sabato 31 luglio 2010



Wolfgang Amadeus Mozart: Symphony No. 40 in G minor, K.550 / Trevor Pinnock, conductor · Berliner Philharmoniker / Recorded at the Berlin Philharmonie, 10 October 2008.

J.S.BACH - VARIAZIONI GOLBERG

J.S. BACH - VARIAZIONI GOLBERG

Inciucio vergognoso


di Paolo Flores d’Arcais

“L’accordo tra le maggiori formazioni politiche, con l’esclusione dell’Italia dei valori, per l’elezione di Michele Vietti al Consiglio superiore della magistratura rappresenta una pagina di buona politica, piuttosto rara di questi tempi e quindi ancora più apprezzabile”. Il merito va a “Silvio Berlusconi e Pier Luigi Bersani” che hanno respinto le “pressioni che volevano indurli a pretendere una soluzione estremistica”. E’ Giuliano Ferrara che scrive, anzi che gongola. Ne ha ben donde. L’inciucio consumato ieri dal Pd, che porterà Vietti alla vicepresidenza del Csm, supera in gravità perfino le nefandezze della bicamerale. Ieri, infatti, i Bersani e i Veltroni, i Franceschini e i D’Alema, hanno consegnato nelle mani del regime l’organo di auto-governo dei magistrati.

CON QUESTA logica, ben presto accadrà la stessa cosa per la Corte Costituzionale, visto che il presidente del Tribunale del riesame di Roma, nell’ordinanza con cui conferma la custodia cautelare per la P3, sottolinea la “ingerenza [che] venne esercitata su almeno 6 giudici costituzionali”, i quali “anticiparono a un soggetto come il Lombardi la loro decisione”. Ne bastano altri due di analoga tempra e la foia totalitaria del ducetto di Arcore non avrà più argini che ne impediscano il compiuto appagamento.

Vietti è stato al governo sotto Berlusconi due volte. Un habitué, dunque. Da integerrimo “paladino della legalità” ha sguainato la durlindana per depenalizzare il falso in bilancio, permettendo al suo “sovrano” di non finire in galera. Berlusconi il reato lo aveva commesso, hanno stabilito i giudici, solo che nel frattempo – grazie a Vietti - non era più un reato. Vietti è perciò l’uomo giusto al posto giusto, se si vuole un Csm ancora peggiore di quello dell’era Mancino. Nella quale, lo sappiamo grazie alle intercettazioni, sono accaduti inqualificabili episodi che hanno infangato l’immagine della magistratura, e spinto il presidente della Repubblica a parlare di “squallore”.

IL NUOVO Csm dovrebbe “fare pulizia”. Sarà grasso che cola se non peggiorerà la rotta. Perché, come assicura Giuliano Ferrara fregandosi le mani, Vietti “ha sempre dimostrato saggezza ed equilibrio, doti che gli saranno utilissime quando dovrà cercare di contenere e se possibile far regredire gli antagonismi che hanno reso finora impossibile un dialogo costruttivo tra mondo giudiziario e politica”. Tradotto: quando si tratterà di far piegare la magistratura ai diktat del Caimano.

Dopo questa scelta, tanto varrebbe che il Pd cambiasse nome in PdV: Partito della Vergogna.

B. teme Vendola: e Tremonti attacca la sanità pugliese


IL MINISTRO DEL TESORO: “NON VOGLIO CHE DIVENTI UNA NUOVA GRECIA”. LA REPLICA: “VERO ATTO DI SABOTAGGIO, NOI VIRTUOSI”

di Mario Reggio

Il ministro dell’Economia Giulio Tremonti boccia il piano di rientro del deficit sanitario presentato dalla Regione Puglia. “Non voglio che diventi una nuova Grecia – ha dichiarato il responsabile dell’Economia al termine del Consiglio dei ministri – in questa fase storica prima vengono i numeri e poi la politica”. Secca la replica al Fatto Quotidiano del presidente della Regione Puglia Nichi Vendola: “Il parallelo con la Grecia mi sembra davvero fuori luogo. Questo è un vero atto di sabotaggio. Chiederò l’intervento del presidente Napolitano. Comunque mercoledì prossimo il Consiglio dei ministri dovrebbe dilazionare i termini di presentazione dei piani di rientro”.

Ma cosa c’è dietro alla “mossa” di Tremonti? Secondo gli esperti di politica il premier avrebbe cominciato a sondare i possibili avversari alle elezioni politiche. E sarebbe giunto alla conclusione che una sfida con Nichi Vendola, possibile leader del centrosinistra, non sarebbe così semplice. Da ciò il tiro mancino del ministro del Tesoro che comporterà un taglio di 500 milioni alle casse della Puglia e all’aumento automatico della quota regionale dell’Irpef e dell’Irap. Provvedimenti che non fanno davvero crescere il consenso politico.

Comunque la risposta del governatore della Puglia è stata puntigliosa e senza mezzi termini. “L’unico atto in stile greco che è stato firmato in Puglia è il ‘Bond’ con la banca d’affari americana Meryl Linch, firmato da Rocco Palese (sconfitto da Vendola alle ultime elezioni regionali) e, secondo le dichiarazioni di Rocco Palese al pubblico ministero, coperto dal ministro Tremonti”.

Secondo Vendola, “un atto che ha prodotto una ipotesi di danno erariale tra i 25 e i 100 milioni di euro e che oggi è oggetto dell’attività investigativa della Corte dei Conti. Questo è l’unico atto greco che è stato fatto in Puglia: è un atto greco tutto Pdl”. E ancora: “Cosa c’entra – si è chiesto il governatore – il paragone con la Grecia? Lo sa il ministro Tremonti che noi siamo, secondo molteplici parametri, tra le 5 Regioni più virtuose d’Italia, che abbiamo ridotto in maniera considerevole, con percentuali straordinarie, ogni anno, lo stock del debito della Regione? Lo sa che abbiamo diminuito sensibilmente le spese per il personale migliorandone l’efficienza, lo sa – chiede ancora – che siamo la Regione che ha i più bassi costi per l’alimentazione della macchina pubblica e della cosiddetta politica? Allora di che parla Tremonti, che c'entra la Grecia con la Puglia, perché parla di Grecia quando parla di Puglia e non quando parla di Campania o di Molise o di Calabria?”

A sentire la versione di Nichi Vendola la bocciatura avrebbe percorsi davvero strani e tortuosi.Il ministro Tremonti ha pensato di non sottoscrivere il Piano di rientro della Puglia che i suoi tecnici avevano predisposto e concordato con i tecnici della Regione Puglia. Ed è molto curioso – ha detto – perché il ministro aveva tentato per un paio di settimane di ‘convincere’ la Regione ad aumentare le tasse”. “Noi avevamo dimostrato di poter coprire completamente, di scrivere il piano di rientro senza toccare le tasse. Il piano di rientro della Regione Puglia – ha precisato Vendola – non è causato da un disavanzo sanitario perché la Regione Puglia ha, dal punto di vista sanitario, i conti in equilibrio economico-finanziario, come certificato dal ministero dell’Economia, ma semplicemente noi pagavamo per le penalità retroattive che riguardano la violazione del patto di stabilità del 2006-2008”.

La storia continua. “Ieri, al previsto incontro a Roma, mancava solo il ministro Tremonti: “C’era il ministro della Salute Ferruccio Fazio, c’ero io – ha raccontato Vendola – e io ero pronto a firmare un piano di rientro che consideravo doloroso, che aveva degli aspetti che mi lasciavano perplesso, ma ero pronto a firmare pur di non perdere 500 milioni”.

Ma a questo punto Tremonti decide di chiamare Vendola perché voleva fare un approfondimento. “Non si capisce un approfondimento di che cosa, visto che l’abbiamo approfondito per mesi, in ogni suo dettaglio. Qualcuno era frustrato perché – commenta il governatore della Puglia – non avevo messo le tasse? Qualcuno voleva che io mettessi le tasse: parlo di Raffaele Fitto e Rocco Palese, che volevano che si potessero buttare per strada 5mila lavoratori che noi stiamo internalizzando. Questa era la partita vera, una partita di crudeltà sociale al fine di lotte di potere”.

E non lesina le accuse all’ex governatore della Puglia Raffaele Fitto, ora ministro dei Rapporti con le autonomie locali: “C’è una opposizione spregevole sul piano morale, inqualificabile sul piano politico, di sabotatori e traditori della Patria. Ciò ha spinto sulla mancata firma sul piano di rientro. Io ero lì, non c’era Tremonti”.

In serata la replica del governo, firmata da Tremonti e Fitto: “Noi chiediamo solo di poter fare sul serio partendo dai numeri. Se il presidente Vendola si sottrae alla logica dei numeri preferendo una logica... greca, il sabotatore è lui. Di se stesso e della sua Regione”.

Pd e Udc verso un governo di transizione. Di Pietro: “Berlusconi è il capo della piovra”


di Wanda Marra

Governo di transizione. La parola d’ordine dell’opposizione più o meno congiunta “the day after” è questa. Con qualche sfumatura, con qualche variabile, ma con un intento che a questo punto appare chiaro: andare al voto non subito, ma con una nuova legge elettorale, che - con sistema proporzionale - decreti la fine del berlusconismo e insieme a questa, quella del bipolarismo.

“Purtroppo il comunismo non è a disposizione - ironizza un Massimo D’Alema, non da ora su queste posizioni, più sprezzante che mai - E il bipolarismo dove sta? Adesso in Parlamento abbiamo l’eptapolarismo”.

È un altro giorno concitato e febbrile a Montecitorio. Il la lo dà Pier Luigi Bersani in mattinata, che intervenendo alla Camera dice: “Berlusconi venga in Parlamento a riferire. Il capo del Governo certifica in modo solenne la frattura in-componibile nel maggior partito di maggioranza”. Gli fa eco Donadi, capogruppo dell’Idv, anche lui reclamando un intervento in Aula del premier. È il momento dei grandi movimenti nell’opposizione, l’occasione per cercare di riprendere la bussola di una situazione fino ad ora totalmente fuori controllo. E infatti, Pd e Idv non perdono tempo e prendono la parola in Aula alla Camera nel pomeriggio, un attimo dopo che e' stato dato l'annuncio ufficiale della nascita del nuovo gruppo dei finiani, per chiedere che si proceda ad una verifica dei numeri della maggioranza perché, “ora una maggioranza qui alla Camera non c'e' piu'”.

I Democratici, intanto, sulla linea da seguire per una volta sembrano d’accordo. In un’assemblea aperta a deputati e senatori, convocata di prima mattina, si compattano sulla linea del segretario per aprire ad una fase di transizione, che “impedisca al paese di precipitare nel baratro”. Per una volta, tutti i big, da D’Alema a Veltroni, da Franceschini a Fassino, sostengono la “disponibilità” del partito ad un governo di transizione. Il più critico, al solito, Arturo Parisi che però, ammettendo la gravità della crisi economica e il momento assolutamente particolare del paese non arriva a opporsi esplicitamente a questa ipotesi. Tanto è vero che nel tardo pomeriggio i vertici del partito salgono al Colle per spiegare la loro posizione e la loro richiesta di portare la crisi in Parlamento.

Nell’opposizione, l’idea del governo di transizione sembra piacere un po’ a tutti. Votare con questa legge elettorale, infatti, significherebbe con ogni probabilità una nuova vittoria di Berlusconi. Certo, c’è da capire quale governo, e con chi. E tra l’altro far sì che questo governo cada ufficialmente. Come spiega una sorridente e ottimista Rosy Bindi: “Una cosa per volta. Il governo di fatto è in crisi. Ma ora facciamo sì che tale crisi si conclami”. E, lavorando in questa direzione, l’Idv in mattinata inizia l’ostruzionismo. Il partito è quello che meno sostiene l’idea della transizione e reclama la necessità di andare alle elezioni. Ma in realtà rimane possibilista: “In una situazione di normalità, questa idea sarebbe assolutamente da bocciare. Ma con la crisi in atto, il sistema elettorale vigente e la Rai in queste condizioni, una fase di passaggio potrebbe servire”, spiega Donadi.

In serata, comunque, arriva l’affondo di Di Pietro: “Voi siete alla testa della piovra ed il capo della piovra si chiama Silvio Berlusconi. Lo dico e me ne prendo la responsabilità politica. Non esiste solo l'associazione a delinquere di tipo mafioso, esiste anche l'associazione a delinquere di tipo politico e voi siete alla testa della piovra”.

Parlano più esplicitamente di responsabilità nazionale e larghe intese i partiti di centro, come l’Udc e l’Api, che poi sono quelli più soggetti al corteggiamento del premier. L’Udc esclude qualsiasi sostegno al governo Berlusconi in Parlamento, come dichiara Casini, ed anzi rilancia la proposta di un diverso esecutivo, un “governo di responsabilità nazionale”. E poi ci tiene a chiarire: “Il trasformismo parlamentare è uno dei fenomeni peggiori in politica, e per noi fare da tappabuchi sarebbe umiliante, e francamente nessuno ce lo ha chiesto. I nostri parlamentari sono del tutto immunizzati. Il nostro è un gruppo ampio e vaccinato; chi è venuto con noi, infatti, sapeva bene che non c'era il potere”. Coglie l’occasione per invocare la nascita di un nuovo polo, Rutelli: “La crisi del Pdl sancisce la crisi irreversibile del bipolarismo. Noi non siamo interessati a pasticci di corto respiro ma a far nascere un nuovo Polo dopo il fallimento di questa lunga stagione che ha aggravato la crisi del paese”.

FINIANI IN LIBERTÀ


Con una conferenza stampa-lampo, l’ex leader di An formalizza lo strappo irreversibile: “Berlusconi è illiberale”

di Luca Telese

Qualcuno era finiano. Qualcuno era finiano, ma per i motivi più diversi. “In due ore, senza la possibilità di esprimere le mie ragioni, sono stato di fatto espulso dal partito che ho contribuito a fondare....”. Qualcuno era finiano, per orgoglio, ma anche per motivi contrapposti. Come la racconti, allora, questa strana guerra-lampo, la conferenza stampa più breve della storia? “Non darò le dimissioni - dice Gianfranco Fini - il presidente non deve certo garantire la maggioranza che lo ha eletto. Sostenerlo dimostra una logica aziendale”.

Come lo racconti questo Fini rapsodico che appare e scompare senza rispondere alle domande dei giornalisti, scandendo il suo epigramma di guerra al berlusconismo con i tempi di una pillola che pare confezionata apposta per andare su Youtube? Per una volta, in realtà, dicono più le facce che le parole, conta più il tempo dell’attesa che quello della celebrazione del capo. Roma, ore 15.00, hotel della Minerva, il giorno di Gianfranco Fini. Tra sofà e tappeti, una saletta piena come un uovo, un’attesa più lunga del discorso, un catino di storie che nessuno potrebbe immaginare di ritrovare insieme. Qualcuno era finiano, in fondo, perché amava la battaglia.

MENTRE ASPETTI guardi le facce e ti rendi conto che c’è quasi più varietà antropologica nella platea neofiniana che nelle sedute degli ultimi congressi di An. Per dire: c’è in prima fila il ministro Andrea Ronchi, il più berlusconiano dei finiani, che alla fine però non ce l’ha fatta a separarsi dal suo leader. E poi, c’è la pattuglia degli indomabili vietcong ex rautiani, la spina dorsale del nuovo partito: Flavia Perina, Fabio Granata, Pasquale Viespoli. Quindi i personaggi che non ti aspetti proprio di trovare. Ma come, quello in quarta fila non è Gustavo Selva? E quello che si muove alla destra del palco, non è Alfredo Iorio, leader del movimento politico Il Trifoglio, area ultra-destra sociale, nato intorno al culto del cuore nero Mikis Mantakas? Il Trifoglio è noto per le sue campagne tradizionaliste-choc, come quella sull’”Uomofobia”. Cosa c’entra il Trifoglio con il “laicismo di Fini? Iorio sorride e spiega: “Sì, ma quando si deve scegliere, cosa c’entriamo noi con Berlusconi?”. Ecco Benedetto Della Vedova, e Sofia Ventura: ex radicali, libertari, liberisti. Qualcuno era finiano perché non amava una destra conservatrice. Guardi le facce assiepate nella sala, prima che arrivi Fini, guardi Donato La Morte e Checchino Proietti, il mitico Imperi, uomo macchina storico di via della Scrofa (ancora e orgogliosamente fascistissimo), guardi Italo Bocchino, il più liberale, sempre impeccabile e inamidato, li guardi tutti, in questa straordinaria foto di gruppo, e capisci che Fini ancora una volta è riuscito nell’impresa ricorrente della sua vita, rigenerarsi, risorgere dalle sue stesse ceneri.

E ci è riuscito, l’ex leader di An, grazie a Silvio Berlusconi. Qualcuno era finiano perchè era fascista, qualcuno era finiano perchè era antifascista, qualcuno per noia, qualcuno per anticonformismo, qualcuno per follia, qualcuno per abitudine. Qualcuno per antica amicizia come Roberto Menia. Qualcuno perché era conservatore, qualcun altro perchè era progressista, qualcuno perchè non aveva nulla di meglio da fare. Tutti, però, in diversi modi, ieri erano finiani per diversi modi di interpretare il loro antiberlusconismo. E questo Gianfranco Fini lo sa bene. C’è già il nome, Futuro e libertà, molto più “Vendoliano”, di Azione Nazionale, quello che era trapelato per primo. C’è già un nuovo partito, una struttura, i soldi, per cui si combatterà nei tribunali, quelli della vecchia An.

L’INGRESSO IN SCENA è molto teatrale, quasi una fucilata. Fini sale sul palchetto, saluta, ringrazia, si aggiusta la cravatta e legge il suo telegramma: “La concezione non propriamente liberale della democrazia che l’onorevole Berlusconi dimostra di avere - scandisce il presidente della Camera - emerge anche dall’invito a dimettermi perchè allo stato sarebbe venuta meno la fiducia del Pdl nei confronti del ruolo di garanzia del presidente della Camera indicato dalla maggioranza che ha vinto le elezionì....”. Sì, c’è un pezzo di destra che si ritrova con Fini per una scelta di pancia, più che per una scelta ideologica. Perché segue il suo antico capo, perché riscopre una vena di anticonformismo emozionale molto più missino che aennino. Aggiunge Fini: “Ieri è stata scritta una brutta pagina per il centrodestra e più in generale per la politica italiana. Ma quanto accaduto ieri - prosegue - non ci impedirà di preservare i valori autenticamente liberali e riformisti del Pdl e di continuare a costruire un futuro di libertà per l’Italia”. Poi le parole sulla solidità della maggioranza, che faranno sobbalzare sulla sedia i capi del Pdl, che la sera si riuniscono per valutarle: “Qui ci sono uomini e donne che sosterranno lealmente il governo ogni qual volta agirà davvero nel solco e che non esiteranno a contrastare scelte dell'esecutivo ritenute ingiuste o lesive dell'interesse generale”. Parole che fanno traballare i numeri del governo. Il presidente della Camera è molto chiaro: “Avverto come preciso dovere anche per onorare il patto con quei milioni di elettori del Pdl onesti, grati alla magistratura e alle forze dell’ordine, che non capiscono perchè nel nostro partito il garantismo, principio sacrosanto, significhi troppo spesso pretesa di impunità”. Qualcuno era finiano, ieri, perché era convinto che si fosse chiusa un’era.

ORA VI SPIEGO PERCHÉ SIAMO INCOMPATIBILI


DAL BLOG DI FABIO GRANATA

ALL’INIZIO FU Giuliano Urbani: nel suo stile sobrio e elegante, a chi gli chiedeva come avrebbe potuto giudicare Fabio Granata da probiviro, replicava sottolineando una profonda incompatibilità culturale nei confronti del Pdl. Ieri il documento partorito dall’ufficio politico del partito di Silvio Berlusconi ha utilizzato lo stesso concetto per sottolineare le “colpe” di Gianfranco Fini oltre che per motivare (si fa per dire…) il mio deferimento insieme a quello di Italo Bocchino e Carmelo Briguglio. Se la mente corre agli ultimi mesi riesce con facilità ad individuare questa incompatibilità.

Siamo incompatibili con un partito che esprime piena e convinta solidarietà a chi, condannato in appello per associazione mafiosa, come prima dichiarazione, proclama l’eroismo di un capomafia palermitano.

Siamo incompatibili con un Ministro che non riesce a darsi pace sui motivi misteriosi per i quali, qualcuno alle sue spalle, gli ha acquistato un appartamento.

Siamo incompatibili con un partito che ritiene di poter lasciare come coordinatore regionale in Campania un suo dirigente colpito da mandato di cattura per associazione camorristica e che, dopo essere stato costretto, a causa di una ennesima e gravissima inchiesta giudiziaria, dalla nostra azione intransigente a rassegnare le dimissioni, da Sottosegretario all’Economia, riceve la piena e convinta solidarietà del partito stesso.

Siamo certamente incompatibili con un partito nel quale un coordinatore nazionale ritiene normale, al di là degli aspetti giudiziari, incontrare regolarmente personaggi fuoriusciti dalle ombre piu oscure della Prima Repubblica, faccendieri e magistrati infedeli, per costruire, in febbrile collaborazione con alcuni dei personaggi prima citati, dossier vergognosi contro dirigenti dello stesso partito, pressioni nei confronti degli organi giurisdizionali e affari.

Per questa nostra incompatibilità in Parlamento si apre oggi una nuova pagina della storia repubblicana attraverso la formazione di gruppi parlamentari che si sentono ancora fortemente incompatibili con una visione proprietaria della politica e ne hanno invece una legata al bene comune, alla legalità repubblicana, al rispetto dei diritti civili, alla coesione sociale e al grande patrimonio dell’Unità nazionale.

B. vuole la testa di Fini Ma Napolitano gli fa da scudo


IL PREMIER: PERTINI NEL 1969 SI DIMISE DALLA CAMERA IL CAPO DELLO STATO: CONTINUITÀ ISTITUZIONALE

di Caterina Perniconi

“É necessario salvaguardare la continuità della vita istituzionale, nell’interesse generale del paese”. A chiudere la porta in faccia a Silvio Berlusconi, questa volta è Giorgio Napolitano. Gianfranco Fini ha deciso di non dimettersi da presidente della Camera e il capo dello Stato la ritiene una scelta adeguata, restando “doverosamente estraneo al merito di discussioni e decisioni interne ai partiti”. Ma l’avviso per il premier è chiaro: nessuna pressione sul ruolo di Fini. Invece anche ieri, con un audiomessaggio inviato ai Promotori della Libertà di Michela Brambilla, Berlusconi aveva invitato il presidente di Montecitorio a comportarsi come Sandro Pertini: “I finiani dicono che nessun presidente della Camera ha dato mai le dimissioni – ha dichiarato il presidente del Consiglio – e anche qui non hanno detto il vero. Nel luglio del 1969, Sandro Pertini, che era un grand’uomo e che aveva aderito alla sinistra, ritenne doveroso dimettersi. Spero che Pertini possa insegnare a qualcuno il modo in cui ci si debba comportare”.

Il premier dimentica di dire che la Camera respinse le dimissioni. Ciò che potrebbe capitare anche con Fini, col sostegno dell’opposizione. Infatti da oggi in poi è tutta una questione di numeri: Berlusconi è convinto di avere quelli “necessari per andare avanti”. Ma i conti vanno fatti con attenzione.

CON LA NASCITA DEI nuovi gruppi parlamentari dei finiani, “Futuro e libertà per l’Italia”, il Pdl alla Camera perde 33 deputati e scende da 271 a 238. Aggiungendo i 59 della Lega, la somma con il partito di Silvio Berlusconi è di 297. A questo numero si può aggiungere il deputato che subentrerà a Michele Vietti, eletto al Csm, Deodato Scanderebech, nel 2008 presentatosi con l’Udc ma passato nel centrodestra in occasione delle ultime elezioni regionali in Piemonte. Per quanto riguarda gli altri schieramenti che potrebbero rimpolpare la maggioranza, “Noi Sud” dispone di 6 componenti, 4 provenienti dall’Mpa più l’ex Pdl Paolo Guzzanti e l’ex Pd Antonio Gaglione. Ma Raffaele Lombardo ha fatto sapere ieri che guarda con “attenzione e simpatia” ai nuovi gruppi di Fini. Poi ci sono i 3 Repubblicani-regionalisti (Francesco Pionati, Francesco Nucara e Giorgio La Malfa) e i 4 Liberaldemocratici (Daniela Melchiorre, Italo Tanoni, Ricardo Merlo e Maurizio Grassano, quest’ultimo subentrato a Roberto Cota). La somma, senza considerare l’Mpa, Guzzanti, Gaglione e La Malfa, è di 306, dieci in meno rispetto ai 316 necessari per raggiungere la maggioranza. Che significa rischiare a ogni voto, considerando il 10% di assenze fisiologiche in aula. E forse presto Berlusconi dovrà ricredersi che “i quattro gatti” siano davvero quattro. Ieri il presidente del Consiglio ha trascorso una giornata di silenzio pubblico ma di lunghe discussioni telefoniche, fino al vertice di ieri sera a palazzo Grazioli, e alla festa al castello di Tor Crescenza, con le deputate del Pdl, pronte a tirargli su il morale.

PERCHÉ I CONTI è importante che tornino, non solo in Parlamento. Infatti ieri il premier ha ricevuto la governatrice del Lazio, Renata Polverini e il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, che lo hanno rassicurato: sul territorio nessuno strappo. “Sono schierato con chiarezza dalla parte di Berlusconi, mi dispiace per quanto accaduto, però sto nel Pdl convintamente”, ha detto il sindaco. E i piddiellini del Campidoglio lo hanno seguito. In dubbio era il gruppetto di fedeli al sottosegretario Andrea Augello, ma alla fine anche lui si è sfilato dal nuovo gruppo parlamentare. Che resta comunque composto da un numero alto di deputati, in grado, come ha detto Fini durante un’affollatissima conferenza stampa vicino al Pantheon, “di sostenere lealmente il governo ogni qual volta agirà davvero nel solco del programma elettorale, e che non esiteranno a contrastare scelte dell’esecutivo ritenute ingiuste o lesive dell'interesse generale”.

IN QUESTO MODO potrebbero fare involontariamente il gioco di Berlusconi, che cercherà di dimostrare “l’inaffidabilità” dei finiani, per potergli costruire una campagna elettorale contro. Ma l’ipotesi urne non è così vicina. Il capo dello Stato non è favorevole all’idea, tantomeno la Lega che non vuole presentarsi davanti ai cittadini senza aver incassato il federalismo fiscale. E ieri il leader dell’Udc, Pierferdinado Casini ha dichiarato di escludere “qualsiasi sostegno a questo governo”, rilanciando la proposta di un “esecutivo di responsabilità nazionale”.

“Noi ci accontenteremo – ha detto Casini – di un altro governo, chi ha sbandierato finora l’autosufficienza ammettesse che non esiste. Servirebbe una responsabilità nazionale e anche un rapporto diverso con le opposizioni”. Casini ha inoltre escluso una campagna acquisti da parte del governo verso singoli parlamentari dell’Udc: “I nostri parlamentari sono del tutto immunizzati. Il nostro è un gruppo ampio e vaccinato”.

Il giorno in cui comincia la fine


di Furio Colombo

È iniziata la camminata nel vuoto. L'aula della Camera dei deputati è un buon osservatorio di comportamenti ansiosi e sconnessi. E' avvenuta una deflagrazione nelle stanze interne della vita politica italiana. Ha divelto e distrutto, e stanno cercando i corpi.

Non è una metafora. Stanno cercando il corpo del partito di Berlusconi che lui stesso, secondo un modello diffuso in questo periodo nel mondo, ha fatto esplodere.

Stanno cercando i resti di coloro che dovevano essere distrutti, personaggi non tutti noti, non tutti identificati, detti “i finiani”. All'inizio non si sa neppure quanti siano. Stanno cercando di capire: chi ha fatto male a chi, nel furore del kamikaze? Che cosa resta, che cosa cambia?

L'evento è strano perché qui dentro molti sono storditi dalla portata dell'esplosione, soprattutto la gente di Berlusconi.

C'è chi dice: “Un altro governo”, c'è chi annuncia: “Elezioni”. Oppure, ma alternando ansia a celebrazione: «Berlusconi è arrivato alla fine». Intanto, fuori dal Palazzo non lo sanno e non importa a nessuno. Fatti gravi contro la Costituzione, contro le istituzioni, contro lo Stato attraversano i telegiornali di regime e diventano litigi di corte. Eppure lo sconvolgimento è grande.

Non cambia l'immagine di Berlusconi, la sua capacità distruttiva che i suoi sostenitori invocano e ammirano, e i suoi creditori (la Lega sempre in attesa di nuovi doni) sollecitano con finta celebrazione e vero cinismo. Ma forse neppure lui, Berlusconi, si è reso conto del danno fatto a se stesso.

Certo, per prima cosa si è tolto la soddisfazione di far tornare in aula all'improvviso (ma solo la discussione preliminare; tutto il resto dopo agosto) la legge-bavaglio sulle intercettazioni. E' l'esibizione di uno scalpo, una lugubre festa tribale. Serve a umiliare il nuovo gruppo formato intorno al presidente della Camera, Fini. Adesso sappiamo che sono 33 i deputati con cui, d'ora in poi, il PdL dovrà accordarsi in un modo o in un altro, invece di dare ordini. Al momento serve però a umiliare la “finiana” Giulia Bongiorno, presidente della commissione Giustizia, che deve fare, adesso, subito il suo bravo discorso sulle intercettazioni come introduzione alla forzatura che deve subire.

Ma i deputati di Berlusconi, che non sono più maggioranza alla Camera, se ne stanno zitti e lontani, ancora storditi dallo shock del dopo esplosione come avviene in Afganistan. E infatti si aggira in aula un altro fantasma: la mozione di sfiducia personale per il sottosegretario Caliendo. Ti sussurrano (la fonte è incredibile) “la prossima settimana la presentate e sarà approvata”. Il che vuol dire che la camera dei Deputati resta aperta. Nessuno saprebbe dire perché, o garantire ciò che accadrà. Si sa solo che Berlusconi riunisce i suoi uomini in serata. Finalmente soltanto gli indagati.

Proniviri


di Marco Travaglio

L’ altra sera, al Gran Coniglio del P3dl riunito a Palazzo Grazioli, Denis Verdini passeggiando nervosamente nella stanza ordinava a Sandro Bondi: “Carta, calamaio e penna!”. L’apposito James subito eseguiva e, curvo sullo scrittoio a ribaltino, vergava il comunicato della Banda Bassotti per liquidare Fini e deferire ai probiviri altri tre deviazionisti.

Un unicum nella storia, dall’età della pietra a oggi: mai nessun politico, nemmeno in certi stati africani dove gli avversari venivano eliminati per via non giudiziaria, ma gastroenterica, era stato cacciato dal suo partito per eccessi di legalità.

Dettava dunque Verdini: “L’Ufficio di Presidenza…’. Sandro, apri una parente. L’hai aperta? ‘…che siamo noi…’. Chiudi la parente. ‘…considera le posizioni dell’on. Fini assolutamente incompatibili con i principi ispiratori del Pdl’. Virgola, anzi punto e virgola, due punti. Massì, abbondiamo, abbondantis abbondandum!”.

Ogni tanto bussavano alla porta e Verdini, colto da un sussulto, guadagnava prontamente il cornicione, temendo da un momento all’altro l’irruzione dei gendarmi o degl’ispettori della Banca d’Italia che lo tallonano da tempo. Ma niente paura: una volta era La Russa che faceva capolino soffiando in una lingua di menelik per portare un po’ di buonumore. Un’altra volta era B. con un reggiseno a mo’ di bandana e un tanga a tracolla per raccomandare di andarci giù pesanti col traditore, poi tornava ai consueti passatempi.

“Allora, Sandro, dov’eravamo rimasti? Ah sì: Fini è colluso con la giustizia e l’antimafia, continua pervicacemente a non rubare e per giunta rifiuta di tenerci il sacco, farci il palo e coprirci la fuga”. “Scusi se oso, magnifico Denis”, esalava James, “ma così dicendo qualcuno penserà che il documento l’abbia scritto Gambadilegno. Forse è meglio dire le stesse cose in forma più aulica: tipo che Fini ha fatto mancare ‘il vincolo di solidarietà ai propri compagni di partito, vorrebbe consegnare alle Procure tempi, modi e contenuti degli organigrammi istituzionali e di partito’, ‘pone in contraddizione legalità e garantismo, si mostra esitante nel respingere i teoremi su mafia e politica’… Che dici? Tanto chi vuol capire capisce”. “Oh, mettila giù come ti pare, ma lascia perdere le rime baciate. Purchè si capisca qual è il problema: quello non ruba e non lascia rubare, mettendoci in cattiva luce con gli amici degli amici e disorientando il nostro elettorato. Tanto poi ci pensano il Giornale e Libero a tirar fuori i dossier e il Corriere a gabellare il tutto come un capriccio caratteriale. E fai un po’ prestino ché c’ho una partita di assegni di passaggio e non vorrei perdermela”.

Intanto, anticipando i desiderata di Denis, l’ambasciatore Sergio Romano calzava la feluca d’ordinanza e le ghette primavera-estate delle grandi occasioni (le portava già a Plombières nel 1858, quando accompagnò Costantino Nigra e la contessa di Castiglione a rendere visita a Napoleone III e a passarvi le acque), aveva già telegrafato il consueto puntuto editoriale al Corriere della Sera, di quelli che da soli riescono a metterne in fuga il 14% dei lettori.

“Di grazia – ammoniva il sempre vispo diplomatico, alternando il monocolo al più moderno e civettuolo pince-nez – risparmiateci questo spettacolo avvilente”, non “bisticciate” e “passate alla ricerca di formule che possano assicurare continuità e stabilità del governo”, “componendo le divergenze e accordandovi su un percorso comune” con “un’intesa fondata sulle vere esigenze del Paese” che “gioverà a coloro che avranno seriamente tentato di realizzarla”. Insomma gliele ha cantate chiare, come sempre.

Dal canto suo, il Pd si accreditava come autorevole alternativa al P3dl, mandando al Csm l’ottimo Vietti, già autore della legge porcata sul falso in bilancio, e Calvi, l’avvocato di D’Alema, che terrà compagnia all’avvocato di Bossi, Brigandì, e a uno dei 67 avvocati di B., tale Palumbo. Perché, come dice Bersani, “siamo pronti per qualsiasi soluzione”. Anche a sostituire B. facendo le stesse cose.

CCA' NISCIUN' E' FESSO

I timori del Quirinale per il Vietnam in Aula


FEDERICO GEREMICCA

Ed eccola qui la situazione che più di ogni altra il Colle temeva. E che temeva già settimane fa quando, nel pieno dello scontro sul disegno di legge in materia di intercettazioni, la preoccupazione maggiore del Capo dello Stato riguardava lo sfilacciamento dei rapporti politici, la stabilità della maggioranza, la tenuta dell’esecutivo: la governabilità per dirla in una parola sola. Il rischio che Napolitano scorgeva all’orizzonte, si è materializzato forse addirittura prima del previsto: ed ora è al Colle che si guarda, cercando risposte che il Colle però non può dare.

Il Quirinale, infatti, non ha un ruolo in questa fase. Spiega uno dei consiglieri del Presidente: «Il governo è al suo posto, nessuno ha messo in discussione la maggioranza che lo sostiene e quindi non si capisce che cosa si attenda dal Colle. Quello in atto è uno scontro politico interno a un partito: il Quirinale, naturalmente, si tiene distante e non ha nulla da dire. Oggi la preoccupazione, magari, è un’altra...». Ed è una preoccupazione che Giorgio Napolitano mette nero su bianco alla fine dell’incontro con la delegazione del Pd ricevuta al colle: si chiama garantire la continuità istituzionale...

Cos’è che infatti il Presidente vede all’orizzonte, grazie alla sua decennale esperienza politica, alle dichiarazioni che legge e alla distanza dal fuoco delle polemiche che il suo ruolo gli impone? Un attacco concentrico al presidente della Camera che porti, alla fine alla paralisi dell’istituzione. Uno scenario da guerriglia quotidiana, con Pdl e Lega che disertano le conferenze dei capigruppo, votano in aula contro il calendario dei lavori proposto da Fini, ostacolano i lavori dell’assemblea di Montecitorio fino alla paralisi e alla dimostrazione che l’unica via per il regolare funzionamento della Camera sono le dimissioni di Gianfranco Fini. Non solo. Accanto a questo, infatti, chi può escludere un agosto arroventato e segnato da quella che i quotidiani definiscono «campagna acquisti», e cioè il tentativo con ogni mezzo di convincere i finiani a passare dall’altra parte della barricata?

E’ per questo, per il clima che si respira e l’imprevedibilità degli avvenimenti futuri che il Capo dello Stato è meno rammaricato del solito della totale assenza di comunicazioni con il presidente del Consiglio. Come sempre (anche in un momento così delicato) nessun contatto diretto. Berlusconi non ha sentito la necessità di salire al Colle per spiegare al Presidente la situazione determinatasi e Napolitano, stavolta, non se n’è lamentato e non ha fatto nulla perché l’incontro avvenisse: tale distanza, in fondo, potrebbe vincolare meno le sue scelte future e lasciargli (termine non corretto applicato al capo dello Stato) le «mani libere» quando e se la crisi politica dovesse trascinare in crisi di governo. Comunque sia, i rapporti tra i d0ue presidenti - insomma - restano quelli di sempre: improntati a reciproca diffidenza e difficile comunicazione, venendo e rappresentando mondi troppo lontani e diversi per poter intendersi. L’ultima seria frizione è di appena qualche giorno fa, quando il Capo dello Stato - avvalendosi della norma costituzionale secondo la quale è il Presidente della Repubblica a nominare i ministri su proposta del premier - ha invitato il Capo del Governo a ripensare alla scelta di Paolo Romani come ministro dello Sviluppo economico. Nomina inopportuna se non discutibile.

L’inopportunità starebbe nel volersi sistemare alla guida del Ministero che oggi ha - tra l’altro - la titolarità del rilascio delle concessioni televisive, un esponente politico che è anche editore e che è storicamente considerato un po’ la longa manus di Berlusconi nel mondo dell’emittenza televisiva e nomina anche discutibile, considerato il fatto che Paolo Romani sarebbe al centro di un paio di indagini, una delle quali riguarderebbe l’autorizzazione (in qualità di assessore all’Urbanistica di un comune lombardo) di una grande lottizzazione ad opera del fratello Paolo e di altri familiari del figlio di Berlusconi.

Il Capo dello Stato ha manifestato perplessità sulla scelta e invitato il premier (attraverso i soliti ambasciatori...) a ripensarci. Il presidente del Consiglio ha preso atto e si è fermato. Tanti braccio di ferro tutti assieme sono troppo, evidentemente, anche per un premier decisionista e abituato alla lotta come Silvio Berlusconi.

Csm, Napolitano: "Regole rigorose"


Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano torna a puntare il dito contro le «squallide consorterie» e, durante la cerimonia al Quirinale per il passaggio di consegne tra il vecchio Csm e l’insediamento del nuovo sottolinea la necessità di «rigorose regole deontologiche per i magistrati e per gli stessi componenti del Consiglio» per fare in modo che il sistema giustizia e la magistratura riacquistino «prestigio e consenso tra i cittadini».

Uno scontro tra due idee di democrazia


MICHELE AINIS

C’è un conflitto più grave, più esteso e lacerante, della frattura che in queste ore ha spaccato in due come una mela il maggiore partito politico italiano. È il conflitto tra due concezioni della democrazia, della legalità costituzionale. La prima è una democrazia plebiscitaria: significa che la sovranità si trasferisce dagli elettori al leader, il quale poi la esercita dettando in solitudine l'agenda di governo così come l'organigramma dello Stato. La seconda è una democrazia parlamentare, con i suoi riti, con i suoi tempi, con i suoi equilibri perennemente instabili. È alla prima concezione che si è richiamato Silvio Berlusconi, cacciando dal partito Fini e licenziandolo dallo scranno più alto di Montecitorio. È alla seconda che s'appella viceversa il presidente della Camera, alla sovranità del Parlamento anziché del Capo carismatico. Non che le democrazie debbano temere le occasioni di contrasto. Meglio portarle allo scoperto che nascondere la polvere sotto i tappeti. Non per nulla la nostra Carta regola il conflitto d'attribuzioni fra i poteri dello Stato. E infatti la nascita d'un gruppo parlamentare autonomo chiude una stagione di congiure, dove non era chiara nemmeno l'identità dei congiurati.

Ora finalmente potremo fare un po' di conti, ma soprattutto dovrà farli Berlusconi. Perché sta di fatto che sbarazzandosi del proprio oppositore interno in nome della democrazia plebiscitaria, paradossalmente ha rivitalizzato la democrazia parlamentare. È in Parlamento, difatti, che il suo gabinetto dovrà trovare i numeri per continuare a governare. È lì che le forze politiche potranno decidere di battezzare un altro esecutivo. Ed è sempre al Parlamento che il Premier dovrebbe riferire circa la fase politica che si è aperta nel Paese. Lo farà? È giusto dubitarne: nella democrazia plebiscitaria le Camere sono un orpello, un accidente inutile. Ecco allora l'autentico conflitto che in Italia si consuma ormai da molti anni: quello fra Costituzione scritta e Costituzione materiale. È un conflitto fra diritto e anti-diritto, che in ultimo ci rende viandanti nel deserto del diritto, perché i due regimi s'elidono a vicenda. Eppure si profilano entrambi all'orizzonte specie durante il frangente d'una crisi, quando sarebbe maggiormente necessario il salvagente delle regole. Accadde per la prima volta nel 1994, dopo il ribaltone di Bossi che colò a picco il primo governo Berlusconi. Lui reagì chiedendo elezioni anticipate, in nome per l'appunto della democrazia plebiscitaria; invece il presidente Scalfaro insediò il governo Dini, in nome della democrazia parlamentare. Adesso ci risiamo: Fini non si dimette, le regole scritte non contemplano alcuna mozione di sfiducia verso i presidenti delle assemblee legislative, Berlusconi tira in ballo le regole non scritte. C'è però un colpevole, c'è un killer a viso scoperto, in questa strage delle regole di cui siamo costretti a celebrare i funerali. Questo colpevole è il sistema dei partiti: tutti, di destra e di sinistra.

Nella seconda Repubblica si sono avvicendati a turno sui banchi del governo, senza mai adeguare la Costituzione scritta al nuovo ordinamento materiale, o senza contrastarlo in nome della legalità formale. In più trattano le istituzioni come la propria cameriera. Ne è prova lo scandalo del nuovo Csm, dove hanno trovato un posto al sole l'avvocato di Bossi (Brigandì), quello di Berlusconi (Palumbo), quello di D'Alema (Calvi). Ne è prova altresì la lunga occupazione della presidenza di Montecitorio da parte dei segretari di partito, ancora senza differenze tra sinistra e destra: nell'ordine Casini, Bertinotti, Fini. E poi ti meravigli se il capopartito continua a fare il primattore anche da lassù? Non sei stato proprio tu - Prodi, Berlusconi - a farlo votare? Nella prima Repubblica, quando s'affermò la convenzione che la presidenza della Camera spettasse al Pci, Berlinguer ci mandò la Iotti, senza mai sognarsi d'occuparla in prima persona. Ma Berlinguer è morto, e neanche noi ci sentiamo troppo bene.

michele.ainis@uniroma3.it


venerdì 30 luglio 2010

Governo Gomorra


DAL BLOG DI PETER GOMEZ

Mesi durissimi attendono il Paese. Come potete leggere nei servizi de ilfattoquotidiano.it, Silvio Berlusconi gioca il tutto per tutto e adesso sogna di varare un governo in stile Gomorra. Il problema del Cavaliere, anche se la maggior parte dei commentatori sedicenti liberali continua a far finta di non accorgersene, è sempre lo stesso: la giustizia. Anzi, le inchieste e i processi. Che coinvolgono lui e i suoi amici.

La decisione della Corte costituzionale di fissare per il 14 dicembre l’udienza in cui verrà discussa la legge sul legittimo impedimento lo ha spinto così a rompere gli indugi, a perdere ogni freno inibitorio, e a iniziare un furioso corteggiamento a parlamentari di opposizione, alcuni dei quali francamente impresentabili. È prevedibile infatti che la Consulta, dopo aver visto una serie di suoi membri restare indirettamente coinvolti nello scandalo della nuova P2, ci metterà pochissimo a dichiarare quello che tutti sanno e che anche il Quirinale avrebbe fatto meglio a sapere: le norme che evitano al premier e ai suoi ministri di essere processati durante la durata del loro mandato sono palesemente incostituzionali.

La prospettiva per Berlusconi è insomma quella di finire molto presto davanti al Tribunale di Milano per rispondere della presunta corruzione dell’avvocato inglese David Mills. Anzi della certa corruzione di Mills, visto che il legale, come ha stabilito la Cassazione, ha sicuramente incassato mazzette per dire il falso davanti ai giudici (e salvare il premier da una condanna nel processo per le vecchie tangenti alla Guardia di Finanza).

Berlusconi sa benissimo che nel momento in cui dovesse ricominciare il suo dibattimento si arriverebbe a una sentenza nel giro di poche settimane. Il fatto storico è già stato accertato (i 600mila dollari dati a Mills e la testimonianza taroccata in favore del Cavaliere). E resta solo da stabilire se tra le prove raccolte ci siano abbastanza elementi per condannare come corruttore il leader del Popolo della Libertà (a questo punto provvisoria).

Una brutta situazione, insomma. Anche perché proprio le indagini sulla nuova P2 hanno fatto saltare, o reso incerte, le amicizie su cui il Cavaliere sperava di poter contare nella magistratura meneghina.

Di qui l’idea, partorita non adesso, ma alcuni mesi fa, di trovare una sponda in quella parte di Udc che si riconosce in Totò Cuffaro, l’ex governatore siciliano condannato in primo e secondo grado per favoreggiamento aggravato alla mafia e sulla testa del quale pende ora anche una richiesta di 10 anni di pena per concorso esterno in associazione mafiosa.

L’operazione, come il fattoquotidiano.it è in grado di rivelare, è cominciata quando Cuffaro ha dato il suo assenso al passaggio di molti suoi fedelissimi nelle file della nuova Democrazia Cristiana del sottosegretario all’Istruzione, Giuseppe Pizza, un vecchio arnese della prima repubblica legato agli ambienti più svariati.

Come ha scritto a suo tempo L’Espresso una parte consistente delle tessere della Dc fanno però capo al braccio destro di Berlusconi, Marcello Dell’Utri, condannato in secondo grado a sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa. E così il disegno di Berlusconi diventa evidente. Anche se Cuffaro e Beppe Drago – l’altro leader dell’Udc siciliana corteggiato dal premier – adesso smentiscono un passaggio dai banchi dell’opposizione a quelli della maggioranza (cosa altro potrebbero fare?).

Il Cavaliere vuole trovare in Parlamento i numeri sufficienti per garantire l’approvazione anche alla Camera della cosiddetta norma sul processo breve (quella che prevede di far morire tutti i dibattimenti che non vengono conclusi nel giro in lasso di tempo prestabilito). Non per niente proprio oggi il capogruppo Pdl nella commissione Giustizia di Montecitorio, Enrico Costa, ha chiesto che l’esame del processo breve venisse immediatamente calendarizzato in settembre alla ripresa dei lavori.

Ma con 33 deputati già passati a Fini, per Berlusconi è molto difficile credere di riuscire a votare la legge senza rischiare ogni giorno improvvisi rovesci. Di qui la manovra per arrivare a Cuffaro e una dozzina di parlamentari calabresi, siciliani e campani a lui legati. Tutti parlamentari da aggiungere a vari esponenti del gruppo misto e del centrosinistra, come Daniela Melchiorre o Riccardo Villari, già in procinto di cambiare casacca.

Il Cavaliere ingolosisce tutti non solo con l’offerta di posti e prebende. Ma anche con la promessa (molto gradita alle varie cricche d’Italia) di costituire una commissione d’inchiesta parlamentare sull’uso politico della giustizia. Una commissione che, come scrive oggi Repubblica, avrà gli stessi poteri dell’autorità giudiziaria. “Faremo un processo a chi ci vuole processare”, avrebbe detto – secondo il quotidiano – un falco del Pdl.

Se Berlusconi ce la fa, insomma, il Paese va verso una governo Gomorra. Con una maggioranza sostenuta da pregiudicati, indagati e condannati – in primo e secondo grado – per fatti di mafia (Cosentino, Dell’Utri e Cuffaro) e politici sotto inchiesta per mazzette e ricostituzione di associazioni segrete. Tutti uniti da un solo obbiettivo: farla franca. Per sempre.

ANDRA'?

9 settimane e mezzo

With A Little Help From My Friends

L’ULTIMA SPIAGGIA

LUIGI MORSELLO

L’approdo a Lodi avvenne nell’autunno del 1997. Fu l’ultima spiaggia.

Ero stato ‘fra color che son sospesi’ dal novembre 1993: quattro anni, di cui circa tre sospeso dal servizio. Dopo essere stato riammesso in servizio essendo cadute le ragioni della sospensione, fui prima confermato a Pavia e in ventiquattrore dirottato al Provveditorato di Milano. Riassegnato a Pavia dal TAR Lombardia fui nuovamente dopo appena tre mesi ritrasferito, sempre al Provveditorato di Milano, dove rimasi in servizio fino al trasferimento a Lodi.

Bastano queste poche righe per dare la misura dell’ignavia delle istituzioni penitenziarie centrali e periferiche, ma non serbo rancore. Disprezzo si.

La citazione va spiegata.

Per farlo occorre sapere che il diritto all’alloggio di servizio gratuito è connesso alla titolarità della direzione di un istituto di pena, nel nostro caso la Casa Circondariale di Pavia, carcere nuovo che era stato messo in funzione da me. Era il secondo istituto di pena, nel 1984 avevo messo in funzione la casa circondariale di Busto Arsizio. Terzo ed ultimo carcere da me messo in funzione è stata la casa circondariale Lecco, ma si trattò di una riattivazione al termine di molti anni di completa ristrutturazione.

Il diritto-dovere di fruire dell’alloggio di servizio era condizionato alla titolarità della direzione di un carcere. Nel caso di sospensione dal servizio il diritto scadeva a interesse legittimo, meno tutelato in via giudiziaria amministrativa.

Insomma, potevano buttarmi fuori di casa in qualsiasi momento, anche con l’uso della forza pubblica, in questo caso della polizia penitenziaria.

Viene definito ‘sfratto amministrativo coatto’.

Si immagini lo stato d’animo di chi sta percependo per effetto della sospensione cautelare dal servizio il c.d. “assegno alimentare” pari al 50% della retribuzione e che, a nemmeno un anno dalla terribile esperienza del tentativo di suicidio, descritto altrove, si trova ad essere sottoposto a ben tre procedimenti penali, poi ‘regolarmente’ conclusisi nell’assoluzione piena, privo della forza economica di difendersi efficacemente, con la prospettiva dello sfratto (che mi fu intimato per ben due volte), costretto a minacciare che questa volta la pistola (di sua proprietà) l’avrebbe rivolta contro altri perché il primo sfratto (intimato tramite ufficiale giudiziario) venisse di fatto accantonato e tale restò fino al trasferimento a Lodi.

Era accaduto in quel periodo che l’ufficio centrale del personale, a causa del pensionamento di Raffaele Ciccotti (direttore a Capraia molti anni prima, che non prese bene la mia fuga dall’isola) venne affidato al dr. Ugo Pastena, funzionario di tutt’altra pasta. È mia convinzione che fu Pastena a bloccare ogni ulteriore tentativo di cacciarmi via di casa, praticamente in mezzo alla strada.

Mi ero attivato per cercare casa a Pavia, ma gli affitti erano proibitivi a stipendio pieno, figuriamoci con uno stipendio dimezzato.

Quindi restai nell’alloggio di servizio di Pavia fino a quando non venni trasferito a Lodi. Solo dopo la esecuzione di questo trasferimento e l’assegnazione di un direttore fisso a Pavia (una donna, c’è tuttora) il mio successore ritenne di dovermi intimare lo sfratto, il secondo.

Ugo Pastena era andato in pensione e la sua assenza si fece sentire subito.

Ecco, questo significa essere ‘fra color che son sospesi’: un Purgatorio interminabile.

Mentre ciò accadeva, nella più totale indifferenza e con venature di cinismo (la regola aurea è sempre stata, alla toscana maniera ‘chi non fa non falla’), mentre la mia famiglia, mia moglie, i miei figli conoscevano l’abisso della disperazione (credo che non abbiano subito danni psicologici permanenti) incredibilmente chi non crollò fui proprio io.

Ero nella fase c.d. “maniacale” delle sindrome bipolare (come avrei scoperto anni dopo), per cui ogni mattina mi recavo con la mia autovettura a Milano per prestare servizio alle dipendenze di un provveditore che io stimavo affatto, ma dando un senso ed un significato alla mia attività di servizio (inizialmente leggere solo il giornale), ottenendo l’incarico di ‘funzionario istruttore’ ai procedimenti disciplinari del personale di polizia penitenziaria della regione.

Mi vanto di avere impedito con le mie relazioni istruttorie, acquisite anche con visite negli istituti, che venissero perpetrati abusi.

A dire il vero, non avevo (ancora) perso l’illusione di essere rimandato a Pavia, ma quando realizzai che non sarebbe accaduto mai, feci il tentativo di tornare a Eboli, dov’ero stato a cavallo degli anni ’90.

C’era all’epoca l’Istituto Penale per Minorenni, ma venne soppresso per cui quando la soppressione avvenne, essendo rimasto assieme a una diecina di agenti a fare il guardiano delle mura castellane, chiesi il trasferimento a Pavia, per ragioni di famiglia (motivi di studio per i primi due miei figli).

Era la terza volta che chiedevo un trasferimento. La prima fu da Lonate Pozzolo all’Ispettorato Distrettuale di Firenze (durò tre mesi, non mi fu assegnato un alloggio di servizio a titolo oneroso, gli affitti a Firenze erano proibitivi). La seconda fu da Firenze a Eboli, trasferimento conseguito a un terribile colloquio a Roma con il capo del personale cons. Giuseppe Falcone, già descritto. Fu una trappola, perché la soppressione era nota e programmata da prima del mio trasferimento.

LODI – LA SEZIONE SPECIALE

Non ne ero a conoscenza, non ne avevo mai sentito parlare, ma nel carcere di Lodi c’era una sezione speciale!

Non solo. Era per ‘sex offenders’ e ‘pedofili’!

Trenta posti, isolata sia materialmente che dal punto di vista organizzativo dalla restante parte del carcere.

Il carcere. La sua costruzione e messa in funzione datava al 1905. era stato ristrutturato negli anni ’90, era stato la sede di servizio di Armida Miserere (scomparsa suicida in circostanze tragiche nel 2003, quand’era alla guida del carcere di Sulmona), che lo aveva rimesso in funzione.

La vita di questa collega è superbamente narrata da Cristina Zagaria: “Miserere. Vita e morte di Armida Miserere, servitrice dello Stato”, Palermo, Dario Flaccovio Editore, 2006.

Una ristrutturazione che però non poteva consegnare alla struttura la funzionalità delle carceri nuove.

Insomma, denaro sprecato. Come se fosse stata la prima volta!

Il carcere era una ‘sinecura’: 80 posti in tutto. 30 per la sezione speciale e 50 per imputati e condannati con pena detentiva residuale non superiore a cinque anni.

La sezione speciale costituiva per me una incognita, un mistero.

Non avevo mai avuto a che fare con simili personaggi, se non per tentare di metterli al riparo da ritorsioni degli altri detenuti.

Posso ricordare solo la figura di Antonio Pastres a San Gimignano.

Giulia Depentor, una giornalista che sta ricostruendo la storia di quell’omicidio, mi scrive: “In questo periodo sto svolgendo delle ricerche su un delitto avvenuto a

San Donà di Piave 40 anni fa che ha visto come vittima un ragazzino di nome Mario Rorato. Il colpevole -reo confesso- era Antonio Pastres, un giovane disadattato originario di Mestre.

E' stato a quel punto che mi sono imbattuta nel suo interessantissimo blog e ho scoperto che Lei ha addirittura conosciuto il Pastres. (http://ilgiornalieri.blogspot.com/2008/11/la-casa-di-reclusione-di-san-imignano_03.html)

Le scrivo quindi per chiederLe qualche informazione aggiuntiva, dato che non sono riuscita a trovare altri canali. Del Pastres si sono praticamente perse le tracce subito dopo la sua reclusione.

Mi piacerebbe confezionare un libro-cronaca e ho bisogno di tracciare anche la sua figura.” (mail 14.5.2010).

Successivamente mi risponde: “Le dico le informazioni che ho su Antonio Pastres: nasce nel 1947 a Milano (non è chiaro dai documenti che ho, l'alternativa potrebbe essere Marghera, città dove risiede al momento del delitto) da padre ignoto e viene adottato, all'età di 16 anni, da Leone Pastres che gli dà il cognome e che sposa la madre Maria.

Il 15 marzo 1970 violenta e uccide un bambino di 9 anni a San Donà di Piave. In seguito, e con l'aiuto del 17enne Claudio Baldassa, riesce a fuggire e viene catturato quando ha già oltrepassato il confine con la Jugoslavia.”.

Naturalmente, mi sono attivato per darle tutto l’aiuto possibile.

Allora vinsi la singola battaglia per superare il ribrezzo verso un solo detenuto. A Lodi erano una trentina! Dei quali mi sarei dovuto occupare in vista dell’applicazione delle misure trattamentali.

Mai e poi mai!

Non era così semplice.

A Lodi c’erano (vi sono tuttora in servizio) due eccellenti psicologi, la dr.ssa Marika Romanini e il dr. Pierluigi Morini: mi fecero cambiare idea.

Il periodo lodigiano è stato caratterizzato dell’intenso lavoro svolto verso i detenuti in esecuzione di pena detentiva definitiva, comuni e non.

I due psicologi si occupavano, la Romanini dei detenuti comuni, il Morini dei tossicodipendenti.

Con una forzatura dei doveri contrattuali di Morini, prima del mio arrivo a Lodi, venne istituita su impulso provveditoriale, la sezione suddetta: non sapevano dove metterli in condizioni di sicurezza!

Il direttore dr.ssa Gloria Manzelli, oggi a capo del carcere di San Vittore, accettò, poi andò a San Vittore, poi arrivai io.

Eravamo quattro gatti a lavorare, ma eravamo di valore.

L’istituto giuridico che meglio si adattava a un trattamento efficace era ed è tuttora oggi l’”ammissione al lavoro all’esterno”. Non è un beneficio penitenziario, della specie delle misure alternative alla detenzione, pur importantissime, è un modalità di esecuzione al lavoro all’esterno, cioè del lavoro carcerario extramurario.

Ciò che lo rende efficace, a mio giudizio, è la circostanza che l’iniziativa appartiene al direttore del carcere, che presiede il Gruppo di Osservazione Trattamento, che formula il programma di trattamento contenente la previsione dell’ammissione al lavoro all’esterno. Il programma di trattamento viene sottoposto all’approvazione del Magistrato di Sorveglianza, dopo la quale il direttore redige il provvedimento di ammissione al lavoro, all’esterno, che diventa esecutivo dopo l’approvazione del magistrato di sorveglianza.

L’attività del magistrato di sorveglianza è limitato al solo profilo di legittimità (se cioè siano state rispettate le procedure), l’opportunità di ammettere il detenuto è un profilo di merito che appartiene al direttore, al quale incombe il dovere di sorveglianza del comportamento del soggetto ammesso al lavoro, dovere per il quale il direttore si serve della polizia penitenziaria.

Insomma, in questo caso il direttore può incidere efficacemente durante lo svolgimento dell’attività lavorativa, facendo verificare il rispetto delle prescrizioni lavorative contenute nel provvedimento di ammissione.

Se il soggetto ammesso al lavoro viola le prescrizioni viene immediatamente sospeso in via precauzionale dal direttore, la revoca poi compete al magistrato di sorveglianza.

Però ci vuole coraggio! Coraggio consapevole!

A Lodi la media dei detenuti in esecuzione di pena definitiva era di circa 40 unità, io sono riuscito ad ammetterne al lavoro esterno fino a 10 unità, cioè il 25%, una percentuale rimasta imbattuta.

Non bastasse questo dinamismo, ho ammesso al lavoro esterno un ‘sex offender’ e un ‘pedofilo’, che hanno finito di scontare la pena senza inconvenientie non risultano ricadute.

Anzi, il ‘sex offender’ (reo confesso) si è sposato, vive a lavora a Lodi.

Devo spiegare.

Il ‘pedofilo’. La lettura della sentenza di primo grado (di assoluzione) mi convinse che era stato condannato in appello ingiustamente in base a prove meramente indiziarie raccolte senza le garanzie di legge, prove che furono ritenute invalide dal giudice di primo grado, valide da quello d’appello.

Devo rimarcare che non vi fu nessun soccorso né dall’amministrazione centrale né dal quella periferica. Fummo lasciati in assoluta solitudine, che ormai me a dire il vero non dispiaceva affatto.

Dopo il mio pensionamento la sezione speciale fu soppressa: era entrato in funzione il carcere megagalattico di Bollate!

Lì sono state profuse risorse economiche e di personale in abbondanza.

È stato anche detto e scritto, scorrettamente, che lì era ed è in atto il primo esperimento di trattamento di questa peculiare specie di detenuti, con metodologie non dissimili da quelle usate a Lodi.

Fa specie che non sia conosciuti da quegli specialisti il lavoro di Pier Luigi Morini “La cura dell’orco” – Sapere edizioni - Quaderni di Criminologia Clinica – 2001.

A suo tempo ne feci questa recensione, pubblicata su Diritto&Giustizia, quaderno n. 4 del 28 gennaio 2006 n. 128.

LA CURA DELL’ORCO

di Pierluigi Morini *

recensione di Luigi Morsello **

La casa circondariale di Lodi, nella realtà delle strutture penitenziarie dislocate sul territorio nazionale, è una piccola realtà che trova ospitalità in un edificio realizzato come carcere nell’anno 1905 e di recente ristrutturato, posto nel centro cittadino.

Le sue ridotte dimensioni, la sua capienza per un numero di posti letto variabile, da 60 ad 80 unità, la relativa tranquillità dell’ambiente sia sotto il profilo dei soggetti detenuti che del personale di polizia penitenziaria, consigliarono agli inizi dell’anno 1996 di riservare una delle tre sezioni ad ospitare soggetti detenuti resisi responsabili di reati di una particolare natura, i reati a sfondo sessuale, in un previsto regime di assoluta separatezza dagli altri detenuti.

Va detto che in altri istituti di pena la presenza di questa tipologia di soggetti detenuti aveva creato non pochi problemi di ordine e sicurezza, anche interni alle sezioni stesse in cui tali soggetti detenuti erano ospitati.

Contestualmente all’attivazione della sezione riservata ai c.d. “sex offenders” si provvedeva anche al reperimento di una attività lavorativa ad essi destinata, gestita da una cooperativa dal nome suggestivo (SPES), attività lavorativa consistente nella archiviazione computerizzata delle ricette per conto della sanità regionale.

È in questo contesto che l’Autore, giovane e brillante psicologo con una pregressa esperienza di lavoro in una comunità di recupero per tossicodipendenti, proponeva di attivare un “Progetto di intervento terapeutico rivolto a soggetti condannati per reati a sfondo sessuale”.

La proposta venne accolta dall’Amministrazione penitenziaria, il progetto iniziò ad essere applicato nel novembre 1996.

Nell’anno 2001 l’A. raccoglieva le proprie esperienze in un volume dal titolo anch’esso suggestivo: “La cura dell’orco”, che reca in copertina la riproduzione di un dipinto di sua proprietà, di Antonio Capovilla del 1996 intitolato “La Giustizia”, e pubblica il proprio lavoro ne “I Quaderni di Criminologia Clinica”, collana diretta dal prof. Ivano Spano della facoltà di psicologia dell’università di Padova e per i tipi della Edizioni Sapere - 2001 - Padova.

Superato lo ‘scoglio’ dell’introduzione e relativi ringraziamenti, l’A. dà la definizione dei problemi connessi al trattamento dei soggetti condannati per reati a sfondo sessuale, mostrando di possedere una consapevolezza, una approfondita lucida comprensione del mondo penitenziario. Dopo avere rimarcato la tendenza ad una progressiva espansione del fenomeno (300 i detenuti nelle sole carceri lombarde nell’anno 2001), egli afferma che i “sex offenders” sono etichettati non solo dalla società ma anche, se non di più, dai detenuti e che, per quanto paradossale ciò possa sembrare ed essere, sono essi stessi a condividere le rappresentazioni sociali e le relative argomentazioni, che li riguardano. Sia la società che gli altri detenuti li vedono come “mostri” e per ciò stesso se ne traggono sentimenti consolatori che li fa sentire come un po’ più ”normali”. Soccorre in ciò l’esperienza che l’A. ha consolidato con i soggetti tossicodipendenti, i quali dal loro “status” di malati traggono giustificazione ed auto-giustificazione per i reati commessi.

Tutto ciò non si verifica per i “mostri”.

L’A. così descrive il clima sociale, anche interno alle carceri: ”Chi si macchia di reati a sfondo sessuale incarna e rappresenta l’aberrazione umana. Come tale non ha possibilità di far ricorso ad alcuna seppur generica operazione difensiva. Non è un malato e non ha onore. Ciò a cui ha diritto, che si merita soltanto, è il confinamento al girone più periferico della marginalità. Restano quali estreme difese una ostinata negazione (sul fronte esterno) accompagnata da una continua tensione a rimuovere le vicende che hanno portato al reato (sul fronte interno)”.

Ed, ancora, così definisce le finalità dell’intervento: “promuovere un processori modificazione degli atteggiamenti che sono di ostacolo ad una costruttiva partecipazione sociale”. Ed ancora: “Il carattere dell’intervento non è impositivo ed è reso esplicito che esso è anche completamente svincolato da qualsiasi riferimento alle misure premiali ed alle misure alternative alla pena.”. Né poteva essere diversamente, un taglio meno rigoroso avrebbe potuto inquinare il progetto, molto ambizioso, nella sua esecuzione pratica.

Quindi, l’A. illustra la sua metodologia, che ripartisce in varie fasi.

La prima fase è di contatto con il soggetto detenuto, di formulazione di una diagnosi psicologica e di una sua presa in carico. L’A. fa ricorso anche a ‘tests’ psicologici, se necessario e se giustificato dal detenuto (sono due le componenti della decisone di usare i “tests”, la loro necessarietà od opportunità valutata dall’esperto – l’autore - e la condivisione del detenuto). Quindi, il soggetto detenuto viene gradualmente introdotto nel gruppo formato da altri soggetti detenuti, nel cui interno si sviluppano dinamiche di confronti reciproci, modulate dalla presenza dell’esperto e basate sul rispetto delle regole che il gruppo stesso si è dato. Dal gruppo si può uscire in qualsiasi momento ed in questo caso l’esperienza si intende conclusa.

La seconda fase sostanzia il lavoro di trattamento analitico del gruppo, sulla base di vari punti cardine, cioè le regole cui si accennava sopra.

Le valutazioni conclusive del progetto seguono a momenti di valutazione ‘in itinere’ dei singoli casi. Il primo momento di valutazione avviene nel contesto del gruppo. Infine, i risultati sono messi a disposizione del Gruppo di Osservazione e Trattamento del carcere.

L’A. auspicava iniziative di formazione del personale, coinvolgenti tutte le professionalità interagenti nelle carceri. Tali iniziative sono state formalmente adottate, ma l’A. non ne ha fatto parte, in pratica ne è stato escluso, per motivi facilmente intuibili (di natura economica e di gelosia professionale).

Ciò non può non essere considerato un danno grave ed irreparabile, perchè era l’unico operatore che poteva vantare diversi anni di esperienza sul campo.

L’opera che si sta tentando di recensire, con forti dubbi di avere anche solo lontanamente fatto comprendere l’importanza sia del lavoro fatto che dell’opera in cui è stato raccolto, costituisce l’unico esempio italiano di ‘aggressione’ al problema dei “sex offenders” detenuti.

Sul campo si ha notizia di due altri esperimenti in altrettante carceri, ma non dei loro risultati.

Certo è che l’esperimento del carcere di Lodi ha avuto il pregio di far emergere il problema, mai in precedenza affrontato in Italia sotto il profilo terapeutico, dando inizio prima ad una ricognizione del problema stesso, il progetto c.d. “FOR W.O.L.F.” (Working On Lessening Fear) al quale l’A. veniva invitato a partecipare e quindi alla elaborazione di un progetto di formazione, denominato ”progetto Chirone”, del quale l’A. non veniva invitato a far parte.

Tuttavia, l’esperienza lodigiana dava risultati concreti, per i quali diversi detenuti “sex offenders” sono stati ammessi al lavoro all’esterno, liberi nella persona, ed hanno partecipato, assieme agli altri detenuti (unico esempio di integrazione) alla redazione di un mensile interno di informazione e cultura, che gli interessati chiamavano “UOMINI LIBERI” e che trovava ospitalità ogni mese nel quotidiano IL CITTADINO di Lodi, oltre ad essere distribuito, gratuitamente, in versione patinata.

Ed ancora, la stessa è stata oggetto di tesi di laurea di Elena Zeni , studentessa lodigiana della facoltà di giurisprudenza dell’Università degli Studi di Milano, dal titolo rigoroso “Il trattamento penitenziario dei condannati per violenza sessuale”.

L’esperienza lodigiana è purtroppo conclusa.

Ne resta preziosa testimonianza l’opera che si è tentato di recensire.

* psicologo, consulente anche per S. Vittore, uno dei fondatori dell’Osservatorio Regionale Autori di Reati a Sfondo Sessuale presso il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria di Milano, referente regionale del Coordinamento Nazionale Psicologi Penitenziari, docente presso la facoltà di Psicologia dell’Università di Padova e presso l’Università Europea Jean Monnet di Bruxelles

** Ispettore generale dell’Amministrazione penitenziaria