giovedì 30 settembre 2010

MIGLIO AL SOLE


di Gianni Barbacetto

Il Sole delle Alpi sarà tolto (speriamo presto) dalla scuola di Adro, e va bene. Su questo è intervenuto perfino il capo dello Stato. Ma un’altra ferita resta aperta: è mai possibile che una scuola pubblica della Repubblica italiana sia intestata a Gianfranco Miglio? Non solo per il fatto che Miglio la Repubblica la voleva distruggere, dividendola in tre “cantoni”, Nord, Centro e Sud. Ma anche e soprattutto per “come” voleva distruggerla. Aveva un lucido piano, che per qualche tempo ha camminato sulle gambe della Lega. E che ha esplicitato in un’intervista rilasciata al Giornale nel 1999. “Io sono per il mantenimento anche della mafia e della ’Ndrangheta. Il Sud deve darsi uno statuto poggiante sulla personalità del comando. Che cos’è la mafia? Potere personale, spinto fino al delitto. Io non voglio ridurre il Meridione al modello europeo, sarebbe un’assurdità. C’è anche un clientelismo buono che determina crescita economica. Insomma, bisogna partire dal concetto che alcune manifestazioni tipiche del Sud hanno bisogno di essere costituzionalizzate”.

Ecco il progetto di Miglio: “Costituzionalizzare” la mafia, affidandole in gestione il Sud (il Centro era da abbandonare alla “vecchia politica romana”), in modo da avere le mani libere sul Nord. Farneticazioni di un vecchio professore bizzoso? No, garantiscono i magistrati di una vecchia inchiesta palermitana, chiamata “Sistemi criminali”.

C’era, nei primi anni Novanta, un progetto per ridisegnare gli assetti del potere in Italia, dopo la deflagrazione della Prima Repubblica. Erano all’opera diversi soggetti: una parte del vecchio mondo politico, esponenti del mondo economico, pezzi degli apparati dello Stato, settori della massoneria... Ma anche Cosa Nostra e la ’Ndrangheta si erano messi in pista. Erano alla ricerca di nuovi referenti politici, dopo aver rotto con la Dc di Giulio Andreotti, accusato di non aver mantenuto gli impegni presi con i boss. Avevano così promosso, insieme con una composita compagnia di massoni e fascisti, faccendieri e affaristi, la costituzione di Leghe del Sud: contrapposte ma complici della Lega Nord. Il risultato sperato: far diventare la Sicilia “la Singapore del Mediterraneo”, in mano a Cosa Nostra. Naturalmente il Nord sarebbe stato lasciato a Umberto Bossi.

Un piano da fantascienza? Per giudicare, bisogna ripensare a quei mesi febbrili del 1992-93 in cui i vecchi partiti crollavano sotto i colpi di Mani Pulite, le stragi insanguinavano l’Italia e tutto pareva possibile. Dentro la Lega, in quei mesi, si dava da fare un ambiguo faccendiere, strettamente legato al professor Miglio: Gianmario Ferramonti, amministratore della Pontidafin, la finanziaria del Carroccio, in contatto con la massoneria italiana e internazionale e con ambienti dei servizi di sicurezza nazionali e stranieri.

Racconta il collaboratore di giustizia Leonardo Messina: “Dopo la Lega del Nord sarebbe nata una Lega del Sud, in maniera tale da non apparire espressione di Cosa Nostra, ma in effetti al servizio di Cosa Nostra; e in questo modo noi saremmo divenuti Stato”. Aggiungono i magistrati: “Uno dei protagonisti dell’operazione sarebbe stato Gianfranco Miglio”. È lo stesso Miglio a cui in Padania si intitolano scuole?

Il caso Fini e la doppia morale


di Bruno Tinti

“Ma certo che quelle società sono mie! Mi servivano per non pagare le tasse! Perché, lo sapete, oltre il 35% di aliquota, evadere le imposte è legittima difesa”. Così disse B. ai tempi del balletto sulle 64 società off-shore (processo All Iberian): sono mie, non sono mie; e alla fine la proterva verità. Di cui peraltro nessuno aveva dubitato. “Sì, B. ha commesso falso in bilancio (processo Lentini-Milan). Ma va assolto perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato”. Così ha detto il Tribunale di Milano dopo che B. si era fatto la legge che depenalizzava di fatto il falso in bilancio. “Sì, non ci sono prove che dimostrino che B. non ha commesso falso in bilancio (processo All Iberian 2). Ma è passato troppo tempo, i reati sono prescritti.” Così ha detto il Gip di Milano dopo che B. si era fatto la legge che dimezzava i tempi di prescrizione.

I “guai giudiziari”del premier

“SÌ, NON CI SONO prove che dimostrino che B. non ha corrotto i giudici (Lodo Mondadori). Ma è passato troppo tempo, i reati sono prescritti”. Così ha detto la Corte d’Appello di Milano.

“Sì, non ci sono prove che dimostrino che B. non ha corrotto i giudici (Toghe sporche-SME). Ma è passato troppo tempo, i reati sono prescritti”. Così ha detto il Tribunale di Milano.

“Sì, non ci sono prove che dimostrino che B. non ha dato 21 miliardi a Craxi. Ma è passato troppo tempo, i reati sono prescritti”. Così hanno detto la Corte d’Appello di Milano e poi la Cassazione.

“Sì, B. ha commesso falso in bilancio (processo terreni di Macherio). Ma c’è l’amnistia”. Così ha detto la Corte d’Appello di Milano.

“Sì, B. ha commesso falsa testimonianza (processo P2). Ma c’è l’amnistia”. Così ha detto la Corte d’Appello di Venezia.

“Sì, Alleanza nazionale ha venduto a una società off-shore un appartamento che aveva ricevuto in eredità; ha preso 300.000 euro e li ha iscritti a bilancio. Adesso in quell’appartamento c’è il fratello della compagna di Fini. Fini deve dare le dimissioni da presidente della Camera”. Così hanno detto i giornali e le televisioni controllati o posseduti da B.

Stropicciamoci gli occhi. B ha evaso le imposte, ha commesso falsi in bilancio e corruzioni, finanziamento illecito dei partiti e falsa testimonianza. Però da 17 anni (con qualche fortunata interruzione) è presidente del Consiglio dei ministri. E tutti i C di B. spiegano in coro che ha il diritto-dovere di governare. E Fini? Che ha fatto Fini? Perché B&C spiegano in coro che si deve dimettere da presidente della Camera?

In effetti, cosa ha fatto Fini ancora non si sa: forse non ha fatto niente, forse è stato uno stupido, forse ha favorito il fratello della sua compagna. In quest’ultimo caso, solo in questo, potrebbe aver commesso un reato. Vediamo.

Alleanza nazionale era un partito; cioè un’associazione privata. I soldi di An sono soldi privati; sicché, se qualcuno se ne è presi un po’, li ha (illecitamente) sottratti a un soggetto privato. L’evasione fiscale è un reato contro l’economia pubblica. La corruzione è un reato contro la Pubblica amministrazione. La falsa testimonianza è un reato contro l’amministrazione della Giustizia. Il falso in bilancio è un reato contro il mercato e la generalità dei cittadini. Quando B. ha commesso tutti questi reati, ha sottratto soldi e procurato danni a tutta la collettività. Già messa così, si può concludere che B. non potrebbe essere assunto nemmeno come portantino in un ospedale pubblico; ma Fini (che non è indagato e non ha precedenti) sì. Insomma, B. è ufficialmente persona che ha violato la legge (sarebbe bello poter dire che è un pregiudicato ma tecnicamente non è così e quindi bisogna trovare queste formule precisine); Fini è ufficialmente una persona onesta. Per meglio dire, lo è fino a quando non sarà stato accertato il contrario. Ma, se fosse accertato il contrario, quali reati avrebbe commesso? Corruzione di minorenne, frode fiscale, corruzione? No, niente di tutto questo: una truffa. Reato procedibile a querela di parte, tanto per capirne la gravità.

Vendere un appartamento non è reato, naturalmente; e nemmeno è reato venderlo a una società off-shore. Se poi l’operazione viene correttamente descritta in bilancio, dovresti dormire tra due guanciali: An prima aveva un appartamento e poi ha avuto i soldi: normale gestione patrimoniale. Certo, il prezzo deve essere congruo; ma qui le cose si fanno complicate. Io ho una vecchia Giulietta spider del 1960: valore? Secondo me 50.000 euro; ma se poi me ne offrono 40.000 o 35.000, non ho altri compratori in vista e sono in difficoltà a pagare le spese del garage, magari la vendo lo stesso. Insomma, un appartamento non è una copia del nostro giornale che si sa che costa 1 euro e 20; ha un valore di mercato, entro certi limiti indeterminato. Più delicata è la questione se la decisione di vendere è stata presa per favorire Tulliani fratello che aveva tanta voglia di vivere a Montecarlo. Se il prezzo era congruo, niente di penalmente rilevante. Però, certo Fini non ci fa una bella figura. Capisco che, anche in questo caso, a fronte dei suoi ex colleghi di partito,ne esce fulgido come Santa Maria Goretti; ma, per le persone normali, non è proprio una cosa ben fatta.

La casa di Montecarlo

E SE L’HA SAPUTO dopo? Metti che Tulliani fratello abbia fatto tutto da solo, sapendo per via dei suoi rapporti con Fini che An voleva vendere questo alloggio. E che Fini abbia saputo come stavano le cose solo dopo il dossieraggio dei giornali di B. Reati, nessuno, ancora una volta; però, a non dire subito come stavano le cose non è stata una cosa furba.

Naturalmente, se l’appartamento valeva 1 milione di euro e Fini lo ha venduto per 300.000 a una società che sapeva far capo al fratello della sua donna, ha commesso una truffa; nei confronti di privati ma sempre una truffa. Insomma, se le cose sono andate così, Fini non ne esce molto bene; sempre molto meglio del suo ex amico, ma si tratta a questo punto di una differenza quantitativa, non più qualitativa. E in effetti, in questo caso, farebbe proprio bene a dimettersi. Invece B. non ci ha mai nemmeno pensato a dimettersi; ma lo si capisce, lui e i suoi C sono esperti in doveri altrui.

AAA offronsi senatori prezzi modici



di Marco Travaglio

Ultimissime da Mediashopping.

1) Giovedì scorso, ad Annozero, il finiano Bocchino racconta che Valter Lavitola, il direttore dell’Avanti! che lui accusa per la patacca anti-Fini, “ci fu raccomandato da Berlusconi per una candidatura nel 2008 perché, insieme a Sica, l’aveva aiutato a far cadere il governo Prodi”.

2) Ernesto Sica è l’ex assessore campano del Pdl arrestato per lo scandalo P3: l’ex craxiano Arcangelo Martino, pure lui in carcere, parla di Sica ai pm romani sempre a proposito della compravendita di senatori del centrosinistra che nel 2008 propiziò la caduta di Prodi. Secondo Martino, Sica spinse un amico imprenditore a offrire denaro al diniano Giuseppe Scalera e ad altri senatori in bilico per passare con B.: poi avrebbe usato il proprio ruolo per ricattare B. in cambio della candidatura a governatore della Campania e, sfumata quella, per diventare assessore regionale della giunta Caldoro. “Sica – dice a verbale Martino – mi disse che conosceva bene Berlusconi e che aveva dormito a lungo a via del Plebiscito (Palazzo Grazioli, ndr) da cui era stato allontanato per gelosia da Bonaiuti e Ghedini. Disse che Berlusconi doveva a lui la caduta del governo Prodi, in quanto egli si era adoperato con l’aiuto di un imprenditore amico di Sica e ben conosciuto da Berlusconi a convincere previo esborso di ingenti somme di denaro, alcuni senatori del centrosinistra a votare contro Prodi. Mi fece i nomi di Andreotti e Scalera”. Martino avvertì Dell’Utri e Sica fu convocato da Verdini, che gli garantì una sistemazione: puntualmente Sica divenne assessore. Ma Verdini assicurò che il vero sponsor della nomina di Sica era B.. Strano. Visto che Martino racconta: “Berlusconi riteneva Sica un ricattatore. Più volte Sica mi annunciò una denuncia sulla corruzione dei senatori, ma non l’ha mai presentata”.

3) L’altroieri Repubblica ha scoperto che due ex parlamentari friulani, Marco Pottino e Albertino Gabana (nomen omen), hanno un contratto di lavoro “a progetto” con il gruppo Pdl alla Camera “fino al termine della XVI legislatura” per “120.516 euro annui lordi in 12 rate di 10.043”. Tanto quanto guadagna un parlamentare. E con soldi pubblici. Ma dei due preziosi “collaboratori”, a Montecitorio, non c’è traccia. Perché li pagano senza lavorare? Perché i due furono eletti l’uno deputato e l’altro senatore con la Lega, ma ben presto passarono al gruppo Misto e iniziarono a votare col centrosinistra. Finché, a fine 2007, B. avviò la compravendita di senatori per ribaltare Prodi: i due furono avvicinati dal forzista Elio Vito e passarono armi e bagagli al Pdl, votando contro il governo. Ma a patto – pretese Bossi – che non venissero rieletti. I due accettarono, ma a condizione di seguitare a guadagnare come se fossero parlamentari.

Ora, queste tre vicende ricordano da vicino quelle che nel 2007 portarono la Procura di Napoli a indagare B. per istigazione alla corruzione di alcuni senatori, in base alle intercettazioni del “caso Saccà”. Il sistema era lo stesso ora descritto da Martino: un fedelissimo di B. contatta un imprenditore che offre denaro o altri vantaggi a un senatore dell’Unione. Così pareva aver fatto, tramite il commercialista Pilello, per agganciare il senatore Randazzo eletto in Oceania; e, tramite il produttore De Angelis e il commissario Agcom Innocenzi, per annettere Willer Bordon. Lo stesso copione usato, tramite Sica, per arpionare Scalera, che alla caduta di Prodi si astenne (al Senato equivale a voto contrario), mentre Dini votò contro. Poi un imprenditore amico di Sica donò 295 mila euro al partito diniano.

La Procura di Roma, nel 2008, ha fatto archiviare l’inchiesta ereditata da Napoli perché mancava la prova delle promesse di “denaro o altre utilità” in cambio dei voltafaccia dei senatori. Ora però Martino e Repubblica portano elementi proprio sui soldi e Bocchino potrebbe forse portarne. Dunque la Procura di Roma, di fronte alle nuove notizie di reato, riaprirà l’inchiesta archiviata l’anno scorso su B. & C. O no?

La fiducia avvelenata


di EZIO MAURO

DOPO due mesi di esibizione muscolare virtuale, cacciando i finiani, invocando le elezioni immediate, annunciando l'autosufficienza della maggioranza, alla resa dei conti Silvio Berlusconi ieri ha dovuto prendere atto che non ha i voti senza Fini, che la compravendita dei deputati non è bastata, che le elezioni lo spaventano. Ha chiesto i voti ai suoi nemici mortali, ha evitato ogni polemica, ha dribblato tutte le asperità, volando basso. Pur di galleggiare, tirando a campare come un doroteo, fingendo davanti a se stesso e al Paese che dopo la spaccatura del Pdl tutto sia come prima. E invece tutto è cambiato, tanto che il Premier rimane in sella ma in un paesaggio politico completamente diverso: con Fini che vara il suo nuovo partito e si allea con Lombardo, moltiplicando fino a quattro i gruppi di maggioranza, che volevano essere due - Pdl e Lega -, senza bisogno di spartire con altri. Così, potremmo dire che ieri è nato il Berlusconi-bis, perché a numeri intatti la forza elettorale si è trasformata due anni dopo in debolezza patente della leadership.

Il Presidente del Consiglio non è stato capace di accettare la sfida politica che lo tormenta, e invece di saltare l'asticella alzata davanti al suo cammino dai finiani ha preferito passarci sotto, scegliendo il basso profilo, la dissimulazione, la finzione.

Soprattutto, non ha voluto o non ha potuto portarsi all'altezza della cornice drammatica di una crisi conclamata e irreversibile nella sostanza politica, anche se rattoppata temporaneamente nei numeri. La frattura radicale della destra, di cui vediamo solo i primi effetti, manca ancora di una lettura ufficiale e di un interprete responsabile. Il Paese ne ha diritto. Si possono ingannare i telespettatori del tg1 e del tg5, com'è abitudine, ma non si può ingannare la politica, che da ieri assedia Berlusconi con una maggioranza posticcia e instabile, costruita com'è su alleati-rivali, impastata di ricatti, dossier, intimidazioni e paure.

È la strategia del dominio, la mitologia della sovranità assoluta che vanno in pezzi con la fiducia avvelenata di ieri. Berlusconi ha bisogno del salvacondotto, e dunque dei voti di un avversario che prova ad uccidere politicamente e mediaticamente ogni giorno, e che da parte sua lavora non più nel lungo termine, ma nel medio, per far saltare tutto l'equilibrio berlusconiano del comando, costruito per sedici anni. L'esito di questo conflitto sarà politicamente mortale. Con la fiducia, Fini salda un patto con gli elettori (non più col Premier e con il Pdl), e guadagna tempo per costruire il partito che ha annunciato ieri. Berlusconi può fingere di guardare ai numeri e non alla rottura irrimediabile del suo partito, alla crisi plateale dell'ipotesi di autosufficienza dell'asse tra il Premier e Bossi. Dove lo portano dunque quei numeri? Verso quale approdo politico? Per quale progetto? Con quali alleati?

La realtà è che non si è rotta soltanto la macchina politica del '94, ma anche la costruzione ideologica che ha interpretato l'Italia - salvo brevi parentesi - per sedici anni. La svolta è dunque enorme, e noi vediamo oggi solo il primo atto. La propaganda compilativa in cui si è rifugiato ieri il Premier non può nascondere la realtà. Diciamolo chiaramente: a luglio, con la cacciata di Fini, è finito il Pdl. Ieri, con questa fiducia malata, è finito addirittura il quadro politico di centrodestra così come lo abbiamo conosciuto fino ad oggi: con un signore e padrone assoluto retrocesso a capo di un quadripartito ostile e minaccioso, come all'epoca del peggior Caf, nell'agonia della prima repubblica.

(30 settembre 2010)

Il ricatto sulla giustizia


di GIUSEPPE D'AVANZO

BERLUSCONI posa da liberale nei quasi 60 minuti del suo intervento. Come se davvero credesse nel liberalismo, nella pretesa di risolvere il "politico" con la discussione o immaginasse la politica come amicizia e competizione.

Come se davvero egli desiderasse "istituzioni che risolvono la concretezza e conflittualità sociale e politica nella rappresentanza parlamentare, nella produzione di leggi universali e astratte, nella separazione e nell'equilibrio dei poteri, nella differenza tra Stato e società". Come se non ci avesse dato modo di comprendere che la politica che ha in mente è l'esatto contrario: è decisione che crea confini, differenze, esclusioni; è opposizione radicale tra un amico e un nemico; è convinzione che l'unità passa attraverso la divisione e l'ordine attraverso il disordine. Più che politica, dunque, guerra e come tutte le guerre può concludersi soltanto con l'annientamento dell'altro.
Per comprendere quanto sia fasulla la Grande Recita dello Statista Saggio e Paziente, cui si è costretto o è stato costretto, si deve attendere che Berlusconi affronti il capitolo giustizia. A quel tasto suona sempre sincero nei suoi desideri. Non li nasconde nemmeno questa volta. Vuole disarmare Carta costituzionale, leggi, codici, tribunali, magistratura per cancellare "l'uso politico della giustizia" che, dice, "è stato e continua a essere un elemento di squilibrio tra ordini e poteri dello Stato". Quella bestia nera in toga deve essere resa innocua ed egli cambierà le regole "nell'interesse collettivo". Separazione delle carriere e Csm diviso in due, parità dell'accusa e della difesa che poi vuol dire pubblico ministero degradato ad avvocato dell'accusa e ridotto alla performance verbale con la polizia che - sotto il controllo del governo - investiga, raccoglie prove, decide quale indagine coltivare, con quali risorse e con quanta rapidità. Lo schema garantisce impunità pro se et suis e magari offre l'opportunità di colpire a morte l'avversario molesto o l'alleato dissidente, oggi aggrediti soltanto dal Barnum mediatico che possiede o influenza. Già potrebbe bastare per ripetere che Berlusconi è potere statale che, senza scrupoli e apertamente, protegge se stesso e i suoi interessi economici.

Ma non basta perché, come sempre, il Cavaliere propone un'alternativa del diavolo che, per molti, ha i caratteri dell'estorsione: o mi si garantisce l'immunità o distruggo la macchina giudiziaria. In nome della riduzione del danno, del "meno peggio", egli esige di incassare un utile privato: un'immunità che lo protegga dagli assalti possibili in futuro e un'impunità che imbavagli il giudice per gli affari oscuri del passato (la corruzione di un testimone che lo salva da condanne certe; l'appropriazione indebita, la frode fiscale nell'acquisto dei diritti televisivi) e impedisca ai tribunali di confermare accuse che renderebbero il Cavaliere moralmente incompatibile con l'ufficio governativo. Anzi, nell'occasione, Berlusconi annuncia come intende manipolare i quadri legali per fabbricarsi una legge che gli consenta di non risarcire chi (la Cir) si è visto scippare un'azienda (la Mondadori) grazie alla corruzione del giudice (Metta) che decise la controversia. Il risarcimento è stato fissato finora in 750 milioni di euro. Berlusconi imprenditore non ha alcuna voglia di pagarlo e il Berlusconi premier anticipa che "il governo presenterà a breve un piano straordinario per lo smaltimento dei processi delle cause civili pendenti". Che di straordinario in quel piano ci sia soltanto l'arroganza di chi trasforma il potere pubblico in affare privato sembra comprenderlo il capogruppo di Futuro e Libertà, Italo Bocchino. Che avverte: "Siamo favorevoli a smaltire le cause civili pendenti ma non saremo mai d'accordo con una legge che tolga la possibilità a un solo cittadino o a una sola azienda di questo Paese di avere la giustizia che aspetta dal suo giudice civile".

La Grande Recita dello Statista Saggio e Paziente, al capitolo giustizia, ci offre il piccolo Berlusconi di sempre, prigioniero del suo conflitto d'interesse, ossessionato dalla difesa di se stesso e della sua roba, incapace di declinare le ragioni e le priorità del Paese. È la conferma che il nodo che soffoca la politica italiana continuerà a essere nei prossimi mesi la giustizia. Non la giustizia di tutti, la giustizia per tutti, ma la giustizia che riguarda da vicino lui, che preoccupa personalmente lui, che minaccia il di lui preziosissimo patrimonio. Il presidente del Consiglio avrebbe potuto volare alto, come centinaia di migliaia di cittadini gli chiedevano. Avrebbe potuto semplicemente dire: mi farò processare perché, credo, che la legge sia uguale per tutti. Questa volontà è la migliore garanzia della mia affidabilità di capo di governo che non vuole schiacciare con le proprie personali pene la vita degli italiani e l'interesse nazionale. Semplici parole, discorso e impegno da "paese normale" che Berlusconi non può dire né immaginare. È una impossibilità che, mentre ci ripropone le mediocri ragioni del suo impegno pubblico, lo consegna e lo imprigiona con tutta evidenza in uno stato di minorità politica. Ora - anatra zoppa - dovrà chiedere il consenso e la comprensione dell'odiato alleato, Gianfranco Fini, per ottenere con una correzione provvisoria del legittimo impedimento, e poi con una riforma della Costituzione, l'immunità di cui ha bisogno come dell'aria che respira. Con due esiti paradossali. Berlusconi, che ha preparato la trappola che doveva liquidare per sempre il "traditore", ora deve tenerlo in vita se non vuole perire con lui. Per di più, la manovra non garantisce il buon risultato: Fini potrebbe dargli corda fino a quando non staccherà la spina del governo perché sarà pronto con il nuovo partito alle elezioni.

(30 settembre 2010)

GENIALE


Insulti ai romani, Bossi si scusa


Il leader della Lega Nord e ministro per le Riforme Umberto Bossi fa marcia indietro, si scusa per la sua interpretazione della storica sigla SPQR ("Per me vuol dire sempre Sono Porci Questi Romani") ma denuncia la strumentalizzazione fatta nell'ambito della polemica su Roma Capitale di quella che nelle sue intenzioni doveva essere "solo una battuta". "Chiedo scusa ai cittadini se si sono sentiti offesi, ma era una battuta. La cosa è stata strumentalizzata, sono stato impiccato per una frase". Solo una battuta, dunque, costata al Senatùr la mozione di sfiducia presentata dal Pd che però, di fronte alla retromarcia del leader del Carroccio decide di evitare il passaggio parlamentare che si presentava difficile per il Senatur e per la tenuta della maggioranza visto che anche i finiani, oltre alle opposizioni, erano pronti a votare contro il ministro.

La posizione del Pd e di Di Pietro. "Abbiamo già ottenuto il risultato perché, rispetto alle altre volte, ci sono state scuse formali", spiega il capogruppo Dario Franceschini. "Un risultato e una vittoria di una mozione - aggiunge - che metteva molta paura sia nel merito sia per le modalità di votazione". Questo segna per Franceschini un precedente: "E' un'iniziativa che si potrà ripetere altre volte se un ministro avrà comportamenti incompatibili con le proprie funzioni".

E anche l'Idv si mostra conciliante. "Prendiamo atto delle scuse formali di Bossi - ha detto Antonio Di Pietro - proprio per non alimentare ulteriori polemiche, le accettiamo nella speranza che questa storia possa servirgli da lezione". Poi l'ex pm aggiunge: "ci auguriamo vivamente che la prossima volta il ministro Bossi si ricordi del ruolo che ricopre, del suo giuramento sulla Costituzione, e che si morda la lingua prima di offendere in questo modo becero gli italiani".

Alemanno: "Scuse accettate, ma venga in Campidoglio". Il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, accetta le scuse di Bossi ma invita i vertici della Lega in Campidoglio per fare chiarezza. "Tutte le strumentalizzazioni su questa vicenda devono terminare - dice il primo cittadino di Roma -. Però vorrei che ci fosse chiarezza anche politica per il futuro in maniera tale che ci sia, come era nel patto iniziale, rispetto per Roma Capitale, in sintonia col progetto del federalismo fiscale. Credo sia opportuno fare un incontro, che a me piacerebbe avvenisse in Campidoglio, con Bossi, Calderoli e Tremonti". Anche il presidente della Provincia di Roma, Nicola Zingaretti, considera le scuse di Bossi ai romani "un bel gesto, di cui sicuramente bisogna prendere atto. Mi auguro e sono convinto che si possa voltare pagina senza insulti e offese".

Bondi: "Bossi galantuomo". Lodi alle scuse di Bossi giungono dal ministro della Cultura e coordinatore del Pdl Sandro Bondi. "Bossi ha nuovamente testimoniato di essere non solo un leader politico autorevole ma anche un galantuomo raro nella vita politica italiana" afferma Sandro Bondi, il cui giudizio è ribaltato dal presidente del gruppo Idv alla Camera Massimo Donadi: "Le scuse di Bossi sono tardive, poco convinte e assolutamente insufficienti. Non risolvono in alcun modo il problema della violenza verbale della Lega e dei quotidiani attacchi all'unità nazionale, alle istituzioni e alla Costituzione. La politica è stata sino ad oggi troppo condiscendente nei confronti della Lega. E' il momento di dire basta".

(30 settembre 2010)

Uno spregiudicato illusionista


Sig. presidente del Consiglio,
Lei è uno spregiudicato illusionista, anzi un pregiudicato illusionista che, anche oggi, ha raccontato un sacco di frottole agli italiani, descrivendo un’Italia che non c’è e proponendo azioni del Governo del tutto inesistenti e lontane dalla realtà.

Fuori da qui c’è un Paese reale che sta morendo di fame, di legalità e di democrazia e Lei è venuto qui in Parlamento a suonarci l’arpa della felicità come fece il suo predecessore Nerone mentre Roma bruciava.
Quella stessa Roma che anche oggi i barbari padani vogliono mandare al rogo, insieme alla bandiera e all’Unità d’Italia.
Sono sedici anni che racconta le stesse frottole, ma le uniche cose che ha saputo fare finora sono una miriade di leggi e provvedimenti per risolvere i suoi guai giudiziari o per sistemare i suoi affari personali.
Al massimo, ha pensato a qualche altro suo amico della cricca, assicurando a lui prebende illecite e impunità parlamentari, proprio come prevede il vangelo della P2, Cosentino, Dell’Utri e compagnia bella docet!
Anzi, no! Un’altra cosa lei è stato ed è bravissimo a fare, e lo ha dimostrato ancora una volta in questi giorni: comprare il consenso dei suoi alleati ed anche dei suoi avversari. I primi pagandoli letteralmente con moneta sonante, con incarichi istituzionali, con candidature e ricandidature di favore; i secondi ricattandoli con sistematiche azioni di dossieraggio e di killeraggio politico di cui lei è maestro.
Sì, perché Lei, sig. Berlusconi è un vero “maestro”: intendo dire un maestro della massoneria deviata, un piduista di primo e lungo corso, un precursore della collusione e della corruzione di Stato.
Anzi di più. Lei è l’inventore di una forma di corruzione di nuovo conio, più moderna e progredita: cambiare le leggi in modo da non far risultare più reato quel che prima lo era e in modo da non rendere più punibili coloro che prima potevano essere condannati.
Questa mattina, Lei si è gonfiato il petto ricordando un nobile principio liberale: “Ad ognuno deve essere consentito fare tutto tranne ciò che è vietato”.
Certo, ma chi, in Europa, ha scritto con il proprio sangue questo tassello di democrazia liberale non pensava affatto che un giorno si sarebbe trovato davanti ad un signorotto locale che avrebbe dichiarato “non vietato” tutto ciò che gli pareva e piaceva a lui e che non era la legge a governare il sistema ma doveva essere Lui a governare la legge.
Lei, sig. Berlusconi, non è un presidente del Consiglio ma è uno “stupratore della democrazia” che, dopo lo stupro, si è fatto una legge, anzi una ventina di leggi ad personam per non rispondere di stupro!
Lei non è, come alcuni l’hanno definito, uno dei tanti tentacoli della piovra.
Lei è la testa della piovra politica che in questi ultimi vent’anni si è appropriata delle istituzioni in modo antidemocratico e criminale per piegarle agli interessi personali suoi e dei suoi complici della setta massonica deviata di cui fa parte.
Lei, oggi, ci ha parlato della volontà del Governo di implementare la lotta alla corruzione, all’evasione fiscale, alla criminalità economica delle cricche.
E che fa si arresta da solo? O ha deciso di prendersi a schiaffi tutte le mattine appena si alza e si guarda allo specchio?
Lei si è impossessato e controlla il sistema bancario e finanziario del Paese.
Lei controlla le nomine degli organi di controllo che dovrebbero controllare il suo operato.
Lei fa il ministro dello Sviluppo Economico e, come tale, prende decisioni a favore del maggior imprenditore italiano, cioè Lei (e dico maggior imprenditore, non migliore come maggiore e non migliore è l’imprenditoria mafiosa).
A Lei non interessa nulla del bene comune perché si è messo a fare politica solo per sfuggire alla giustizia per i misfatti che ha commesso.
Non lo dico solo io. Lo ha detto pure il direttore generale delle sue aziende, Fedele Confalonieri, ammettendo pubblicamente che “se Berlusconi non fosse entrato in politica noi oggi saremmo sotto un ponte o in galera”.
Lei si è impossessato dell’informazione pubblica e privata e la manipola in modo scientifico e criminale.
Un esempio? La casa di Montecarlo venduta da Alleanza nazionale. Lei e i suoi amici dell’informazione avete fatto finta di scandalizzarvi nell’apprendere che, dietro quella compravendita, c’è una società off-shore situata in un paradiso fiscale.
Ma si guardi allo specchio, imputato Berlusconi: Lei di società off-shore ne ha fatte ben 64 proprio per nascondere i proventi dei suoi reati societari e fiscali e per pagare tangenti ai politici e ai magistrati e lo ha fatto ricorrendo a quell’avvocato inglese David Mills, condannato per essere stato, a sua volta, da lei corrotto per mentire ai giudici e così permetterle di ottenere un’assoluzione comprata a suon di bigliettoni.
Già! Perché la magistratura che Lei ha corrotto: quella a Lei piace.
Invece, non le piace quella che vuole giudicarla per i suoi misfatti, tanto è vero che ora, al primo punto del suo ”vero programma”, quello di cui oggi non ha parlato, c’è la reiterazione del Lodo Alfano, cioè proprio di quella legge che deve assicurarle l’impunità per un reato gravissimo che lei ha commesso: la corruzione di giudici e testimoni.

Solo per questo fatto, Lei non meriterebbe un minuto in più di rappresentare il Governo italiano e se ancora riesce a starci è solo perché compra i voti ricattando quei parlamentari che si rassegnano a vivere vigliaccamente senza onore o senza coraggio!
Questo è il ritratto che noi dell’Italia dei Valori abbiamo di Lei, sig. Berlusconi!
E Lei, oggi, viene a chiederci la fiducia?
Lo chieda, ma non a noi.
Lo chieda a quelli che ha comprato o ricattato.
Lo chieda ai parlamentari di Futuro e Libertà che finalmente si sono resi conto con chi avevano e hanno a che fare ma non trovano, o non hanno ancora trovato, il coraggio di dissociarsi dal macigno immorale che Lei rappresenta.
Lo chieda al presidente Fini che nel suo discorso estivo a Mirabello ha detto esattamente (ed anzi di più) delle cose che sto dicendo io e ancora indugia a staccare la spina, passando, suo malgrado, da vittima a complice delle sue malefatte!
Lo chieda a tutta quella pletora di disperati che in questi giorni ha convocato a casa sua per offrire loro prebende o per minacciare imbarazzanti rivelazioni e che ora , abbagliati da improvvisa ricchezza o intimoriti dai dossieraggi che Lei ha architettato e commissionato, hanno deciso di vendere la loro anima e il loro onore dandole una fiducia che non merita!
Non lo chieda a noi che siamo stati primi a smascherare le sue reali e criminali intenzioni.

mercoledì 29 settembre 2010

Un referendum contro Masi


di LEANDRO PALESTINI

Mentre i duemila giornalisti Rai sono chiamati dal sindacato Usigrai a sfiduciare il direttore generale Mauro Masi, oggi nel Cda Rai si parlerà del "caso" Santoro, di una possibile sanzione disciplinare che il dg Masi medita di comminare al conduttore che ha osato criticarlo sin dalla prima puntata di Annozero (il cartellino rosso potrebbe tradursi in una o due settimane di sospensione). "Dal Cda che mi aspetto? Un premio di produzione per il risultato di ascolto ottenuto la scorsa settimana", risponde con ironia Michele Santoro, autore del famoso monologo del "vaffanbicchiere". "Noi stiamo lavorando regolarmente per la messa in onda della seconda puntata di Annozero" garantisce il giornalista, che dedicherà la puntata di domani alla più stretta attualità politica, alla verifica interna alla maggioranza. Ma stamattina, contro Santoro, a viale Mazzini si terrà un sit-in del movimento Riva Destra (cui aderiscono i circoli Pdl, i movimenti per l'Italia Lazio ed Europa sociale).

Mauro Masi è in bilico. C'è chi sostiene che Berlusconi non ha gradito gli esiti della sua direzione. E, tra una decina di giorni, nelle redazioni di Tg e Gr saranno sistemate le urne per votare la sfiducia al dg Rai. Mentre in azienda si diffondono voci di tagli. "La misura è colma. A tre mesi dall'illustrazione del piano industriale, siamo ancora al punto di partenza", spiega Carlo Verna, segretario Usigrai, "per risanare i conti dell'azienda, il direttore generale è capace di proporre solo l'esternalizzazione e la cessione di pezzi della Rai". Al dg Masi si rimprovera di non porre rimedio agli "insuccessi" del Tg1, dove il barometro degli ascolti indica tempesta. Nel mese di settembre 2009 l'audience era sopra i sei milioni (28.83% si share), il settembre 2010 viaggia a una media di 5milioni 465mila spettatori (share 25.63%). Mancano all'appello 550mila utenti. La performance del Tg1 delle 20 di lunedì scorso? 23.85% di share. Troppo poco per l'Ammiraglia.

Ieri, il Cda Rai ha approvato (a poche ore dalla messa in onda) il contratto con la Fandango Tv per la trasmissione "Parla con me" di Serena Dandini. Ma il via libera non è stato unanime. Angelo Maria Perrone ha votato contro, e ci sono stati due astenuti: i consiglieri Antonio Verro e Alessio Gorla del centrodestra. Il tenore delle interviste concesse dalla Dandini al TgLa7 di Mentana e a L'Espresso ("questa è la peggiore Rai di sempre") sono state criticate in particolare dal consigliere Verro. Ma la squadra di "Parla con me" non rinuncia al diritto di satira. "Non volevano il divano rosso. Dalla Rai ci hanno chiesto di cambiare il colore", rivela un autore. Ma ieri al debutto Serena Dandini e Dario Vergassola hanno letto e scherzato su alcune direttive del regolamento Masi, ringraziando l'azienda per il "lancio" del talk show. Ed è stato trasmesso lo spot bloccato con la parodia di Augusto Minzolini (Max Paiella), invidioso di Mentana, isterico sulle note del Requiem di Mozart.

Masi reagirà anche a questi graffi satirici? Sarà difficile. Dovrà abituarsi alle impertinenze di Dandini & Co., mentre sul "caso" Santoro c'è chi fa notare che il cda non ha poteri sanzionatori verso i dipendenti. La procedura per una sanzione è complicata: il direttore generale è tenuto a inviare al dipendente la contestazione, quindi deve aspettare cinque giorni per la risposta, infine può replicare. In pratica, la puntata di domani di Annozero è salva. Poi si vedrà.

(29 settembre 2010)

Sgarbi si difende da Travaglio


«Libera nos a luame», recitavano i vecchi contadini veneti in latinorum: liberaci dal letame. E l'invocazione spiega più di mille saggi quanto pesasse loro vivere tra i miasmi dello stallatico.
Tutto cambiato: lo dicono gli avvocati di Vittorio Sgarbi. Che per difendere il cliente, sotto processo per aver definito Marco Travaglio «un pezzo di merda tutto intero», hanno scritto una memoria difensiva la cui tesi epocale è che la popò è sana, bella e «fa bene al corpo ed anche all'anima».

Cerchiamo di capirci: non è la prima volta che un difensore, costretto a difendere l'indifendibile, si arrampica sugli specchi. Resta indimenticabile, ad esempio, l'arringa fenomenale con cui Ippolita Ghedini, sorella del più celebre Niccolò «Ma-va-là» Ghedini, tentò di minimizzare le parole di Giancarlo Galan, che aveva bollato come comunisti dei giornalisti Rai di Venezia. A dispetto del Cavaliere e delle sue fobie anticomuniste, scrisse l'Ippolita, il soviet non era che un «organo elettivo e dunque espressione di quella democrazia reale che ancora oggi viene rimpianta da molti e l'aggettivo sovietico non ha certo valenza diffamatoria intrinseca». Spasibo tovarisha Ghedinova! Decisi a umiliare la collega nel campionato mondiale d'arrampicata sugli specchi, l'avvocato Giampaolo Cicconi e Fabrizio Maffiodo sono andati oltre. Scrivendo che Sgarbi con «la frase "è un pezzo di merda tutto intero" non ha comunque diffamato il dottor Travaglio, atteso che la frase non ha alcuna valenza offensiva».

Va detto che i due professionisti avevano un compito da far tremare i polsi. Il «Maitre à tombeur» ferrarese, infatti, è recidivo assai. In anni di sfoghi leggendari ne ha dette di tutti i colori.
A un comizio a Palmi esortò: «Ripetete con me: affanculo il procuratore Cordova!». All'arrivo alla Camera del presidente dell'Arcigay Franco Grillini tuonò: «Liberi culi in libero Stato!». Ai veneti che lo avevano trombato alle elezioni mandò a dire che erano «deficienti. Egoisti. Stronzi. Destrorsi. Unti. Razzisti. Evasori», per chiudere così: «Il concetto di fondo è: questi elettori sono tutti delle teste di cazzo». A Oscar Luigi Scalfaro, quand'era al Quirinale, si rivolse definendolo «una scorreggia fritta».

E insomma, dopo aver composto e declamato a tredici anni «5.000 versi per diventare Apollinaire», ha battuto via via la strada liberatoria della parolaccia fino a fare disperare il Cavaliere: «Vittorio, come faccio a farti ministro se continui a dire le parolacce?». Resta indimenticabile una seduta dell'ottobre 2007, quando a Montecitorio si discusse fino a notte se dare o no l'autorizzazione a procedere: urlare a dei poliziotti «mi avete rotto i coglioni!» come aveva fatto Sgarbi rientrava nell'insindacabile esercizio delle funzioni parlamentari? Un dibattito unico al mondo.
Che vide il leghista Rizzi sbottare: «Sono due ore che si parla dei coglioni di Sgarbi, sinceramente ne ho pieni i coglioni». Il capolavoro fu di Filippo Mancuso, che invitò il collega, d'ora in poi, a chiamare i cosiddetti «tommasei», come faceva Leopardi per disprezzo verso l'autore del celebre dizionario. Totale degli interventi a favore e contro: 56.

La passione del critico d'arte, però, è sempre stata quella che i latini chiamavano stercus (genitivo: stercoris). Tra i tanti esempi, ne citiamo uno. Al dibattito parlamentare alla nascita del governo D'Alema, quando il nostro zazzeruto mise a verbale: «Onorevole D'Alema, le darei volentieri il mio voto; sono molto tentato di farlo, per aggiungere la mia corruzione alla vostra, aggiungere merda a merda». Insomma, se non temessimo d'essere equivocati diremmo che ce l'ha sempre in bocca.
All'idea di perdere l'immunità, aveva confidato ad Aldo Cazzullo di non avere troppi timori: «Vinco una causa al giorno. Finora, 190 su 270; le altre sono in corso». Spiegò anzi di avere «pronto un libro: Le mie querele. L'editore non lo pubblica per paura di altre querele». In ogni caso sospirò quando fu chiaro che non fosse stato rieletto, avrebbe dovuto per sicurezza contenersi: «Mi toccherà diventare buono e insipido come Prodi». Macché: gli è impossibile.

Era appena stato condannato a pagare 30mila euro (più le spese) a Travaglio per essersi dilungato su questo genere di insulto ad AnnoZero quando, alla trasmissione domenicale su Canale 5 con Barbara D'Urso, rincarò appunto: Travaglio «è un pezzo di merda tutto intero». A quel punto i suoi due legali, presumibilmente su ispirazione «artistica» del loro stesso cliente, hanno steso una memoria difensiva che resterà negli annali. Per loro, infatti, quella lì non è un'offesa. Può essere mai volgare la natura? «Se in un agriturismo ci forniscono prodotti dell'agricoltura biologica significa che essi sono fatti con la merda nel senso che l'agricoltura biologica vuol dire coltivazioni in terreni concimati non con prodotti industriali ma con letame, con la merda, appunto, la quale serve a fertilizzare i terreni». Bucolici.

Inoltre «giova osservare che, un tempo, il letame accumulatosi per tutto l'anno veniva, con la zappa (in genere nel mese di settembre), rivoltato, sbriciolato, miscelato, messo sul carro e sparso nel campo ove si seminavano le fave ed in cui, l'anno appresso, si sarebbe piantato di grano. Le merde, invece, che le mucche depositavano nei campi durante il periodo estivo ed essiccate dal sole formavano delle dense "torte" che venivano raccolte ed immagazzinate e poi usate come combustibile per cucinare la minestra di fave che rappresentava il pasto principale e si consumava la sera. La cenere residua veniva depositata nella concimaia. Nulla andava perduto e tutto veniva riciclato: ciò faceva bene al corpo ed anche all'anima». Di più: «Fabrizio De Andrè - nella celebre canzone Via del Campo - cantava "dai diamanti non nasce niente, dal letame (o dalla merda) nascono i fiori"».

Come possono dunque, signori della corte, non capire la bellezza del richiamo alla vita agreste? «Per tali motivi», proseguono gli avvocati nella scia di De Andrè, Sgarbi «voleva fare della sottile ironia, far capire comunque che da Travaglio sarebbe nato qualcosa (per esempio un partito politico) tanto che egli un giorno avrebbe avuto un futuro con la destra liberale, facendo financo concorrenza a Berlusconi proprio perché "è un pezzo di merda tutta intera" e non un diamante». Questa, però, al Cavaliere la dovranno spiegare per benino...

Gian Antonio Stella
27 settembre 2010

E A LUI CHE GLI FREGA?


martedì 28 settembre 2010

APPUNTO!


LODO ALFANO, TUTTA LA VERITÀ SUL VOTO DELLA CONSULTA




I giudici volevano cacciare i colleghi che cenarono con B.

di Antonella Mascali e Antonio Massari

“P3” e questione morale nella magistratura: questo pomeriggio l’Anm ne discuterà a Milano. E non è un caso. Dinanzi al presidente Luca Palamara, e al segretario nazionale Giuseppe Cascini, l’associazione parlerà, a porte chiuse, anche di Alfonso Marra. Il presidente della Corte d’Appello di Milano, fortemente voluto, nelle fasi della nomina, dal sottosegretario alla Giustizia, Giacomo Caliendo, da Flavio Carboni e Pasquale Lombardi, indagati nell'inchiesta romana sull'associazione occulta che premeva anche sulla Corte Costituzionale, per la conferma del lodo Alfano. Proprio sullo scudo salva Berlusconi e Consulta, il Fatto Quotidiano è in grado di rivelare nuovi retroscena: una parte dei giudici della Corte costituzionale avrebbe voluto le dimissioni dei colleghi Luigi Mazzella e Paolo Maria Napolitano, che a maggio dell’anno scorso, a pochi mesi dalla sentenza sul lodo Alfano, cenarono con Berlusconi, premier e parte in causa, il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, il sottosegretario Gianni Letta e il presidente della Commissione affari costituzionali del Senato, Carlo Vizzini. La procedura per chiedere le loro dimissioni, però, non è mai stata avviata. Il motivo: timore di finire in minoranza. Non c’è stata neppure una discussione ufficiale. Ma, secondo quanto ci risulta, il problema si è posto. A voce. Alcuni giudici ne hanno discusso tra loro. E alcune fonti spiegano: tutto è andato in fumo per non indebolire la Corte.

Dalla cena con B. alle manovre della P3

COME SI SA , il lodo è stato bocciato il 7 ottobre dell’anno scorso e la votazione è finita 9 a 6. Il Fatto, lo vedremo in seguito, è in grado di ricostruire quel voto che stava tanto a cuore alla P3. L’organizzazione segreta costituita da faccendieri e – secondo la Procura di Roma da uomini di punta del Pdl, tutti indagati: il coordinatore del partito, Denis Verdini, il senatore Marcello Dell’Utri e Caliendo. Che hanno provato a pilotare la Corte. A un certo punto pensavano di avere il controllo della maggioranza, sia pure risicata, però non ce l’hanno fatta. Il libero convincimento dei giudici ha prevalso. Ma andiamo in ordine cronologico. Perché da quella cena di maggio in avanti, alla luce dell’indagine in corso, ci sono dei tasselli che sembrano incastrarsi perfettamente. Il primo scandalo scoppia a luglio dell’anno scorso, quando il giornalista Peter Gomez rivela il banchetto di due mesi prima. Nel pieno della polemica, il presidente Francesco Amirante dichiara: “La Corte costituzionale nella sua collegialità deciderà come ha sempre fatto, in serenità e obiettività, le questioni sottoposte al suo giudizio”.

Prima di quel comunicato, dentro al palazzo della Consulta, racconta un giudice, “sono giorni di grande amarezza per la compromissione del prestigio dell’istituzione. Quella cena è inaccettabile non perché ci fossero tra gli invitati dei politici, ma perché uno di loro era il soggetto di una nostra imminente decisione. È stata una ferita per molti di noi, a cominciare dal presidente Amirante”. Poi fa una rivelazione sul mancato avvio dell’iter per le dimissioni dei due colleghi, prevista nel caso di ‘gravi mancanze nell’esercizio delle loro funzioni’: “Alcuni di noi avremmo voluto, ma ci siamo resi conto che non ci sarebbero stati i 10 voti necessari, cioè i due terzi, obbligatori, dei componenti.”. I giudici hanno così rinunciato alla richiesta, altrimenti avrebbero ottenuto l’effetto contrario: la difesa di Mazzella e Napolitano da parte della Corte. Quindi la maggioranza dei giudici era dalla parte dei colleghi a braccetto con Berlusconi? “Qualcuno sì – ammette la fonte – altri invece hanno desistito perché convinti di poter dimostrare la nostra indipendenza”. La Corte l’anno scorso boccia la legge salva premier dopo oltre 8 ore di camera di consiglio. Segreta, naturalmente. Pertanto – senza entrare nel dettaglio della votazione e tanto meno dei nomi dei giudici – possiamo raccontare che fra i sei pro lodo Alfano, un solo giudice è di nomina presidenziale, mentre altri due provengono dalla magistratura e appartengono a organismi diversi. L’eventuale processo accerterà se tra quei sei giudici costituzionali ve ne siano contigui alla P3. Ma sulle manovre tentate, e fallite, dagli uomini con il “grembiulino”, le intercettazioni non lasciano dubbi. Da oltre due mesi sono in carcere il faccendiere Flavio Carboni, l’ imprenditore Arcangelo Martino e Pasquale Lombardi, geometra e giudice tributarista. “L’ambasciatore” dei nuovi piduisti al Csm e, a quanto pare, alla Consulta. Secondo la procura e il Riesame di Roma (sulla base di intercettazioni), Lombardi ha avvicinato diversi giudici costituzionali che avrebbero garantito il voto a favore di Berlusconi. “Cesare”, per gli amici della P3. Scrive il presidente del Tribunale del Riesame, Guglielmo Muntoni, quando, nel luglio scorso, respinge le richieste di scarcerazione: “Lombardi era riuscito a ottenere l’assicurazione del voto, nel senso voluto dai sodali, di sette dei 15 giudici”. Andò male, “ma resta il fatto che tale ingerenza ci fu, che essa venne esercitata su almeno 6 dei giudici costituzionali (proprio il numero dei giudici che hanno votato a favore del lodo, ndr) che anticiparono a un soggetto come il Lombardi la loro decisione”.

La conferma di Arcangelo Martino

QUESTE TRAME le conferma al procuratore aggiunto di Roma, Giancarlo Capaldo, uno degli arrestati, Martino. Racconta che Lombardi, di fronte a lui, a Carboni, Verdini, Dell’Utri, Caliendo, Antonio Martone (ex magistrato) e Arcibaldo Miller (capo degli ispettori al ministero della Giustizia) “indicò con precisione i nomi dei giudici che disse di aver contattato, in qualche modo per conoscere il loro orientamento e indicò, che a suo avviso, vi poteva essere una maggioranza a favore della decisione gradita a Berlusconi; in particolare, di un giudice donna di cui non ricordo il nome (l’unica è Maria Rita Saulle, nominata dal presidente Ciampi, ndr) che, pur essendo a quanto mi sembrava di capire di sinistra, avrebbe votato in favore della costituzionalità della legge”. Contattata al telefono, la professoressa Saulle ha negato di aver mai avuto a che fare con Lombardi: “Se qualcuno le dice che ho incontrato Obama, lo scrive?”. Di entrare nel merito del lodo Alfano, neanche a parlarne: “Non dirò mai cosa penso. Finiamo qui questa conversazione, altrimenti riattacco il telefono”. I tentativi di influire sulla Corte vengono compiuti nonostante lo scandalo scoppiato appena due mesi prima, per la cena a casa di Mazzella. Il giudice, quando la notizia diventa pubblica, scrive una lettera aperta “all’amico Silvio”, che nel suo secondo governo lo aveva designato ministro della funzione pubblica, e insinua: “Molti miei attuali ed emeriti colleghi della Corte Costituzionale hanno sempre ricevuto nelle loro case, come è giusto che sia, alte personalità dello Stato e potrei fartene un elenco chilometrico”. Effettivamente proprio dalla Corte costituzionale rimbalzano voci, non confermate, di un’altra cena, alla vigilia del lodo Alfano, con due membri della Corte e politici molti vicini al Cavaliere. Dal recente passato al presente. La Consulta è di nuovo al centro dei pensieri di Berlusconi, premier e imputato. Teme la sentenza, prevista per il 14 dicembre, sul legittimo impedimento ad hoc che ha sospeso i suoi processi milanesi. Probabilmente, per bloccarla, crisi di maggioranza permettendo, verrà presentata una modifica della norma in Commissione giustizia della Camera. Se così fosse, per prassi istituzionale, i giudici rinvierebbero la seduta, in attesa delle decisioni del Parlamento. Nessuno slittamento, invece, perché materia diversa, se ci fosse un’accelerazione sul lodo costituzionale. Alfano recentemente ha anche espresso “un auspicio”: che la Corte confermi la costituzionalità del legittimo impedimento. “Noi, anche in questo caso, dice un giudice, decideremo liberamente”. Poi, anche se gli costa, fa una riflessione sulla solitudine che sente lui come altri colleghi: “Una parte degli italiani, purtroppo una minoranza, ci considera un fortino della legalità, ma a furia di essere assediato, il fortino rischia di essere abbattuto”.

La guerra infinita dei co-fondatori





NON C’È IL COLPO DEL KO. A RISCHIO ANCHE IL RICORSO ALLA FIDUCIA

di Luca Telese

I due lottatori di sumo urlano, picchiano duro, ma non mollano la presa. Sono sul ring da un tempo che ormai pare infinito, stretti in una reciproca morsa che pare d’acciaio. Urlano e sbuffano, ma nessuno dei due ha la forza per mandare a terra l’avversario.

Il colpo sotto la cintura del contratto e la dichiarazione del ministro di Saint Lucia non hanno messo al tappeto Gianfranco Fini. E la sua contromossa, il videomessaggio in Rete, ha fatto imbestialire il presidente del Consiglio. Lui si aspettava una dichiarazione di resa o le dimissioni. Non è arrivata né la prima e né la seconda cosa. Ma una dichiarazione di guerra. Ecco, mentre si avvicina il giorno del discorso di Silvio Berlusconi alla Camera, sia il presidente di Montecitorio che il premier restano avvinti senza che nessuno riesca a trovare lo spazio per sferrare il colpo di grazia.

Ieri, durante la registrazione di Porta a Porta, il direttore di Libero, Maurizio Belpietro ha detto: “Noi non prendiamo ordini da nessuno. Non si illuda Fini, la nostra inchiesta su Montecarlo continuerà”. E il Giornale che per oggi ha promesso le foto esclusive della cucina acquistata dalla famiglia Fini a Roma e inviata a Rue Princesse Charlotte, fa seguire i fatti alle intenzioni.

Se lo guardate da un altro punto di vista è come se ci fossero due ordigni collegati su due diversi timer. Il timer che minaccia Fini è collegato alle elezioni anticipate. Quello che minaccia Berlusconi è legato allo scudo.
I finiani continuano a ripetere che sono disponibili a votare un provvedimento ad personam per difendere Berlusconi dall’inchiesta. Ma Berlusconi sa bene che questo scudo lo deve portare a casa prima di una eventuale crisi, perché una volta che dovesse lasciare Palazzo Chigi, si dovesse rompere la maggioranza, e Fli dovesse riprendersi la propria autonomia, non ci sarebbe più nessuna garanzia di ottenerlo, anzi. I due lottatori, dunque, sono immobili, e sotto il palco ci sono due cronometri che scandiscono il conto alla rovescia.

IL GIALLO del messaggio. Per capire le ultime mosse, e gli ultimi colpi sotto i riflettori, dunque, bisogna riavvolgere la bobina dell’ultimo weekend. Venerdì le agenzie annunciano che Fini registrerà un messaggio la mattina, che sarà messo in rete tra le undici e mezzogiorno. Alle 10 i due siti su cui dovrebbe apparire il messaggio di Fini crollano per il traffico, ma del presidente della Camera non c’è traccia. Arriva però la notizia che l’ex avvocato leghista Renato Ellero dichiara: “L’appartamento è di proprietà di un mio cliente”. Sembrerebbe una prova a discarico di Fini. Ma a Fli non la prendono così. “Era una polpetta avvelenata – dirà Luca Barbareschi – un modo per indurci a far conto su quella dichiarazione. Ma se qualcuno è aiutato dai servizi, qualcun altro è aiutato da De Gennaro...”. Scenari da film di James Bond, guerre istituzionali sotterranee, conflitto fra poteri. Accade di tutto, e la registrazione slitta fino alle sei e un quarto. Dagospia scrive che è perché si cerca un gobbo elettronico. I finiani che si trovano a Roma, per un pomeriggio hanno tutti i telefonini spenti. È solo un caso? Di sicuro il messaggio di Fini viene rimodulato più volte. Apparentemente lancia una proposta di tregua, e ventila l’ipotesi delle dimissioni, nel caso arrivasse “la prova certa” che la casa è di Giancarlo Tulliani.

DIMISSIONI? Ieri mattina su La Stampa, con enorme risalto, un retroscena firmato da Fabio Martini dice che Fini medita davvero di lasciare Montecitorio. Passano pochi minuti e sulle agenzie si leggono vibranti smentite dei finiani. In realtà l’ipotesi divide le due anime di Fli. Dove paradossalmente i “falchi” preferirebbero un Fini con le mani libere, che, privato degli obblighi istituzionali, possa costruire liberamente il partito e portare i suoi a un appoggio esterno. In realtà Fini ha fatto un passo diverso. Vincolando il suo gesto a una prova certa, si è legato allo scranno più alto della Camera fino a che una prova certa non dovesse arrivare. Quindi resta. Un piede dentro e uno fuori, obbligato a proseguire la sua guerriglia.

FIDUCIA O MOZIONE? Ancora più complicata è la partita che si gioca a Palazzo Chigi. Berlusconi si aspettava che Fini gettasse la spugna. E ha detto e ripetuto che voleva un voto di fiducia. Adesso, la sola idea di riconoscere e certificare, di fatto, con un voto parlamentare, il fatto che la sopravvivenza del suo governo dipende da Fini lo manda in bestia. Ecco perché allo stato attuale l’unica cosa certa è rimasta il suo discorso, ma il voto è già più dubbio, forse sarà una mozione, o forse addirittura una risoluzione. Come mai?

Non si tratta solo di un problema simbolico. Infatti con le ultime due forme di voto sarebbe più facile incassare i voti sparsi, una sorta di “fiducia soft”, dalle aree incerte dell’opposizione, come il partito di Lombardo e qualche udicino ribelle a Casini. Berlusconi vuole a tutti i costi che il numero dei sì al suo governo superi quota 330 dopo le brutte figure (a voto segreto) sull’autorizzazione all’uso delle intercettazioni per Cosentino.

MELINA. Ma quando si arriva alle tattiche parlamentari nessuno è abile come Italo Bocchino. Il capogruppo dei finiani ieri ha detto e ripetuto che nulla può essere gratis: “Se c’è una mozione noi la dobbiamo discutere, prima di votarla. Il discorso non può essere frutto di un rapporto esclusivo con la Lega. Altrimenti non daremo i nostri voti”. E poi: “Non si è mai visto che due delle tre gambe propongano un documento mentre l’altro pezzo legge, sente e vota”. In serata, però arriva il comunicato delle “colombe” finiane che dissentono da Bocchino, pur senza nominarlo: “Assistiamo, ancora una volta, ad esternazioni che lasciano perplessi – dichiarano in una nota congiunta i parlamentari Mario Baldassarri, Roberto Menia, Silvano Moffa e Pasquale Viespoli - le dichiarazioni e le valutazioni espresse da taluni esponenti di Futuro e libertà per l'Italia rappresentano personali prese di posizione, trattandosi di scelte non preventivamente discusse e decise nell'ambito dei rispettivi gruppi parlamentari”. Eppure a Palazzo Chigi, qualcuno teme che sia un gioco delle parti. “Io sono un’aquila” sorride Adolfo Urso, uno dei pochi, che in questo gioco di specchi, la sa lunga.

LE SCATOLE DEL PRINCIPATO







Dalla vendita dell’immobile di Rue Princesse Charlotte alla spiegazione di Fini. Chi c’è dietro l’affare?

Gaucci: “Non sono una pedina”

OSPITE DI GAD LERNER ALL’INFEDELE L’EX PATRON DEL PERUGIA SI DIFENDE

di Giampiero Calapà

“Assolutamente non credo proprio” di essere stato una pedina utilizzata contro il presidente della Camera Gianfranco Fini. Parola di Luciano Gaucci, ieri sera all’Infedele su La7. Eppure l’avvocato Vincenzo Montone, per molto tempo legale, confidente e amico di Luciano Gaucci, un mese fa ha parlato al Fatto della controversia tra il suo ex assistito e la Tulliani, controversia a suo giudizio “usata nell’operazione dossieraggio contro Fini, studiata e preparata a tavolino, anche perché Gaucci, molto mal consigliato, ha detto sui giornali cose molto dure contro Elisabetta Tulliani, mentre prima consigliava a me la prudenza, essendoci stato tra di loro un rapporto sentimentale”.

E NON SOLO, spiegò Montone: “Non provava alcun astio nei confronti della donna, voleva alcune cose indietro a causa dei suoi problemi finanziari; non naviga in buone acque e qualcuno potrebbe avergli promesso altro se fosse stata scatenata l’offensiva riprovevole che abbiamo visto sulle pagine dei giornali del padrone”. Montone disse quindi di aver mollato lui per non esser anche lui pedina dello scontro con Fini, ma ieri Gaucci: “Io l’ho sollevato dall’incarico”. Ieri sera Gad Lerner ha chiesto a Gaucci perché tirare fuori questa storia, richiedere i “beni” alla Tulliani, dopo sei anni. Gaucci ha risposto: “Perché lei si è permessa di dire che la schedina l’aveva vinta lei (in realtà la Tulliani rispose attraverso i suoi legali ad un articolo del Giornale del 2 agosto scorso. ndr), invece non è così, e allora io ho pensato di richiedergli indietro tutto: non erano regali, glieli avevo dati sotto forma di prestito. Quando si sta con una persona che gli si vuole bene, io gli ho intestato questi beni qua. Non li rivoglio io, diamoli al fisco”. A Perugia sull’origine dei beni di Elisabetta Tulliani è stato aperto un fascicolo dalla procura ad agosto, in seguito alla dichiarazioni rilasciate da Luciano Gaucci al settimanale Panorama: “Se la Procura di Perugia ritiene illecito il mio patrimonio e lo ha sequestrato, perché non fa la stessa cosa anche con i beni che ho affidato alla mia ex compagna?

O almeno perché non le chiede di dimostrare l’origine della sua ricchezza?”. Si tratterebbe di cinque appartamenti con una serie di mansarde e box in via Conforti, a Roma, un’abitazione in via Sardegna, terreni, cinque autovetture, quadri di autori come Renato Guttuso e Giorgio De Chirico (acquistati per 2 miliardi di vecchie lire), oltre a un orologio in oro e brillanti da 40 milioni di lire e altri gioielli del valore di circa 1 miliardo.

Quella schedina del Superenalotto da oltre due miliardi di lire, giocata da Gaucci nel 1998, la cui vincita è stata divisa quasi in parti uguali fra i conti corrente dei due. L’attuale compagna di Fini ha sostenuto di averla giocata lei, quella schedina, ma il tabaccaio di via Merulana a Roma, contattato da Panorama, ha smentito la donna: “La giocata la fece la segretaria di Gaucci”.

ELISABETTA Tulliani è stata fidanzata di Luciano Gaucci per sette anni. Lo avrebbe conosciuto a 25 anni l’ex patron del Perugia a casa del suo ex compagno di classe Alessandro, a una festa. Dal 1997 al 2004 la futura lady Fini è l’ombra di Luciano Gaucci: il patron del Perugia la nomina presidente della Sambenedettese e consigliere del Perugia prima del crac. Il fratello minore, Giancarlo, nel 2000 ha 23 anni, è vicepresidente esecutivo della Viterbese e consigliere della Sambenedettese. D’altra parte, disse l’avvocato Montone al Fatto, “quando un naufrago è in balìa delle onde si aggrappa anche a un filo di paglia per sopravvivere”.