domande poste al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi 2, dalle pagine di Repubblica, per chiedere conto dei suoi rapporti con Noemi Letizia, al caso Ruby 3. Aveva scritto Il mercato della paura. La guerra al terrorismo islamico nel grande inganno italiano e Il Capo dei capi. Vita e carriera criminale di Totò Riina.

LO SPECIALE: LE SUE INCHIESTE 4

LE DIECI DOMANDE: LO SPECIALE MULTIMEDIALE 5

Fu proprio dall'inchiesta pubblicata su Repubblica nel 2005 che prese nome la vicenda del cosiddetto Nigergate. Ovvero la vicenda secondo lui l'allora Sismi - il servizio d'intelligence militare italiano - avrebbe consegnato alla Cia falsi documenti che avrebbero dovuto provare l'importazione di uranio dal Niger da parte dell'Iraq di Saddam Hussein. Secondo la ricostruzione dell'inchiesta, il materiale sarebbe stato usato dall'allora presidente degli Stati Uniti George W. Bush per provare che il dittatore iracheno stava cercando di procurarsi armamenti nucleari, e giustificare così l'avvio della prima guerra del Golfo 6. All'epoca, il presidente del Consiglio era Silvio Berlusconi. Il 31 ottobre del 2005 incontrò il capo della Casa Bianca a Washington, e riferì che Bush aveva negato di aver ricevuto alcuna informazione da Roma.

Un'altra vicenda alla quale D'Avanzo dedicò molto del suo impegno e della sua ostinazione è quella delrapimento e trasferimento in Egitto dell'imam di Milano Hassan Mustafa Osama Nasr 7, estremista islamico e fiancheggiatore del terrorismo, sequestrato da agenti della Cia nel capoluogo lombardo il 17 febbraio del 2003. L'operazione fermò di fatto le indagini che la Procura di Milano stava conducendo riguardo ai legami dell'imam con organizzazioni fondamentaliste islamiche. Un episodio che D'Avanzo collegò con insistenza a un'attività clandestina della Cia in Italia ma anche a un'operazione congiunta degli Stati Uniti con gli 007 italiani del Sismi. Il proseguio dell'inchiesta fece emergere la possibilità che la rilevazione satellitare delle utenze di telefonia mobile del commando che sequestrò Abu Omar indicasse che, sul ouogo del rapimento, vi fossero anche, appunto, degli agenti italiani. Una strada che portò all'individuazione di una sinergia fra Sismi e esperti informatici della Telecom, creata per depistare le indagini svolte fino a quel momento e tenere sotto controllo alcuni personaggi pubblici italiani.

Più recente l'idea delle "dieci domande" 8. Che D'Avanzo decise di porre a Silvio Berlusconi, dalle pagine diRepubblica, per chiedere conto dei suoi legami con la giovane Noemi Letizia, quando il quotidiano pubblicò la notizia della partecipazione del presidente del Consiglio alla festa per il 18esimo compleanno della ragazza di Casoria, il 26 aprile del 2009. Le dieci domande vennero pubblicate il mese dopo, a maggio, in uno speciale multimediale su Repubblica.it, nel quale D'Avanzo esponeva le numerose incongruenze legate alle spiegazioni che il premier aveva dato riguardo ai suoi rapporti con la ragazza e con la sua famiglia. Incoerenze che, appunto, il giornalista sintetizzò in una serie di interrogativi a lungo ignorati da Berlusconi e ai quali, poi, rispose indirettamente nel corso della presentazione di un libro di Bruno Vespa.

(30 luglio 2011)

Morto a 58 anni Giuseppe D’Avanzo, firma di spicco di Repubblica

E’ morto oggi a 58 anni il giornalista e scrittore Giuseppe D’Avanzo. Nato a Napoli nel 1953, laureato in filosofia, dopo aver lavorato al Corriere della Sera, nel 2000 è entrato a La Repubblica, diventandone una delle firme di spicco.

Ha curato con il giornalista Carlo Bonini i principali scoop investigativi nei quali la cronaca giudiziaria si è incrociata con la politica. Dal caso di Abu Omar al Nigergate, fino al caso Ruby raccontato a quattro mani con il collega Piero Colaprico, alla vicenda della giovane Noemi Letizia e le famose dieci domande al premier Berlusconi, D’Avanzo ha seguito per anni tutte le principali inchieste del quotidiano del gruppo Espresso.

Con il cronista Attilio Bolzoni, esperto di mafia, ha pubblicato Il Capo dei Capi. Vita e carriera criminale di Totò Riina (Rizzoli, 2007), da cui è stata tratta un’omonima miniserie tv trasmessa da Canale 5.

Condoglianze per la morte di D’Avanzo sono arrivate dal mondo politico come da quello dell’informazione. Dall’Idv al Pd, alla presidente della Regione Lazio. ”Era un giornalista e un uomo capace di indignarsi – ha dichiarato l’ex segretario del Pd Walter Veltroni – ma trasformava questa indignazione in un lavoro sempre più scrupoloso ed esigente alla ricerca della verità. Ci mancheranno i suoi articoli, ci mancherà la sua presenza, ci mancheranno i suoi baffi neri e quegli sguardi ironici. In questo momento così difficile – conclude Veltroni- esprimo le mie condoglianze ai suoi familiari, al suo giornale a cui dedicava un impegno costante quasi accanito”.

“Siamo vicini alla famiglia e al giornale per l’improvvisa scomparsa di Giuseppe D’Avanzo. Un giornalista colto e coraggioso – si legge in una nota di Beppe Giulietti e Vincenzo Vita – uno di quelli che ha onorato l’articolo 21 della Costituzione e che, anche per questo, è stato detestato da chi ha sempre anteposto l’oscurità alla trasparenza, l’interesse privato al bene comune”.

Chi tocca la sinistra muore

FERRUCCIO SANSA

Chi tocca il centrosinistra muore. “La macchina del fango comincia a girare”. Dopo aver ascoltato le parole di Pierluigi Bersani, gli accenti berlusconiano-vittimisti del segretario Pd, sento che per una volta posso contravvenire a una delle regole auree del cronista: mai parlare di se stessi.

E così racconterò dell’amara esperienza di diventare una specie di paria, un intoccabile nella mia città perché ho osato scrivere inchieste sul centrosinistra. Ma prima faccio una premessa. Nel corso degli anni ho parlato di decine di politici di entrambi gli schieramenti: Alemanno, Formigoni, Moratti, Storace, Berlusconi, Matteoli, Galan, Romani, Romano, Scajola, Grillo (Luigi), Calderoli, Bossi, D’Alema, Bersani, Penati, Burlando. Tanto per fare alcuni nomi. Gli esponenti d icentrodestra sono la maggioranza.

Però dopo vent’anni di lavoro (prima di approdare al Fatto sono stato al Messaggero, La Repubblica, Il Secolo XIX e La Stampa) una cosa posso dirla: i fastidi che mi hanno procurato le inchieste sul centrosinistra non hanno uguali. Certo, il centrodestra è più duro, diretto, usa nei confronti dei giornalisti una logica proprietaria. Un certo centrosinistra no, non ti schiaccia direttamente, preferisce la calunnia, l’insulto, la telefonata a direttori ed editori.

Con un’aggravante: l’arroganza del centrodestra, seppur più violenta, non pretende di essere “giusta”, ha lo scopo manifesto di metterti a tacere. Il centrosinistra è diverso: si sente investito di una missione, chi osa metterlo in discussione è “disonesto”, “in mala fede”, “vendicativo”, “scorretto”. Tutte accuse che mi sono state rivolte, sempre in forma anonima e senza lo straccio di una prova.

Ma veniamo ai fatti. Mi capita anni fa, mentre seguivo lo scandalo Antonveneta, di raccontare i rapporti di Gianpiero Fiorani con noti esponenti politici. Per giorni descriviamo i legami della Lega con il re delle scalate bancarie. Non succede nulla. Poi ecco che arriva la prima notizia su un esponente del centrosinistra: il contratto di leasing dello yacht di Massimo D’Alema è stato stipulato con una società legata alla Banca di Lodi. Niente di illegale, ma una storia che è giusto approfondire e magari riferire ai lettori. Risultato: mezzora dopo il mio colloquio con D’Alema arriva al giornale una telefonata che annuncia, in caso di pubblicazione, una denuncia per violazione del segreto bancario. Il giorno dopo D’Alema diffonde un comunicato e racconta “spontaneamente” l’episodio.

Piccolezze, si dirà, come decine di altri episodi. Ma i guai seri vengono quando decido di scrivere degli intrecci tra politica (di centrosinistra, come di centrodestra) e affari che stanno dietro alla cementificazione della Liguria. Non arriva una riga di smentita o querela, del resto sarebbe stato difficile, visto che ogni parola dell’inchiesta è documentata. Ma quando compare il primo articolo subito mi chiamano dal mio giornale: “Ferruccio, una persona ai vertici del centrosinistra ha fatto una telefonata ai massimi livelli. Dice che hai scritto un articolo pieno di falsità. Noi non ne teniamo conto, ma tu sappilo”.

Era l’inizio. Quando con il collega Marco Preve scrissi il libro, “Il partito del cemento”, dedicato alla passione bipartisan dei politici liguri per il mattone, mi dichiararono guerra aperta. Si parlava, tra l’altro, con anni di anticipo rispetto all’inchiesta della Procura di Roma, dei legami dei vertici del partito nazionale e ligure con Vincenzo Morichini, Franco Pronzato e i loro soci. Ancora nessuna replica. Un muro di silenzio.

Finché mi venne offerto un posto di rilievo in un grande giornale. Dopo mesi venni a sapere che proprio nel periodo della trattativa i vertici del Pd nazionale avevano fatto arrivare il messaggio che l’incarico non era gradito al partito.

Insomma, la mia carriera ha rischiato. E anche il clima che respiravo in città è cambiato. Quando mi presentai nella sede del Pd genovese per scrivere un articolo sulle elezioni regionali del 2010 uno dei massimi dirigenti locali mi accolse così: “Ecco l’amico di Berlusconi. Vergogna, vattene”, e via con accuse e insulti.

Ma agli insulti, soprattutto se deliranti, è facile rispondere. Peggio sono le calunnie: non hai un interlocutore cui replicare. Di più: se ribatti dai dignità alle accuse che ti sono rivolte, le ingigantisci, dai loro concretezza. Insomma, devi subire.

E lascio perdere gli episodi più pittoreschi, come quando mi avvertirono che qualcuno nel Pd faceva circolare l’immancabile voce che ero omosessuale, anzi, “buliccio” come si dice a Genova. Ne parlai con mia moglie, sorridemmo sorpresi: per me ovviamente non era un insulto, ma mi stupiva che qualcuno in un partito che si dice progressista lo considerasse tale. Lentamente la tenaglia, però, si stringeva. Difficile vivere nella vostra città quando venite condannati all’ostracismo dal partito che governa da decenni, che guida gli enti locali da cui arrivano milioni di euro in pubblicità istituzionale a puntellare i bilanci di tutti gli organi di informazione (un’altra inchiesta poco gradita dal Pd). Si finisce cancellati, pesantemente insultati a incontri pubblici (è toccato perfino alla mia famiglia, colpevole di avermi messo al mondo). Insomma, intoccabili. Finché sono arrivato al Fatto, che per fortuna è impermeabile a certi interventi.

Mai nessuno, però, che abbia risposto alle nostre inchieste in modo documentato. Bersani, tengo a dirlo, non è mai stato coinvolto negli episodi che ho citato. Ma forse sarebbe bene che li conoscesse, prima di invocare la macchina del fango e vestire i panni della vittima.

*Non ho fatto volutamente i nomi dei protagonisti e dei testimoni di questi episodi. Posso scegliere di affrontare una battaglia, ma non posso trascinarci anche gli altri.

Il Fatto Quotidiano, 30 luglio 2011

Chi Scommette contro di Noi

Il differenziale tra i Btp a 10 anni e i bund tedeschi è salito ieri fino al 3,37%. Di questo passo, in poche settimane, i tassi sul debito pubblico italiano potrebbero superare quelli spagnoli. Troppo alti per dare ancora fiducia. E allora la fuga dal rischio Italia potrebbe diventare un'eventualità concreta. Irrazionale, ove si consideri l'economia reale. Ma i mercati sono razionali solo nella fantasia degli economisti. Tipico, per esempio, l'effetto gregge. Di cui abbiamo appena avuta una dimostrazione con il riposizionamento di alcuni fondi americani e di assicurazioni tedesche e italiane.

L'altro ieri, mentre le associazioni imprenditoriali, bancarie e sindacali invocavano un atto di discontinuità del governo e un Patto per la crescita, il Financial Times avvertiva che Deutsche Bank aveva ridotto da 8 miliardi di euro a uno il suo investimento in titoli pubblici italiani. La Germania è il secondo finanziatore estero del Belpaese, il primo è la Francia. La prima spiegazione («Postbank, che abbiamo acquisito nel 2010, aveva troppi titoli italiani rispetto alle nostre medie, che sono di 1-1,5 miliardi») appare insufficiente. Da Milano, il responsabile di Deutsche Bank per l'Italia, Flavio Valeri, ricorda l'impegno sul campo. Che c'è. Ma a questo punto, magari dalla sede di Londra, la prima banca tedesca, a fortissima vocazione finanziaria, dovrebbe rivelare la variazione dei suoi investimenti nel primo semestre del 2011 per ogni Paese dell'Eurozona e per le altre macroregioni del mondo. E Josef Ackerman, leader di Deutsche Bank, dovrebbe chiarire perché ha ridotto dell'88% l'investimento nei titoli pubblici italiani, mentre la sua stessa banca diffondeva rapporti lusinghieri sui medesimi. L'ultimo risale al 20 luglio.

Prima che parli, vorremmo pregarlo di evitarci la favoletta delle muraglie cinesi che separano gli uffici studi dalle sale operative. L'Italia ha imparato a sue spese la lezione delle banche internazionali che prima ti colpiscono e poi si offrono di soccorrerti. Accadde nel 1992, con l'attacco alla lira e poi con la ben remunerata assistenza, prestata alla vendita delle partecipazioni statali e alla gestione di una larga parte del risparmio italiano. Di concerto con le autorità di controllo delle Borse di Londra e Francoforte, la Consob dovrebbe indagare sulle transazioni di Deutsche Bank per fugare ogni dubbio su una manipolazione del mercato ovvero passare le carte alla procura della Repubblica. Ma più e prima della Consob dovrebbe essere il governo a sincerarsi presso la cancelleria di Berlino sulle intenzioni reali della Germania rispetto all'Italia. Dove - ma non è nemmeno il punto principale - banche e assicurazioni oggi possono essere scalate con modica spesa.

Il debito pubblico tedesco, ancora basso in relazione al Pil, ha sorpassato quello italiano in cifra assoluta. Qualche sua asta ha mostrato piccoli segni di difficoltà. Se Deutsche Bank non è sola, è legittimo sospettare una riduzione dell'investimento del sistema finanziario tedesco nei titoli pubblici altrui a favore di quelli del proprio Paese. E l'aumento dei differenziali convoglierebbe verso i sicurissimi bund sia il risparmio interno che quello degli altri Paesi, e il risparmio italiano è ingente. Sono incubi da spread ? Speriamo. Ma vorremmo tanto che qualcuno da Roma ci dicesse: abbiamo verificato dati alla mano, Frau Merkel e la Deutschland Ag nutrono sempre fiducia nell'Azienda Italia. E invece leggiamo di Silvio Berlusconi che potrebbe assumere l' interim dell'Economia, ma non telefona a Berlino.

Massimo Mucchetti
29 luglio 2011

Distrazione italiana

Un altro giorno, un'altra scossa. Anche ieri il premio di rischio che i titoli di Stato italiani devono pagare per trovare dei compratori sul mercato è salito e ormai viaggia ai livelli più alti da ben prima che partisse l'euro. Più che i record, colpisce la dinamica dello smottamento: dall'inizio di luglio il differenziale (o spread) con la Germania è quasi raddoppiato e il costo del debito per il Tesoro è salito rapidamente. In giugno la Repubblica italiana poteva indebitarsi a dieci anni pagando interessi del 4,7%, ieri invece lo stesso margine sfiorava il 6%.

È stato un luglio orribile, che per certi versi ricorda quello nel '92 da cui speravamo di esserci vaccinati per sempre. Come allora, si rincorrono le voci e le accuse alle banche straniere, a quei tempi Goldman Sachs, oggi Deutsche Bank. Come allora, l'Italia è finita al centro di una «tempesta di opinione» internazionale in cui la difficoltà del governo e la sfiducia degli investitori si alimentano a vicenda.

Eppure le analogie finiscono qua. Diversamente dal '92 l'Italia non può svalutare per dare subito ossigeno all'export e all'occupazione. Non può farlo, anche se ormai è chiaro che occorre evitare a tutti i costi un altro mese orribile come questo. In agosto il Tesoro ha cancellato le aste dei Btp, ma a settembre dovrà tornare a raccogliere i prestiti che servono al Paese per funzionare ogni giorno: per allora servono condizioni sostenibili. Sperare che la situazione si calmi da sé, che arrivi l'Europa a toglierci dai guai oppure prendersela con la speculazione non serve più a molto.

Ai mercati è difficile che l'Italia possa dettare le condizioni avendo costantemente bisogno di prestiti per 1.900 miliardi. Quanto all'Europa, il nuovo fondo salvataggi non sarà operativo prima di fine settembre (a essere ottimisti) e la Bce non intende aiutare l'Italia se prima l'Italia non si aiuta da sé. Perché il punto è esattamente questo: andare in vacanza con l'idea che nel frattempo la crisi si fermi e ci aspetti sarebbe peggio di un'ingenuità. Sarebbe la riprova che in Italia latita la consapevolezza dei rischi che corriamo e ciò non farebbe che alimentare il problema di credibilità internazionale del Paese. È una spirale da evitare: minore è la credibilità, più vulnerabili si diventa sui mercati. Perché mai un investitore dovrebbe puntare su un Paese il cui governo, mentre il contagio divampa, dibatte su qualche stanzone a Monza?

In realtà neanche la manovra è bastata a rassicurare i mercati e per molti aspetti la situazione sta diventando simile a quella della Spagna di qualche mese fa. Anche lì le parti sociali hanno messo sotto pressione il governo, come da noi questa settimana. Alla fine Zapatero ha affrontato le vacche sacre delle riforme che servono alla Spagna: lo ha fatto per coraggio o perché non aveva scelta, ma così si è tolto dalla scia dei Paesi più in difficoltà e oggi il premio di rischio spagnolo aumenta meno di quello italiano. Anche da noi serve lo stesso coraggio, per lo meno nelle dosi minime necessarie perché il governo convochi subito, non a settembre, l'incontro sulla crisi con le parti sociali. Meglio farlo ora. Domani, purtroppo, di coraggio potrebbe volercene di più.

Federico Fubini
30 luglio 2011

Arrestato in Texas militare Usa "Preparava attentato a commilitoni"

Il giovane, Nasser Abdo, era di fede musulmana. Rintracciato vicino alla base di Fort Hood, dove nel 2009 uno psichiatra militare compì una strage di soldati. Trovato esplosivo nella stanza d'hotel.

La polizia texana ha arrestato un soldato dell'Esercito americano, sospettato di stare preparando un attentato contro i suoi commilitoni. Il giovane militare, di stanza alla base di Fort Campbell in Kentucky, ha disertato il fine settimana del 4 luglio, il giorno dell'Independence Day, dopo essere stato accusato di possedere immagini di pornografia infantile sul suo computer, visti i rischi di essere processato dinnanzi ad una corte marziale. Il disertore è stato arrestato a Killeen, su segnalazione di un dipendente del negozio di armi locali. Abdo aveva insospettito il suo interlocutore, Greg Ebert, con le sue strane domande sulle munizioni calibro 40. Il disertore ha lasciato il negozio dopo avere acquistato tre scatole di munizioni e una rivista di pistole. Ha pagato in contanti e con un taxi si è poi recato ad acquistare una uniforme militare in un negozio specializzato.

Nella sua stanza d'albergo, l'Fbi ha trovato il necessario per costruire almeno due ordigni esplosivi: polvere da sparo, bossoli, una pentola a pressione, una decina di chilogrammi di zucchero, quattro riviste specializzate oltre a munizioni. Secondo la Cnn, Abdo intendeva utilizzare come timer per provocare l'esplosione una serie di luci per addobbare l'albero di Natale. Sempre secondo la rete tv, nel suo zainetto è stato ritrovato materiale propagandistico inneggiante ad Al Qaeda. Dopo averlo interrogato gli investigatori ritengono a questo punto che il soldato intendesse "ordire un attentato terroristico" contro "personale militare": lo ha spiegato il capo delle forze dell'ordine cittadine, Dennis Baldwin. "Posso affermare che, se non lo avessimo fermato, probabilmente oggi starei qui a tenere una conferenza stampa ben diversa", ha osservato Baldwin.

L'Fbi ha identificato il sospetto attentatore mancato
come Nasser Jason Abdo, 21 anni, originario dei dintorni di Dallas, di fede musulmana, che l'anno scorso si era dichiarato obiettore di coscienza per evitare di essere inviato al fronte in Afghanistan. Non è al momento da escludere un clamoroso caso di tentata emulazione: il 5 novembre 2009 proprio Fort Hood fu infatti teatro di una sanguinosa sparatoria, costata la vita a tredici persone e il ferimento di ulteriori 32. Della strage è stato accusato formalmente uno psichiatra militare, maggiore Nidal Malik Hassan, che il prossimo marzo dovrà comparire davanti alla corte marziale.

(28 luglio 2011)

Da Unipol-Bnl alla strage di Viareggio le cause a rischio per i testimoni "infiniti"


di LIANA MILELLA
Per un Berlusconi libero dai processi, che di dibattimenti in primo grado, perché solo a quelli si applica la nuova legge, ne vadano pure in malore a migliaia. Nomi? I più famosi, in questo momento, nelle aule giudiziarie italiane. Eccoli. A Milano la famosa scalata Unipol alla Bnl. Quella dei furbetti del quartierino. Ma pure i meno noti, ma assai gravi crac Burani e Cit. Clamoroso a Torino: potrebbero tornare i 9.841 testimoni chiesti dai difensori per i morti dei veleni della Eternit. I giudici ne hanno concessi due a persona, ma adesso tutto potrebbe riaprirsi. A Viareggio. Ancora di scena il dibattimento per la strage del treno deragliato in stazione. Stimano i pm che i 38 indagati delle Ferrovie potrebbero pretendere di sentire decine di testimoni a testa. E a Roma? Potrebbe andare in crisi il processo Cucchi, il detenuto morto per le percosse ricevute, perché gli avvocati sarebbero legittimati a presentare una lista testi in cui figurano tutti coloro che si trovavano nel penitenziario e in questura e in ospedale in quei drammatici momenti. A Palermo sarebbe la fine dei processi di mafia. Un esempio? Franco Mineo, deputato regionale del transfuga Pdl Micciché, indagato per essere un prestanome dei boss dell'Acquasanta, potrebbe far chiedere dai suoi avvocati una sfilza di testi che comprende l'intero quartiere dove ha vissuto. E a Bari rischierebbero l'impasse inchieste ormai in aula o prossime ad esserlo come quelle sul ministro Raffaele Fitto e sul re della sanità pugliese Giampaolo Tarantini. Idem a Bologna per la bancarotta fraudolenta della società Victoria 2000 che controllava la squadra di calcio o per le morti all'ospedale Sant'Orsola.

Potrebbero essere davvero "devastanti", come da due giorni vanno dicendo disperati i vertici dell'Anm Luca Palamara e Giuseppe Cascini, gli effetti concreti della legge sul "processo lungo". Com'è sempre avvenuto nelle leggi cucite addosso a Berlusconi, ritagliate dai suoi casi giudiziari, praticamente scritte sopra con l'antica carta carbone,
i guai cominciano quando si applica la norma a tutto il resto. A tutti gli altri processi in corso in Italia. È accaduto, appena qualche mese fa, con la prescrizione breve per gli incensurati. Si calcolò che potevano finire al macero 15mila dibattimenti. Adesso il drammatico calcolo ricomincia. Ma stavolta, di primo acchito, con gli uffici che sono già o stanno per andare in ferie, l'impressione è che l'impatto, proprio per la natura della norma, potrebbe essere ben più invasivo e devastante.

In queste ore, si stanno facendo le prime valutazioni. Ci ragionano l'Anm, ma anche il Csm. Pronti, a settembre, a dare battaglia con i dati alla mano. L'opposizione già scopre la sua strategia. La dichiara
Donatella Ferranti, la capogruppo del Pd in commissione Giustizia alla Camera, che del Csm è stata segretaria generale: "Non è una stima facile, intendiamoci. Ma è del tutto imprescindibile. Ci comincerò a lavorare subito, da lunedì. Ed è chiaro che questo costituirà la base della nostra opposizione. Vogliamo sapere nel dettaglio quanti processi cadranno pur di salvare Berlusconi". "Impatto", magica parola, da cui in questa legislatura si sono tenuti sempre lontano gli strateghi giudiziari del premier. E il governo con l'ex Guardasigilli Alfano. Fanno le leggi, ma non danno i numeri. Perché sanno che sono catastrofi.
Di Berlusconi e dei suoi processi s'è detto. "Morte" certa per Mills, "morituro" Mediaset, in zona salvezza Mediatrade, senza rischi Ruby. Questa previsione la ammette pure Niccolò Ghedini, l'avvocato del Cavaliere, che parla del "processo lungo" come di "una norma di civiltà giuridica" e di "semplice traduzione dell'articolo 111 della Costituzione". Abbiamo visto che effetti produce in giro per l'Italia questa norma. Un primo sondaggio attraverso gli uffici rivela una prossima e sicura catastrofe. Un "colpo mortale per la giustizia italiana", come dice il segretario di Md Piergiorgio Morosini. Quello per cui un omicidio come quello del tifoso laziale Gabriele Sandri sull'autostrada giustificherebbe la convocazione di centinaia di automobilisti in veste di testimoni.
(30 luglio 2011)

Il contrattacco della Finanza "Da sette anni Tremonti non dorme da noi"

Il Capo di Stato maggiore della Guardia di Finanza, Michele Adinolfi

di CARLO BONINI

Sostiene il ministro dell'Economia Giulio Tremonti di essere stato "pedinato" e "spiato" nel suo lavoro. E, a un certo punto, di non essersi più sentito tranquillo nemmeno durante i suoi lunghi anni da ospite di una caserma della Guardia di Finanza. La situazione era così pesante, denuncia il ministro, che l'ultima cosa che aveva voglia di fare "era di tornare a dormire in una caserma". E per questo di aver accettato nel febbraio del 2009, l'offerta dell'onorevole Milanese per l'appartamento di via di Campo Marzio. Adesso la Finanza contrattacca e dà la sua versione. Secondo fonti del Corpo, il ministro Tremonti non avrebbe più dormito in un letto di una caserma delle Fiamme gialle dal giugno-luglio del 2004. Sette anni fa. La Guardia di Finanza che doveva proteggere la sua sicurezza e la sua privacy ha violato l'una e l'altra? E quando? In che circostanza?

Il ministro non dorme in caserma da sette anni. Per quanto la Guardia di Finanza è in grado di documentare, "l'ultima volta che Giulio Tremonti fu ospite con cadenza regolare di una struttura del Corpo fu quando, nei primi mesi dell'estate del 2004, alloggiava in una delle foresterie al secondo piano della caserma di via Sicilia". Nemmeno un chilometro in linea d'aria dagli uffici del ministero, in via XX Settembre. Da allora, la sua scorta di finanzieri, nei giorni in cui il ministro si tratteneva a Roma, lo accompagnava altrove. Alberghi, o residenze private. "Naturalmente - spiega una fonte qualificata del Corpo - tenendone traccia, come è normale e come la legge prevede per qualunque personalità sia sottoposta a un massimo livello di vigilanza come un ministro". Dunque, se si sta a quanto la Finanza sostiene di poter documentare, Tremonti, nel febbraio del 2009, quando accetta la proposta di Milanese, si è già liberato da molto tempo degli occhi e delle orecchie da caserma. E la scelta di un appartamento privato, sembra dunque legata al desiderio di una privacy assoluta che, evidentemente, neppure un albergo può garantire.

I due verbali ai pm Napoletani
. Il 16 dicembre del 2010, Giulio Tremonti rende un primo interrogatorio alla magistratura napoletana. Due giorni prima, "Repubblica" ha dato conto che il suo consigliere politico
Marco Milanese è indagato. Tremonti dunque è conscio di quanto sta accadendo e avrebbe l'occasione per riferire il sospetto sulla Guardia di Finanza che lo tormenta. Ma non ne fa cenno. Neppure indirettamente. La chiacchierata è sbrigativa. Gira intorno ad orologi di pregio che Milanese avrebbe acquistato a scrocco per farne dono al ministro. Passano sei mesi. Il 17 giugno, Tremonti siede nuovamente di fronte ai pm napoletani Woodcock e Curcio. Appena quattro giorni prima, il 13 giugno, Marco Milanese, nel suo ultimo interrogatorio, nel raccontare la guerra per bande che avvelena lo Stato Maggiore della Finanza, ha genericamente riferito che "il ministro aveva la percezione di essere seguito". Ma anche stavolta, Tremonti di pedinamenti e caserme non parla. Soltanto quando viene sollecitato con l'ascolto di un'intercettazione telefonica tra il capo di stato maggiore Michele Adinolfi e il presidente del Consiglio, decide di aprire uno squarcio su quanto accade negli uffici dello Stato Maggiore in viale XXI aprile. "Gli ufficiali, nella prospettiva di diventare comandanti generali hanno preso a coltivare relazioni esterne al Corpo, che non trovo opportune. C'è il rischio di competizione. (...) Ho suggerito al Comandante Generale di dare alcune direttive nel senso di avere un tipo di vita più sobria. Gli ho detto: "Meno salotti, meno palazzi, più caserma". I pm insistono. E Tremonti, allora, evoca l'esistenza di "cordate" nel corpo. E una, almeno, decide di "battezzarla" con il nome del suo capobastone, il generale Michele Adinolfi, intimo di Gianni Letta e del presidente del Consiglio. Nessun accenno a pedinamenti, a spionaggio ai suoi danni. Anzi, a Woodcock e Curcio, il ministro decide di offrire un'interpretazione morbida di quanto ha appena detto. "Ribadisco che non ho mai detto a Berlusconi che lui mi voleva far fuori attraverso la Guardia di Finanza".

Il grande gelo con il generale Di Paolo
.
16 dicembre 2010, 17 giugno e 28 luglio 2011. I ricordi di Tremonti si "drammatizzano" in assoluta coincidenza temporale con l'aggravarsi della posizione processuale e politica di Marco Milanese, con l'impossibilità di togliersi d'impaccio dalla vicenda di via di Campo Marzio con una scrollata di spalle, o rapide scuse. Soprattutto, dai ricordi del ministro viene cancellata una circostanza di cui, in queste ore, si raccoglie conferma da fonti qualificate del Comando Generale. La "rottura" tra il ministro e lo Stato maggiore della Guardia di Finanza ha una data: dicembre 2010. Un mese cruciale, perché è quello che precipita Milanese nell'abisso dell'inchiesta per corruzione del pm Vincenzo Piscitelli. Raccontano oggi della "furia di Tremonti in quei giorni". Dei modi bruschi che riservò al comandante generale Nino Di Paolo, nella certezza che quell'indagine fosse figlia della macchinazione di Michele Adinolfi, allora capo di Stato Maggiore.

La rottura della pace tra le due cordate.
La "pace" tra le cordate di viale XXI Aprile si rompe allora, nel dicembre del 2010. Anche perché, come il ministro riferirà solo il 17 giugno di quest'anno ai pm, le cordate, appunto, sono due. E quella che lui non ha nominato a verbale fa capo proprio a Marco Milanese, nella persona del generale di corpo d'armata
Emilio Spaziante, creatura di Nicolò Pollari, suo facente funzioni, già fedele alleato di Speciale nell'agguato a Padoa-Schioppa e Visco, nel loro breve intervallo all'Economia. Come Adinolfi, Spaziante lavora per diventare comandante generale della Guardia di Finanza nel giugno del 2012. E come Adinolfi, con il suo accordo e la benedizione di Milanese, ha convenuto nel giugno del 2010 che il primo Comandante generale proveniente dai ranghi del Corpo debba essere Di Paolo, perché "ufficiale più anziano" e più prossimo alla pensione. I guai di Milanese costringono i due generali a prendere le armi l'uno contro l'altro. E Spaziante, a verbale con i pm napoletani, carica Adinolfi anche di una seconda accusa per fuga di notizie. Quella sugli accertamenti fiscali a Mediolanum.

La guerra non è finita allora. Non finirà domani. Ma agli occhi degli Stati Maggiori, da oggi, il ministro Tremonti, a dispetto della telefonata fatta ieri al generale Di Paolo, non ne è più uno spettatore. Ma un protagonista.

(30 luglio 2011)