venerdì 30 luglio 2010

L’ULTIMA SPIAGGIA

LUIGI MORSELLO

L’approdo a Lodi avvenne nell’autunno del 1997. Fu l’ultima spiaggia.

Ero stato ‘fra color che son sospesi’ dal novembre 1993: quattro anni, di cui circa tre sospeso dal servizio. Dopo essere stato riammesso in servizio essendo cadute le ragioni della sospensione, fui prima confermato a Pavia e in ventiquattrore dirottato al Provveditorato di Milano. Riassegnato a Pavia dal TAR Lombardia fui nuovamente dopo appena tre mesi ritrasferito, sempre al Provveditorato di Milano, dove rimasi in servizio fino al trasferimento a Lodi.

Bastano queste poche righe per dare la misura dell’ignavia delle istituzioni penitenziarie centrali e periferiche, ma non serbo rancore. Disprezzo si.

La citazione va spiegata.

Per farlo occorre sapere che il diritto all’alloggio di servizio gratuito è connesso alla titolarità della direzione di un istituto di pena, nel nostro caso la Casa Circondariale di Pavia, carcere nuovo che era stato messo in funzione da me. Era il secondo istituto di pena, nel 1984 avevo messo in funzione la casa circondariale di Busto Arsizio. Terzo ed ultimo carcere da me messo in funzione è stata la casa circondariale Lecco, ma si trattò di una riattivazione al termine di molti anni di completa ristrutturazione.

Il diritto-dovere di fruire dell’alloggio di servizio era condizionato alla titolarità della direzione di un carcere. Nel caso di sospensione dal servizio il diritto scadeva a interesse legittimo, meno tutelato in via giudiziaria amministrativa.

Insomma, potevano buttarmi fuori di casa in qualsiasi momento, anche con l’uso della forza pubblica, in questo caso della polizia penitenziaria.

Viene definito ‘sfratto amministrativo coatto’.

Si immagini lo stato d’animo di chi sta percependo per effetto della sospensione cautelare dal servizio il c.d. “assegno alimentare” pari al 50% della retribuzione e che, a nemmeno un anno dalla terribile esperienza del tentativo di suicidio, descritto altrove, si trova ad essere sottoposto a ben tre procedimenti penali, poi ‘regolarmente’ conclusisi nell’assoluzione piena, privo della forza economica di difendersi efficacemente, con la prospettiva dello sfratto (che mi fu intimato per ben due volte), costretto a minacciare che questa volta la pistola (di sua proprietà) l’avrebbe rivolta contro altri perché il primo sfratto (intimato tramite ufficiale giudiziario) venisse di fatto accantonato e tale restò fino al trasferimento a Lodi.

Era accaduto in quel periodo che l’ufficio centrale del personale, a causa del pensionamento di Raffaele Ciccotti (direttore a Capraia molti anni prima, che non prese bene la mia fuga dall’isola) venne affidato al dr. Ugo Pastena, funzionario di tutt’altra pasta. È mia convinzione che fu Pastena a bloccare ogni ulteriore tentativo di cacciarmi via di casa, praticamente in mezzo alla strada.

Mi ero attivato per cercare casa a Pavia, ma gli affitti erano proibitivi a stipendio pieno, figuriamoci con uno stipendio dimezzato.

Quindi restai nell’alloggio di servizio di Pavia fino a quando non venni trasferito a Lodi. Solo dopo la esecuzione di questo trasferimento e l’assegnazione di un direttore fisso a Pavia (una donna, c’è tuttora) il mio successore ritenne di dovermi intimare lo sfratto, il secondo.

Ugo Pastena era andato in pensione e la sua assenza si fece sentire subito.

Ecco, questo significa essere ‘fra color che son sospesi’: un Purgatorio interminabile.

Mentre ciò accadeva, nella più totale indifferenza e con venature di cinismo (la regola aurea è sempre stata, alla toscana maniera ‘chi non fa non falla’), mentre la mia famiglia, mia moglie, i miei figli conoscevano l’abisso della disperazione (credo che non abbiano subito danni psicologici permanenti) incredibilmente chi non crollò fui proprio io.

Ero nella fase c.d. “maniacale” delle sindrome bipolare (come avrei scoperto anni dopo), per cui ogni mattina mi recavo con la mia autovettura a Milano per prestare servizio alle dipendenze di un provveditore che io stimavo affatto, ma dando un senso ed un significato alla mia attività di servizio (inizialmente leggere solo il giornale), ottenendo l’incarico di ‘funzionario istruttore’ ai procedimenti disciplinari del personale di polizia penitenziaria della regione.

Mi vanto di avere impedito con le mie relazioni istruttorie, acquisite anche con visite negli istituti, che venissero perpetrati abusi.

A dire il vero, non avevo (ancora) perso l’illusione di essere rimandato a Pavia, ma quando realizzai che non sarebbe accaduto mai, feci il tentativo di tornare a Eboli, dov’ero stato a cavallo degli anni ’90.

C’era all’epoca l’Istituto Penale per Minorenni, ma venne soppresso per cui quando la soppressione avvenne, essendo rimasto assieme a una diecina di agenti a fare il guardiano delle mura castellane, chiesi il trasferimento a Pavia, per ragioni di famiglia (motivi di studio per i primi due miei figli).

Era la terza volta che chiedevo un trasferimento. La prima fu da Lonate Pozzolo all’Ispettorato Distrettuale di Firenze (durò tre mesi, non mi fu assegnato un alloggio di servizio a titolo oneroso, gli affitti a Firenze erano proibitivi). La seconda fu da Firenze a Eboli, trasferimento conseguito a un terribile colloquio a Roma con il capo del personale cons. Giuseppe Falcone, già descritto. Fu una trappola, perché la soppressione era nota e programmata da prima del mio trasferimento.

LODI – LA SEZIONE SPECIALE

Non ne ero a conoscenza, non ne avevo mai sentito parlare, ma nel carcere di Lodi c’era una sezione speciale!

Non solo. Era per ‘sex offenders’ e ‘pedofili’!

Trenta posti, isolata sia materialmente che dal punto di vista organizzativo dalla restante parte del carcere.

Il carcere. La sua costruzione e messa in funzione datava al 1905. era stato ristrutturato negli anni ’90, era stato la sede di servizio di Armida Miserere (scomparsa suicida in circostanze tragiche nel 2003, quand’era alla guida del carcere di Sulmona), che lo aveva rimesso in funzione.

La vita di questa collega è superbamente narrata da Cristina Zagaria: “Miserere. Vita e morte di Armida Miserere, servitrice dello Stato”, Palermo, Dario Flaccovio Editore, 2006.

Una ristrutturazione che però non poteva consegnare alla struttura la funzionalità delle carceri nuove.

Insomma, denaro sprecato. Come se fosse stata la prima volta!

Il carcere era una ‘sinecura’: 80 posti in tutto. 30 per la sezione speciale e 50 per imputati e condannati con pena detentiva residuale non superiore a cinque anni.

La sezione speciale costituiva per me una incognita, un mistero.

Non avevo mai avuto a che fare con simili personaggi, se non per tentare di metterli al riparo da ritorsioni degli altri detenuti.

Posso ricordare solo la figura di Antonio Pastres a San Gimignano.

Giulia Depentor, una giornalista che sta ricostruendo la storia di quell’omicidio, mi scrive: “In questo periodo sto svolgendo delle ricerche su un delitto avvenuto a

San Donà di Piave 40 anni fa che ha visto come vittima un ragazzino di nome Mario Rorato. Il colpevole -reo confesso- era Antonio Pastres, un giovane disadattato originario di Mestre.

E' stato a quel punto che mi sono imbattuta nel suo interessantissimo blog e ho scoperto che Lei ha addirittura conosciuto il Pastres. (http://ilgiornalieri.blogspot.com/2008/11/la-casa-di-reclusione-di-san-imignano_03.html)

Le scrivo quindi per chiederLe qualche informazione aggiuntiva, dato che non sono riuscita a trovare altri canali. Del Pastres si sono praticamente perse le tracce subito dopo la sua reclusione.

Mi piacerebbe confezionare un libro-cronaca e ho bisogno di tracciare anche la sua figura.” (mail 14.5.2010).

Successivamente mi risponde: “Le dico le informazioni che ho su Antonio Pastres: nasce nel 1947 a Milano (non è chiaro dai documenti che ho, l'alternativa potrebbe essere Marghera, città dove risiede al momento del delitto) da padre ignoto e viene adottato, all'età di 16 anni, da Leone Pastres che gli dà il cognome e che sposa la madre Maria.

Il 15 marzo 1970 violenta e uccide un bambino di 9 anni a San Donà di Piave. In seguito, e con l'aiuto del 17enne Claudio Baldassa, riesce a fuggire e viene catturato quando ha già oltrepassato il confine con la Jugoslavia.”.

Naturalmente, mi sono attivato per darle tutto l’aiuto possibile.

Allora vinsi la singola battaglia per superare il ribrezzo verso un solo detenuto. A Lodi erano una trentina! Dei quali mi sarei dovuto occupare in vista dell’applicazione delle misure trattamentali.

Mai e poi mai!

Non era così semplice.

A Lodi c’erano (vi sono tuttora in servizio) due eccellenti psicologi, la dr.ssa Marika Romanini e il dr. Pierluigi Morini: mi fecero cambiare idea.

Il periodo lodigiano è stato caratterizzato dell’intenso lavoro svolto verso i detenuti in esecuzione di pena detentiva definitiva, comuni e non.

I due psicologi si occupavano, la Romanini dei detenuti comuni, il Morini dei tossicodipendenti.

Con una forzatura dei doveri contrattuali di Morini, prima del mio arrivo a Lodi, venne istituita su impulso provveditoriale, la sezione suddetta: non sapevano dove metterli in condizioni di sicurezza!

Il direttore dr.ssa Gloria Manzelli, oggi a capo del carcere di San Vittore, accettò, poi andò a San Vittore, poi arrivai io.

Eravamo quattro gatti a lavorare, ma eravamo di valore.

L’istituto giuridico che meglio si adattava a un trattamento efficace era ed è tuttora oggi l’”ammissione al lavoro all’esterno”. Non è un beneficio penitenziario, della specie delle misure alternative alla detenzione, pur importantissime, è un modalità di esecuzione al lavoro all’esterno, cioè del lavoro carcerario extramurario.

Ciò che lo rende efficace, a mio giudizio, è la circostanza che l’iniziativa appartiene al direttore del carcere, che presiede il Gruppo di Osservazione Trattamento, che formula il programma di trattamento contenente la previsione dell’ammissione al lavoro all’esterno. Il programma di trattamento viene sottoposto all’approvazione del Magistrato di Sorveglianza, dopo la quale il direttore redige il provvedimento di ammissione al lavoro, all’esterno, che diventa esecutivo dopo l’approvazione del magistrato di sorveglianza.

L’attività del magistrato di sorveglianza è limitato al solo profilo di legittimità (se cioè siano state rispettate le procedure), l’opportunità di ammettere il detenuto è un profilo di merito che appartiene al direttore, al quale incombe il dovere di sorveglianza del comportamento del soggetto ammesso al lavoro, dovere per il quale il direttore si serve della polizia penitenziaria.

Insomma, in questo caso il direttore può incidere efficacemente durante lo svolgimento dell’attività lavorativa, facendo verificare il rispetto delle prescrizioni lavorative contenute nel provvedimento di ammissione.

Se il soggetto ammesso al lavoro viola le prescrizioni viene immediatamente sospeso in via precauzionale dal direttore, la revoca poi compete al magistrato di sorveglianza.

Però ci vuole coraggio! Coraggio consapevole!

A Lodi la media dei detenuti in esecuzione di pena definitiva era di circa 40 unità, io sono riuscito ad ammetterne al lavoro esterno fino a 10 unità, cioè il 25%, una percentuale rimasta imbattuta.

Non bastasse questo dinamismo, ho ammesso al lavoro esterno un ‘sex offender’ e un ‘pedofilo’, che hanno finito di scontare la pena senza inconvenientie non risultano ricadute.

Anzi, il ‘sex offender’ (reo confesso) si è sposato, vive a lavora a Lodi.

Devo spiegare.

Il ‘pedofilo’. La lettura della sentenza di primo grado (di assoluzione) mi convinse che era stato condannato in appello ingiustamente in base a prove meramente indiziarie raccolte senza le garanzie di legge, prove che furono ritenute invalide dal giudice di primo grado, valide da quello d’appello.

Devo rimarcare che non vi fu nessun soccorso né dall’amministrazione centrale né dal quella periferica. Fummo lasciati in assoluta solitudine, che ormai me a dire il vero non dispiaceva affatto.

Dopo il mio pensionamento la sezione speciale fu soppressa: era entrato in funzione il carcere megagalattico di Bollate!

Lì sono state profuse risorse economiche e di personale in abbondanza.

È stato anche detto e scritto, scorrettamente, che lì era ed è in atto il primo esperimento di trattamento di questa peculiare specie di detenuti, con metodologie non dissimili da quelle usate a Lodi.

Fa specie che non sia conosciuti da quegli specialisti il lavoro di Pier Luigi Morini “La cura dell’orco” – Sapere edizioni - Quaderni di Criminologia Clinica – 2001.

A suo tempo ne feci questa recensione, pubblicata su Diritto&Giustizia, quaderno n. 4 del 28 gennaio 2006 n. 128.

LA CURA DELL’ORCO

di Pierluigi Morini *

recensione di Luigi Morsello **

La casa circondariale di Lodi, nella realtà delle strutture penitenziarie dislocate sul territorio nazionale, è una piccola realtà che trova ospitalità in un edificio realizzato come carcere nell’anno 1905 e di recente ristrutturato, posto nel centro cittadino.

Le sue ridotte dimensioni, la sua capienza per un numero di posti letto variabile, da 60 ad 80 unità, la relativa tranquillità dell’ambiente sia sotto il profilo dei soggetti detenuti che del personale di polizia penitenziaria, consigliarono agli inizi dell’anno 1996 di riservare una delle tre sezioni ad ospitare soggetti detenuti resisi responsabili di reati di una particolare natura, i reati a sfondo sessuale, in un previsto regime di assoluta separatezza dagli altri detenuti.

Va detto che in altri istituti di pena la presenza di questa tipologia di soggetti detenuti aveva creato non pochi problemi di ordine e sicurezza, anche interni alle sezioni stesse in cui tali soggetti detenuti erano ospitati.

Contestualmente all’attivazione della sezione riservata ai c.d. “sex offenders” si provvedeva anche al reperimento di una attività lavorativa ad essi destinata, gestita da una cooperativa dal nome suggestivo (SPES), attività lavorativa consistente nella archiviazione computerizzata delle ricette per conto della sanità regionale.

È in questo contesto che l’Autore, giovane e brillante psicologo con una pregressa esperienza di lavoro in una comunità di recupero per tossicodipendenti, proponeva di attivare un “Progetto di intervento terapeutico rivolto a soggetti condannati per reati a sfondo sessuale”.

La proposta venne accolta dall’Amministrazione penitenziaria, il progetto iniziò ad essere applicato nel novembre 1996.

Nell’anno 2001 l’A. raccoglieva le proprie esperienze in un volume dal titolo anch’esso suggestivo: “La cura dell’orco”, che reca in copertina la riproduzione di un dipinto di sua proprietà, di Antonio Capovilla del 1996 intitolato “La Giustizia”, e pubblica il proprio lavoro ne “I Quaderni di Criminologia Clinica”, collana diretta dal prof. Ivano Spano della facoltà di psicologia dell’università di Padova e per i tipi della Edizioni Sapere - 2001 - Padova.

Superato lo ‘scoglio’ dell’introduzione e relativi ringraziamenti, l’A. dà la definizione dei problemi connessi al trattamento dei soggetti condannati per reati a sfondo sessuale, mostrando di possedere una consapevolezza, una approfondita lucida comprensione del mondo penitenziario. Dopo avere rimarcato la tendenza ad una progressiva espansione del fenomeno (300 i detenuti nelle sole carceri lombarde nell’anno 2001), egli afferma che i “sex offenders” sono etichettati non solo dalla società ma anche, se non di più, dai detenuti e che, per quanto paradossale ciò possa sembrare ed essere, sono essi stessi a condividere le rappresentazioni sociali e le relative argomentazioni, che li riguardano. Sia la società che gli altri detenuti li vedono come “mostri” e per ciò stesso se ne traggono sentimenti consolatori che li fa sentire come un po’ più ”normali”. Soccorre in ciò l’esperienza che l’A. ha consolidato con i soggetti tossicodipendenti, i quali dal loro “status” di malati traggono giustificazione ed auto-giustificazione per i reati commessi.

Tutto ciò non si verifica per i “mostri”.

L’A. così descrive il clima sociale, anche interno alle carceri: ”Chi si macchia di reati a sfondo sessuale incarna e rappresenta l’aberrazione umana. Come tale non ha possibilità di far ricorso ad alcuna seppur generica operazione difensiva. Non è un malato e non ha onore. Ciò a cui ha diritto, che si merita soltanto, è il confinamento al girone più periferico della marginalità. Restano quali estreme difese una ostinata negazione (sul fronte esterno) accompagnata da una continua tensione a rimuovere le vicende che hanno portato al reato (sul fronte interno)”.

Ed, ancora, così definisce le finalità dell’intervento: “promuovere un processori modificazione degli atteggiamenti che sono di ostacolo ad una costruttiva partecipazione sociale”. Ed ancora: “Il carattere dell’intervento non è impositivo ed è reso esplicito che esso è anche completamente svincolato da qualsiasi riferimento alle misure premiali ed alle misure alternative alla pena.”. Né poteva essere diversamente, un taglio meno rigoroso avrebbe potuto inquinare il progetto, molto ambizioso, nella sua esecuzione pratica.

Quindi, l’A. illustra la sua metodologia, che ripartisce in varie fasi.

La prima fase è di contatto con il soggetto detenuto, di formulazione di una diagnosi psicologica e di una sua presa in carico. L’A. fa ricorso anche a ‘tests’ psicologici, se necessario e se giustificato dal detenuto (sono due le componenti della decisone di usare i “tests”, la loro necessarietà od opportunità valutata dall’esperto – l’autore - e la condivisione del detenuto). Quindi, il soggetto detenuto viene gradualmente introdotto nel gruppo formato da altri soggetti detenuti, nel cui interno si sviluppano dinamiche di confronti reciproci, modulate dalla presenza dell’esperto e basate sul rispetto delle regole che il gruppo stesso si è dato. Dal gruppo si può uscire in qualsiasi momento ed in questo caso l’esperienza si intende conclusa.

La seconda fase sostanzia il lavoro di trattamento analitico del gruppo, sulla base di vari punti cardine, cioè le regole cui si accennava sopra.

Le valutazioni conclusive del progetto seguono a momenti di valutazione ‘in itinere’ dei singoli casi. Il primo momento di valutazione avviene nel contesto del gruppo. Infine, i risultati sono messi a disposizione del Gruppo di Osservazione e Trattamento del carcere.

L’A. auspicava iniziative di formazione del personale, coinvolgenti tutte le professionalità interagenti nelle carceri. Tali iniziative sono state formalmente adottate, ma l’A. non ne ha fatto parte, in pratica ne è stato escluso, per motivi facilmente intuibili (di natura economica e di gelosia professionale).

Ciò non può non essere considerato un danno grave ed irreparabile, perchè era l’unico operatore che poteva vantare diversi anni di esperienza sul campo.

L’opera che si sta tentando di recensire, con forti dubbi di avere anche solo lontanamente fatto comprendere l’importanza sia del lavoro fatto che dell’opera in cui è stato raccolto, costituisce l’unico esempio italiano di ‘aggressione’ al problema dei “sex offenders” detenuti.

Sul campo si ha notizia di due altri esperimenti in altrettante carceri, ma non dei loro risultati.

Certo è che l’esperimento del carcere di Lodi ha avuto il pregio di far emergere il problema, mai in precedenza affrontato in Italia sotto il profilo terapeutico, dando inizio prima ad una ricognizione del problema stesso, il progetto c.d. “FOR W.O.L.F.” (Working On Lessening Fear) al quale l’A. veniva invitato a partecipare e quindi alla elaborazione di un progetto di formazione, denominato ”progetto Chirone”, del quale l’A. non veniva invitato a far parte.

Tuttavia, l’esperienza lodigiana dava risultati concreti, per i quali diversi detenuti “sex offenders” sono stati ammessi al lavoro all’esterno, liberi nella persona, ed hanno partecipato, assieme agli altri detenuti (unico esempio di integrazione) alla redazione di un mensile interno di informazione e cultura, che gli interessati chiamavano “UOMINI LIBERI” e che trovava ospitalità ogni mese nel quotidiano IL CITTADINO di Lodi, oltre ad essere distribuito, gratuitamente, in versione patinata.

Ed ancora, la stessa è stata oggetto di tesi di laurea di Elena Zeni , studentessa lodigiana della facoltà di giurisprudenza dell’Università degli Studi di Milano, dal titolo rigoroso “Il trattamento penitenziario dei condannati per violenza sessuale”.

L’esperienza lodigiana è purtroppo conclusa.

Ne resta preziosa testimonianza l’opera che si è tentato di recensire.

* psicologo, consulente anche per S. Vittore, uno dei fondatori dell’Osservatorio Regionale Autori di Reati a Sfondo Sessuale presso il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria di Milano, referente regionale del Coordinamento Nazionale Psicologi Penitenziari, docente presso la facoltà di Psicologia dell’Università di Padova e presso l’Università Europea Jean Monnet di Bruxelles

** Ispettore generale dell’Amministrazione penitenziaria

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