lunedì 31 maggio 2010

Fini e i “suoi” si giocano il futuro in sette giorni



di Paolo Flores d’Arcais

Cosa faranno i “finiani” da grandi, cioè nei prossimi giorni, quando si tratterà di approvare o bocciare la legge-golpe contro le libertà e la sicurezza degli italiani?

L’onorevole Italo Bocchino, il ventriloquo più accreditato del presidente della Camera, e l’onorevole Augello, in odore di “più malleabile”, hanno manifestato soddisfazione dopo l’incontro con i pasdaran del Caimano, Alfano e Ghedini.

L’accordo infatti sarebbe stato raggiunto (nel mondo di Arcore il condizionale è obbligatorio) sulle seguenti modifiche: per i giornalisti che pubblicano intercettazioni (legali) solo (sic!) un mese di carcere, e anzi il diritto a pubblicarne riassunti (“quanto è buono Lei…”), e per gli editori ridotta la multa minima da 64 mila euro a 25 mila e quella massima da 465 mila a 300 mila.

Nulla di nuovo per i magistrati, invece, che alle intercettazioni efficaci per le indagini in sostanza dovranno rinunciare, come dichiara perfino un magistrato misuratissimo quale il segretario dell’Anm Giuseppe Cascini. Con l’aggravante, anzi, dell’efficacia retroattiva, attraverso l’azzeccagarbuglio di una norma transitoria che secondo un altro magistrato misuratissimo, il presidente dell’Anm Luca Palamara, provocherà “un vero sterminio tra le inchieste in corso”.

La tattica di Berlusconi è fin troppo smaccata: dividere i giornalisti dai magistrati, qualche contentino ai primi e giro di vite senza pietà sui secondi. Come se la posta in gioco fossero i diritti (per B. disgustosi privilegi) di magistrati e giornalisti, anziché le libertà e la sicurezza dei cittadini. Libertà di essere informati, di non essere ridotti al black out sistematico sui fatti, come i sudditi del fascio o della nomenklatura brezneviana, e sicurezza che crollerebbe, con criminali di ogni risma cui la libertà dalle intercettazioni sarebbe vera manna di impunità e incentivo al delitto.

Per l’accoppiata Bocchino-Augello questo secondo aspetto della legge-golpe non sembra un problema, la parte su intercettazioni e magistrati va bene così. Ma così, cricche e stupratori, mafiosi e grassatori, sorridono e ringraziano. E infatti l’onorevole Granata, diversamente finiano, promette un altolà, magari alla Camera, proprio su questa seconda parte, sul “tana libera tutti” che suonerebbe per i delinquenti l’invereconda quantità di lacci e lacciuoli posti alla possibilità di efficaci “pedinamenti ” tecnologicamente aggiornati.

Qui non si tratta ovviamente di dedicarsi a ridicole sottigliezze politologiche sulle diverse “anime” della già troppo circoscritta “fronda” finiana. Ma chiunque capisce che la questione è di fondo: se davvero la scelta di Fini è ben rappresentata dalla soddisfazione querula e insopportabilmente pimpante con cui l’onorevole Bocchino ha difeso ad “Anno zero” tutte le nefandezze ammazza-indagini della legge-golpe (neanche Ghedini avrebbe saputo fare di meglio – cioè di peggio, s’intende), anziché dalle perplessità e conseguenti altolà (sperando che non arrivino precisazioni a “passo del gambero”) dell’onorevole Granata, non si tratterà di una qualsiasi contingente preferenza del presidente della Camera per uno o l’altro dei suoi “bracci destri”. Si tratterà di un’ipoteca sulla scelta esistenziale ed etica, e dunque più che mai politica, che su questi temi l’onorevole Fini alla fine dovrà fare, come tutti gli italiani del resto, tra due modelli nei rapporti tra eroismo e mafia: quello di Paolo Borsellino e quello di Vittorio Mangano. Su questi temi, infatti, “tertium non datur”, perché la zona grigia di una mancata scelta radicale, quali che siano gli argomenti addotti e la buonafede di chi li enuncia, ha sempre fatto comodo a mafie sempre meno solo kalasnikov e sempre più sofisticatamente intrecciate con attività finanziarie, cricche di appalti e ponziopilatismi della politica.

Sappiamo quale sia stata la scelta di Berlusconi. Coerente in ogni sua manifestazione, sia verbale che fattuale. Di Fini conosciamo quelle verbali, anche reiterate, che in politica però – se politica seria – contano zero. A partire da lunedì, quando la legge-golpe pro-crimine e contro le indagini sarà discussa e votata in aula al Senato, sapremo anche la sua scelta fattuale, che darà l’imprinting morale e il marchio politico al suo futuro e alla sua credibilità.

COSÌ VINCE IL CRIMINE



Il segretario dell’Anm: “Non bastano 75 giorni per i reati gravi”. Sul G8 sono serviti due anni

di Antonella Mascali

Quando una legge è da buttare non c’è toppa che tenga. Anzi peggiora le cose. E’ così per il ddl anti-intercettazioni. Pregiudicava le indagini e la libertà di informazione quando è stato approvato alla Camera, l’anno scorso, le mette all’angolo anche adesso. Con le modifiche della commissione Giustizia e con quelle introdotte dagli 11 emendamenti Pdl-Lega, in vista del voto in Aula. Sì, per gli editori c’è uno sconticino sulle maxi-multe. Sì, per i giornalisti c’è la mancia della pubblicazione per “riassunto” (formula insidiosa) degli atti depositati. Ma resta il divieto di pubblicare le intercettazioni, comprese quelle già note. Anche per anni, fino alla conclusione dell’udienza preliminare, perché la legge è retroattiva. Spariscono così dai giornali le intercettazioni sulla cricca, sulle pressioni di Berlusconi all’Agcom contro Annozero, su Calciopoli, per fare solo alcuni esempi clamorosi.

Intatte le norme che rendono ardue le intercettazioni telefoniche e ambientali. Inoltre, con l’ampliamento della norma transitoria la maggioranza ha reso i pm dei birilli, che un indagato può abbattere quando vuole: basterà una denuncia per supposta fuga di notizie contro un magistrato perché gli venga sottratta un’indagine. Il segretario nazionale dell’Anm, Giuseppe Cascini analizza gli effetti di questa legge, a partire dal tetto massimo di durata delle intercettazioni che non può oltrepassare i 75 giorni. Anche per le indagini in corso. Un periodo ampiamente superato da inchieste come quella sugli appalti del G8 (due anni), sui furbetti del quartierino, sulla clinica Santa Rita (undici mesi), per citare le più recenti.

“Consentire le intercettazioni telefoniche e ambientali per 60 giorni e in via del tutto eccezionale per 75, significa rendere inutilizzabile questo strumento nei casi in cui, la maggior parte, sarebbe assolutamente indispensabile proseguire gli ascolti per individuare i colpevoli di gravi reati. Nessuna vicenda criminale minimamente complessa - prosegue Cascini - può ragionevolmente esaurirsi in un tempo così breve”.

Un esempio?

Pensiamo a un’indagine per corruzione. È ovvio che il tempo necessario per acquisire elementi di prova coinvolge la fase di accordo tra il pubblico ufficiale e il corruttore, quella che conduce al favore del corrotto al corruttore: cioè il conferimento di un appalto, l’attribuzione di una consulenza o quant’altro e quella in cui avviene il pagamento della tangente. Non è pensabile che tutte queste fasi si concludano in due mesi. Altra ipotesi: c’è un’inchiesta per sequestro di persona a scopo di violenza sessuale, si individua l’utenza del rapitore ma non si riesce a scoprire il nascondiglio. É ragionevole dire che scaduti i 60 giorni devo smettere di cercare l’ostaggio?

Ha però altri 15 giorni.

E scaduti quelli cosa diciamo ai familiari dell’ostaggio, che dobbiamo risparmiare soldi sulle intercettazioni? O che la privacy è più importante? Altro esempio: stiamo facendo intercettazioni per traffico di droga e al 74esimo giorno, sempre che ci siamo riusciti ad arrivare, con le clausole capestro della legge, il trafficante dice all’altro: la consegna è fra una settimana, ti richiamo per farti sapere il posto e l’ora. É evidente che se le intercettazioni continuano, sequestriamo gli stupefacenti, eseguiamo gli arresti. Invece con la nuova legge dobbiamo cessare le intercettazioni. E questo ragionamento vale anche per le indagini sul traffico di armi, sull’usura e racket, sul riciclaggio, indagini da cui spesso partono le inchieste di mafia. Quindi sarà più difficile perseguire i mafiosi. Ma è logica una legge del genere?

Un altro punto del ddl che voi magistrati contestate, riguarda le condizioni per effettuare le ambientali. Ci potranno essere solo se si dimostra che in un determinato luogo si stia commettendo un crimine. Quali le conseguenze sulle indagini?

Torno all’esempio del sequestro per stupro. Abbiamo arrestato uno dei due complici e vogliamo sapere dove si trova l’ostaggio. Uno dei modi per scoprirlo è piazzare una cimice nella sala colloqui del carcere, sperando che l’arrestato dica a un familiare dove si trova la vittima. Con la nuova legge non si può fare l’ambientale perché il reato c’è, ma si sta consumando altrove. Secondo il legislatore la privacy è più importante e non possiamo impedire un reato del genere. Non possiamo mettere i registratori neppure nelle macchine o nei bar. Luoghi dove spesso avvengono accordi corruttivi. Nessuno oggi parla di mazzette al telefono.

La maggioranza dice che questo limite serve per evitare il “grande fratello”.

Non si può mettere sullo stesso piano il divieto, che c’è anche adesso, di mettere una cimice in una casa privata, con il divieto che si vuole introdurre per i luoghi pubblici.

Poi c’è la possibilità per un indagato di ottenere l’astensione del pm con una denuncia?

È uno dei più gravi ostacoli alla possibilità di svolgere indagini, si riduce la loro efficacia. Inoltre, è una delle norme più irrazionali perché l’iscrizione nel registro degli indagati non significa nulla in termini di responsabilità: può essere un atto dovuto.

Altra nota dolente: non sarà più il gip ma il Tribunale distrettuale a dover autorizzare le intercettazioni.

Immagini 100 faldoni avanti e indietro ogni 2 giorni da Ivrea a Torino o da Termini Imerese a Palermo. Gli uffici, già in difficoltà, saranno nel caos. Si creano così le condizioni per non arrivare a processo e per mettere in ginocchio la già disastrata macchina della giustizia.

I sostenitori della legge dicono che abusate delle intercettazioni.

Falso. I numeri ufficiali del ministero della giustizia parlano di 130 mila decreti di intercettazioni all’anno, in riferimento alle utenze sotto controllo. Ma se parliamo di persone fisiche, le stime ci dicono che non superano le 50 mila all’anno, su 70 milioni di abitanti. Inoltre l’80% delle intercettazioni riguarda reati di mafia. Quindi mi sembra evidente che parlare di eccesso è una grande bugia.

Cosa farà l’Anm, dato che è contraria al ddl?

Continueremo a informare l’opinione pubblica sugli effetti negativi che comporta.

Secondo lei perché la maggioranza vuole questa legge?

La ragione ufficiale è quella di garantire la privacy dei cittadini. L’effetto oggettivo è quello di ridurre la sicurezza dei cittadini e la libertà di informazione.

Fatti e non ipotesi


di Antonio Padellaro

Qualcuno osserva: che senso ha continuare a sostenere che dietro le stragi del ‘92, che all’origine della morte di Falcone e Borsellino ci furono molto probabilmente pezzi dello Stato che appaltarono a Cosa Nostra il lavoro sporco, quando dopo anni di indagini quel sospetto rimane tale?

Qualcuno aggiunge: a cosa serve rievocare gli attentati del ‘93, metterli in relazione alla nascita della famosa “entità esterna” (un modo per dire Forza Italia senza dirlo) se poi la prova provata del diabolico intreccio ancora non c’è? E poi, perché riesumare vicende così complesse, nebulose e lontane quando ormai sono trascorsi quasi vent’anni dagli accadimenti?

Sono interrogativi da non sottovalutare nel momento in cui il dovere della memoria e della ricerca incessante della verità si scontra con la stanchezza di un Paese sfibrato, che da tempo immemorabile ascolta una storia che ritorna sempre al punto di partenza.

Chi ha messo le bombe a Piazza Fontana? Interessa a qualcuno che a Brescia l’ennesimo processo cerchi i colpevoli dell’attentato di Piazza della Loggia, un secolo fa? Chi manovrò gli assassini di Moro? Chi erano i burattinai della Banda della Magliana? Chi ha rapito Emanuela Orlandi? Chi ha ucciso il banchiere Calvi? La P2? Il Vaticano? La mafia? Chi ha abbattuto il DC-9 dell’Itavia? I francesi? La Libia? Chi ha fatto saltare in aria la Stazione di Bologna? I fascisti? I palestinesi?

Provate a sciogliere i fili di questo gomitolo impazzito con un ragazzo di vent’anni. Non capirà nulla se non che, dietro il fondale di una democrazia troppo spesso solo apparente, è successo di tutto. E che di questo tutto non sappiamo quasi niente. Perché a parte decine di processi inutili, anche noi giornalisti ci abbiamo messo del nostro. Spesso affastellando falsi scoop con presunte rivelazioni.

Operazione notte e nebbia: così la chiamano gli specialisti addetti a confondere l’informazione. Naturalmente, se si vuole estirpare la metastasi, la ricerca va continuata. Basandosi sui fatti e non sulle ipotesi. Sulle notizie e non sui sospetti. Esattamente il lavoro che hanno fatto Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza nel libro: “L’Agenda nera della Seconda Repubblica”. Mettendo insieme i pezzi del mosaico che erano sotto gli occhi di tutti. E che qualcuno scopre solo ora.

Sulla stessa banda


di Marco Travaglio

La marea marron che sommerge l’Italia da 16 anni non accenna a fermarsi: falliti anche gli ultimi tentativi di bloccare la falla a Palazzo Chigi da cui fuoriesce il liquame maleodorante pompato dalla compagnia Pdl, negli ultimi giorni si sono registrate altre due puzzolentissime leggi ad personam, la trentanovesima e la quarantesima dell’Era Berlusconiana. Che però, confuse nell’immensa chiazza scura, sono passate praticamente inosservate agli occhi di tutti, eccezion fatta per alcuni specialisti che le hanno notate, peraltro inascoltati.

La prima (anzi, la trentanovesima), segnalata ieri da Giovanni Valentini su Repubblica, è la mancetta di 20 milioni elargita dal governo delle tre I (Impresa, Istruzione e Internet) ai giovani internettiani per lo sviluppo (si fa per dire) della banda larga o larghissima.

Il governo Prodi ne aveva stanziati 900 di milioni ed era stato irriso dal centrodestra perché erano troppo pochi: per lo sviluppo della banda larga o larghissima occorrono almeno 3 miliardi.

Soldi buttati in un momento di crisi? No, un investimento strategico per uscire dalla crisi: secondo il presidente Agcom Corrado Calabrò, lo sviluppo della banda larga “può accrescere il Pil dell’1,5-2 per cento”, facendo da volàno – spiega Valentini – “alla produzione, all’occupazione, al commercio, ai consumi, a tutta l’economia e in particolare a quella meridionale”. Spendi 1 incassi 100.

Perché allora il governo risparmia sulla banda larga? Lo sviluppo della tv via Internet minaccia il monopolio di quella via etere, di cui Mediaset rappresenta quasi il 50 per cento in termini di ascolti e oltre il 60 in termini di pubblicità.

“Nel contempo – nota Valentini – lo Stato italiano rinuncia a incassare oltre 3 miliardi di euro, escludendo l’asta competitiva tra gli operatori di Tlc sulle nuove frequenze del digitale terrestre, come ha fatto per esempio la Germania, per regalarle alle emittenti televisive nazionali e locali, tra cui quelle del premier”, che “pagano un canone d’uso irrisorio pari all’1% del fatturato”.

E meno male che B. ripete, a proposito dei sacrifici da 25 miliardi imposti dalla manovra, che “siamo tutti sulla stessa barca” (il nuovo yacht di Pier Silvio).

La seconda legge ad personam dell’ultima settimana (la quarantesima in 16 anni fatta da B. per B.) è la salva-Mondadori. Ci aveva già provato a fine anno con la Finanziaria e poi col decreto Milleproroghe, ma era mancato il tempo. Ora l’ha fatta infilare nel decreto Incentivi 40/2010 (comicamente intitolato “Disposizioni urgenti tributarie e finanziarie in materia di contrasto alle frodi fiscali”), primo firmatario Alessandro Pagano del Pdl, che nel suo sito l’ha definito “mini-condono”. Mini un corno. Prevede che, in caso di due giudizi favorevoli consecutivi, “le controversie tributarie pendenti innanzi alla Cassazione possono essere estinte con il pagamento di un importo pari al 5% del valore della controversia... e contestuale alla rinuncia a ogni eventuale pretesa di equa riparazione”.

Che c’è dietro? Semplice. La Mondadori, scippata nel 1990 da B. a De Benedetti grazie a una sentenza comprata, s’è vista contestare dall’Agenzia delle Entrate un’evasione Irpef e Ilor da 200 milioni di euro sul 1991. Dopo i primi due gradi di giudizio, vinti da Mondadori, la causa giace da dieci anni in Cassazione (il famoso processo breve) e a fine 2009, quando il presidente della sezione tributaria Enrico Altieri, temutissimo dagli evasori per il suo rigore, stava per decidere, se l’è vista scippare e trasferire alle sezioni unite. Così, in attesa della sentenza, è arrivata la leggina: se fosse condannata, la Mondadori pagherebbe 10 milioni anziché 200 (sempreché la Corte di Lussemburgo non accolga il ricorso per violazione della libera concorrenza annunciato in altre cause dal giudice Altieri). Il tutto per decreto firmato dal presidente della Repubblica e da quello del Consiglio, proprietario (peraltro abusivo) della Mondadori. Dal produttore al consumatore. Anzi, all’utilizzatore finale.

Anna Finocchiaro: «Voi ci aiutate. Al Senato ci batteremo fino in fondo»


di Simone Collini

"Ma quale tutela della privacy. La verità è che vogliono intralciare con ogni mezzo ben precisi processi e impedire ai cittadini di sapere quel che realmente accade. Ora è arrivata la perla finale: le norme si dovrebbero applicare anche alle indagini in corso. Evidentemente c’è qualche posizione da aggiustare, hanno qualche interesse perché alcune indagini in corso finiscano sotto queste tagliole nuove di zecca”. Oggi inizia la discussione in Aula al Senato del disegno di legge di riforma delle intercettazioni, e Anna Finocchiaro si prepara a dar battaglia. “Faremo di tutto per evitare di far approvare questo provvedimento, sarà un’opposizione durissima”, dice la capogruppo dei senatori Pd. Che oggi, prima della seduta a Palazzo Madama, si riuniranno per decidere come sostanziare concretamente questo “di tutto”. Magari fino all’occupazione dell’aula. “Lo vedremo insieme, io non ho mai preso una decisione da sola, e questo i miei senatori lo sanno bene”, dice Finocchiaro. Che però aggiunge anche: “Siamo di fronte a un provvedimento estremamente grave. Spero ce ne sia piena consapevolezza”.

Dice che gli emendamenti della maggioranza non hanno migliorato il testo?

«C’è stato qualche aggiustamento, ma l’intervento è comunque insoddisfacente. Tra l’altro, se la maggioranza si fosse risparmiata prima certi emendamenti concordati col governo e avesse mantenuto il vecchio testo uscito dalla Camera, avremmo risparmiato tempo».

Questo per dire cosa?

«Che la responsabilità del ritardo è tutta della maggioranza e del governo. Non si sognassero di dire che sono costretti a mettere la fiducia perché l’ostruzionismo dell’opposizione allungherebbe i tempi. Hanno fatto un balletto indecoroso, prima modificando il testo originario e poi rimangiandosi tutto. Il ricorso alla fiducia sarebbe ancora più illogico. Oltreché grave, vista la follia di questo provvedimento».

Follia?

«Sì, perché sostengono che con questo provvedimento si vuole mantenere segreto il contenuto delle intercettazioni e poi stabiliscono che l’autorizzazione a intercettare deve essere rilasciata dal tribunale del capoluogo del distretto».

E allora?

«E allora immaginiamo queste carte che partono per il capoluogo del distretto, che tra l’altro verrà oberato di richieste da tutte le procure, per poi tornare indietro, un va e vieni continuo, perché lo stesso procedimento sarà necessario anche per le proroghe. Quante altre persone oltre a quelle delle procure verranno a conoscenza del fatto che si sta procedendo a intercettazioni telefoniche? Quante altre occasioni di fuga di notizie?».

L’opposizione contesta anche il fatto che le nuove norme si applicherebbero anche alle indagini in corso, ma la maggioranza risponde che il Quirinale ha sottolineato il rischio che in caso contrario si creerebbe una disparità di trattamento.

«Non si azzardino a scaricare sul Quirinale loro precise responsabilità. La verità è che c’è qualche posizione da aggiustare, hanno qualche interesse perché certe indagini in corso subiscano queste tagliole».

Lei dice tagliole, il centrodestra dice tutela della privacy e limiti all’abuso dello strumento.

«Non è così. Il problema della tutela della privacy c’è. Noi stessi abbiamo presentato a inizio legislatura due testi che mirano a creare un archivio riservato e ad evitare la pubblicazione di intercettazioni non rilevanti. Se fosse stato questo il punto, avremmo trovato subito un accordo. Ma loro, dietro questo paravento della privacy puntano in realtà a un sistema che limita la possibilità stessa di intercettare, limando le unghie agli investigatori. Tant’è vero che protestano anche i funzionari di polizia, oltre che i magistrati e il procuratore antimafia. Vogliono rendere il più difficile possibile le intercettazioni telefoniche, rendere più complicato indagare su certi reati, intralciare con ogni mezzo ben precisi processi. E puntano a introdurre un vero e proprio sistema di censura preventiva. Con, tra l’altro, questa perla che si puniscono gli editori. In molti casi si tratta di società, e allora cosa c’entra la responsabilità penale? Il direttore può avere colpa per non aver vigilato su ciò che viene pubblicato sul suo giornale. Ma sulla base di quale profilo viene punito l’editore? Se si incaricano di esercitare una vigilanza, gli editori si faranno qualche calcolo, ed è già chiaro come andrà a finire. Molti giornali piccoli chiuderanno e in quelli che non chiuderanno gli editori eserciteranno un controllo di censura che si sovrapporrà a quello stabilito da questo provvedimento».

Di fronte a tutto questo, che cosa farà il Pd?

«Il proprio dovere, fino in fondo, come abbiamo fatto finora in commissione».

In Aula arriva però un testo che non vi piace.

«E infatti riteniamo che l’insufficienza degli emendamenti approvati e il fatto che ci siano settori della stessa maggioranza che continuano a sollevare perplessità su questo testo obblighino un ritorno in commissione».

E se invece la maggioranza si rifiutasse e spingesse per approvare subito il disegno di legge?

«“L’assemblea dei senatori del Pd deciderà come procedere».

È sempre in campo l’ipotesi di occupare l’Aula?

«Sarebbe un gesto simbolico forte, ma quello che faremo lo decide l’assemblea del gruppo, non la sola capogruppo. Io non ho mai deciso da sola. I miei senatori lo sanno bene. Quel che è certo è che il provvedimento che abbiamo di fronte è estremamente grave. Spero ce ne sia piena consapevolezza».

Nell’opinione pubblica sicuramente, a giudicare dalle manifestazioni e iniziative di disobbedienza civile. Come le giudica?

«Ci danno una gran mano. E il fatto che in questo paese che sembrava narcotizzato si vedano manifestazioni di reazione civile è sicuramente un buon segno».

«Noi diciamo NO disobbediamo», abbiamo scritto in prima pagina annunciando che l’Unità violerà le norme della legge in discussione.

«E’ una forma di protesta molto incisiva. In gioco non c’è solo la libertà dei giornalisti di scrivere ma la libertà dei cittadini di essere informati su quello che accade. Questo è il controllo democratico, che ha sorretto molti passaggi difficili della nostra storia. E non bisogna mai dimenticare che la giustizia è amministrata nel nome del popolo. Che ha il diritto di avere tutte le informazioni per poter correttamente giudicare».

31 maggio 2010

L'eterna attesa della Lega


LUCA RICOLFI

Sono giorni decisivi per il futuro della Lega. A nessun partito italiano, credo, è mai successo di vedere la propria ragion d’essere messa così a rischio. Alla Lega, invece, sta succedendo. Nei prossimi 12 mesi la Lega si gioca tutto. E la manovra di questi giorni è la prima, vera, prova del fuoco.

La ragione è semplice. Negli ultimi 10 anni la Lega è stata sempre al governo, eccetto la breve parentesi dell’esecutivo Prodi, rimasto in sella per meno di due anni. La Lega esiste per far passare il federalismo, ed ha già mancato l’obiettivo una volta, nel 2005, quando provò ad imporlo a colpi di maggioranza, salvo dovervi rinunciare appena un anno dopo, nel 2006, quando il referendum confermativo cancellò quella riforma. In questa legislatura è già riuscita a far passare la legge 42 del 2009, che contiene i principi generali del federalismo, ma è dannatamente indietro su tutto il resto: decreti delegati (c’è solo quello sul federalismo demaniale), riforma dei bilanci pubblici (mancano i decreti delegati), basi di dati aggiornate (siamo fermi al 2008), piani dettagliati di riduzione degli sprechi (manca quasi tutto).

Ora si mette di mezzo anche la manovra di aggiustamento dei conti pubblici, che di federalista sembra contenere ben poco.

Di qui l’imbarazzo della Lega, che non può permettersi un secondo fallimento. Questo imbarazzo, tuttavia, si manifesta in modi molto diversi ai vari livelli dell’organizzazione. I politici che hanno maggiori responsabilità, in particolare ministri e governatori neo-eletti, tentano di rassicurare gli elettori ma sono a corto di argomenti. Quando Calderoli, anziché provare a spiegare in che modo la manovra tutelerebbe le ragioni del Nord, si giustifica dicendo che «la Lega non avrebbe mai potuto votare una manovra economica che potesse in qualche modo mettere a rischio il federalismo», di fatto invoca una delega in bianco, una sorta di fiducia ad occhi chiusi. Posso testimoniare, perché proprio in questi giorni ho avuto occasione di incontrare molti politici e amministratori locali del Nord, spesso appartenenti o vicini alla Lega, che questa fiducia non c’è affatto, e c’è invece molta preoccupazione. Tutti capiscono che i massimi dirigenti della Lega non possono dire in pubblico tutta la verità, ma molti temono che, alla fine, il federalismo non si potrà fare o non funzionerà. Non a caso, negli ultimi giorni, gli unici politici che hanno denunciato in modo chiaro il rischio che il federalismo finisca in un vicolo cieco sono stati i governatori della Lombardia (Formigoni) e dell’Emilia Romagna (Errani), ossia due politici che guidano le regioni più vessate del Paese (secondo le mie stime il loro credito verso le altre regioni è di 40 miliardi di euro l’anno), ma soprattutto due uomini che non si sentono tenuti a «coprire» il governo centrale e la Lega (Formigoni è del Pdl, Errani è del Pd). È paradossale, ma i difensori più risoluti del federalismo stanno diventando i politici non leghisti del Nord, perché solo essi capiscono le buone ragioni della Lega e nello stesso tempo non sentono l’obbligo di difenderne l’operato.

Ma al di là del dramma che molti amministratori locali vivono, è la base leghista che in questo momento vive un passaggio cruciale. Il militante della Lega, è stato osservato da più parti, per diversi aspetti assomiglia al militante comunista dei tempi di Berlinguer. È onesto, appassionato, sacrifica il suo tempo e le sue energie alla causa in cui crede. E, come il militante del vecchio Pci, ha una stella polare, che qui si chiama federalismo, mentre là si chiamava socialismo. C’è una differenza fondamentale, tuttavia, su cui forse i dirigenti della Lega farebbero bene a meditare. I partiti socialisti e comunisti hanno potuto tenere i loro militanti incatenati ai loro sogni per più di un secolo perché, in attesa del «sol dell’avvenire», si erano mostrati capaci di guadagnare ai ceti subordinati una straordinaria sequenza di conquiste, sui diritti sindacali e politici, sull’orario di lavoro, sui salari, sulla previdenza, sulla sanità, sulla salute in fabbrica. Il militante comunista degli Anni 60 e 70 era spesso un idealista, ma nello stesso tempo toccava con mano robusti assaggi di ciò cui aspirava: una società più giusta, in cui il lavoro avesse piena dignità e rispetto.

Il militante leghista è meno fortunato. I suoi obiettivi ultimi non sono poi così diversi da quelli del tipico militante Pci, solo che lui, anziché essere un operaio, spesso è un artigiano, un lavoratore autonomo, una partita Iva, o semplicemente un ex operaio che si è messo in proprio. Anche chi vota Lega sogna una società più giusta, in cui il lavoro, la responsabilità e il sacrificio non siano mortificati ogni giorno. E tuttavia il sogno del simpatizzante della Lega non è né ultraterreno, né lontanissimo nel futuro, ma molto concreto, qualche volta fin troppo. Gli hanno fatto credere che il federalismo (a differenza del socialismo), si può ottenere in pochi anni, e che allora - quando il federalismo sarà realtà - i produttori potranno ritornare in possesso di quello cui hanno diritto, i frutti del loro lavoro saccheggiati dalle tasse e dagli sprechi. Nel frattempo, però, non gli hanno fornito né gloriose conquiste, né robusti premi di consolazione, ma solo una grande promessa, il federalismo come realizzazione di un ideale di giustizia territoriale.

Per questo, ora che il federalismo è in forse, anche il consenso alla Lega e al governo vacilla, come rivelano gli ultimi sondaggi di Renato Mannheimer. Proprio perché finora ha ottenuto ben poco, la pazienza dell’elettore della Lega non può essere (quasi) infinita come lo era quella dei vecchi, eroici, militanti del partito comunista. I leghisti sono persone concrete. Il dubbio è che i loro dirigenti non siano, a loro volta, abbastanza concreti per accorgersene.

Piccolo apologo sul Paese illegale


di MICHELE SERRA

PICCOLA storia di strada - ignobile e istruttiva - come ne succedono tante. Utile per capire, al di fuori delle grandi catalogazioni teoriche, e dell'annoso dibattito politico-istituzionale sull'argomento, quanta distanza separi gli italiani dalla legge, e la legge dagli italiani. Riccione, viale Ceccarini, sabato sera. Quattro ragazzi sui diciotto anni mangiano una pizza in un ristorante e cercano di filarsela senza pagare il conto. Tre ce la fanno, uno viene bloccato dal personale del locale. Che lo gonfia di botte.

Davanti al ristorante si forma un capannello di curiosi. Lo struscio serale consente un fuori programma: il pestaggio di un cliente moroso. Il ragazzo piange, trema, è pieno di sangue, circondato da quattro o cinque giovani signori (del tipo antropologico: palestrato col codino) che gli stanno dando quella che a loro deve sembrare una lezione di vita. Tra i tanti che osservano la scena nessuno interviene. Per fortuna del ragazzo, passa in quel momento davanti al ristorante un gruppo di adulti che, nonostante sia coperto di sangue, lo riconoscono: è il compagno di scuola di un figlio. Intervengono, chiedono che cosa succede, vengono rudemente invitati dal gestore a non impicciarsi, qualche spintone, qualche insulto cerca di dissuaderli. Per fortuna si impicciano, soccorrono il ragazzo, si informano sull'accaduto. Chiedono al gestore perché, invece di pestare a sangue il ragazzo, non abbia chiamato i carabinieri. "I carabinieri non gli fanno niente, noi almeno gli abbiamo dato quello che si meritava".

Gli adulti, nel tentativo di riportare la calma e impedire conseguenze più gravi per il ragazzo, pagano il conto (sessanta euro). Dettaglio quasi esilarante, niente ricevuta fiscale: in compenso il ragazzo riceve un ultimo ceffone da parte del più agitato dei suoi improvvisati secondini. I soccorritori, che descrivono un clima di violenza isterica, fuori controllo, riescono in qualche modo a portare fuori il ragazzo, non senza essersi fatti restituire il suo cellulare, sequestrato. Lo portano a una fontana, gli lavano il sangue, gli tamponano le ferite, lo convincono di telefonare al padre, gli suggeriscono di fare denuncia. Il padre verrà a riprenderlo. Denuncia non verrà fatta.

Il ragazzo l'ho sentito il giorno dopo. Mogio, confuso, forse conscio di avere fatto una fesseria (non pagare il conto non è una divertente bravata da movida, è un reato), sicuramente non conscio di essere stato vittima di un reato molto più grave, sequestrato, pestato, "punito" al di fuori di qualunque legge, compresa quella del buon senso. Ma chi ignora i propri doveri ignora anche i propri diritti. Di qui in poi, quel ragazzo penserà che il più grosso, o quello che corre più veloce, o il meglio accompagnato (in gruppo si mena meglio) ha sempre ragione.

La morale non è neanche una morale: è il desolato computo di una somma di comportamenti totalmente fuori dalle righe e fuori dalla legge. Nel clima eccitato della movida, non pagare il conto deve sembrare una bravata spiritosa: invece è un reato. I reati andrebbero denunciati (oppure, se si ha cervello, sanati con una mediazione privata: ragazzino, dì a tuo padre di venire subito qui a pagare il conto oppure ti denunciamo). Spaccare la faccia a un ragazzino isolato e indifeso è una porcheria in termini umani, e un reato ben più pesante che cercare di andarsene senza pagare quattro pizze. Ciliegina sulla torta, il conto incassato senza ombra di ricevuta: costume nazionale, è noto, ma che al termine di un episodio del genere suona come piccolo sfregio conclusivo. La stecca finale di un concertino disastroso.

Neanche l'ombra della legge, in tutto questo: e non in Aspromonte, ma in viale Ceccarini. Nella mezz'ora di parapiglia non si è visto un poliziotto o un vigile che cercasse di riportare l'ordine e la ragione: ma questo può essere solo uno sfortunato caso, essendo impensabile che nel cuore della più vivace e popolosa delle "movide" romagnole, con tutto l'alcol (e il resto) che gira, non sia previsto qualche presidio delle forze dell'ordine. Ma il peggio è che a nessuno dei protagonisti è balenato il sospetto che per stabilire le ragioni e i torti, per punire, per risarcire i danni, ogni via fuori dalla legge è fuorilegge. Debole o forte che sia, opaca o chiarificatrice, la legge esiste apposta per evitare che un cliente moroso possa farla franca, e che un ristoratore manesco rischi di provocargli lesioni permanenti, o peggio, per sessanta euro. E per giunta non tassati.

(31 maggio 2010)

Legge bavaglio la posta in gioco


di ANDREA MANZELLA

Sarebbe facile cogliere ed eliminare il punto più debole del progetto di legge sulle intercettazioni, in poco onorevole transito tra Senato e Camera. È nella stramba idea di creare fra segreto istruttorio e pubblicità del processo una terza via: il pubblico-non-pubblicabile. Una marmellata: in cui giudici, imputati, parti civili, pubblici ministeri, cancellieri, poliziotti (insomma i soggetti delle indagini e del processo penale) vengono mescolati con giornalisti, direttori, editori (tutta gente che con il processo non ha nulla a che fare: salvo il diritto-dovere di informare).

Insomma, nella Costituzione e nel codice di procedura penale c'è una distinzione assai netta. C'è il tempo della segretezza: che copre le indagini preliminari e lo stesso avviso di garanzia. E c'è il tempo della trasparenza: esso arriva con la "discovery", cioè quando gli atti dell'indagine e, in particolare il testo delle intercettazioni, devono essere messi a disposizione dell'indagato per l'esercizio del suo diritto di difesa. E' pensabile che in questi due momenti, quando si devono mettere tutte le carte sul tavolo e tutte le parti del processo ne vengono a conoscenza (e ne possono avere copia), solo i media siano costretti ad un innaturale silenzio?

Certo c'è un problema: le intercettazioni indirette, cioè quelle che riguardano persone e fatti all'apparenza del tutto inutili ed estranei alle necessità dell'indagine, ma pur contenute negli atti che il pubblico ministero ha comunque l'obbligo di scoprire interamente per consentirne la valutazione da parte del giudice e, soprattutto, della difesa. Come tutelare l'inviolabilità costituzionale del segreto di queste comunicazioni casualmente intercettate?

Vi è una lacuna nelle leggi attuali. Ed è a questo punto che si inserisce la ragionevole proposta di una udienza, sempre in regime segreto, prima della pubblicazione degli atti. In essa il giudice del processo, sentita l'accusa e la difesa, dovrebbe ordinare lo "stralcio" e la distruzione di tutto quello che non c'entra con i fatti per cui si procede (con ovvie sanzioni penali per chiunque le divulghi). Un rimedio assai semplice e molto più sicuro della incredibile zona grigia del pubblico-non-pubblicabile e dello stesso improbabile obbligo-di-riassunto per i media.

Ma c'è una sconsiderata resistenza ad accettare questo percorso di garanzia, che è quello di rimettere alla responsabilità del giudice il rigido confine tra la fase del silenzio e quella della pubblicità. E si vuole a viva forza coinvolgere la responsabilità di giornalisti, direttori, editori, nella gelatina del pubblico-non-pubblicabile: la responsabilità di farsi censori di se stessi, amputandosi il diritto di cronaca giudiziaria.

Ma se così è, allora, come nelle valigie dei malfattori, il progetto ha un doppio fondo. Quello visibile è dato dalla privacy, dal diritto di non essere spiati, dal rispetto della "vita degli altri". Tutti beni costituzionali che devono essere tutelati (e, come si è visto, possono esserlo, procedendo nella logica del "giusto processo"). Ma qui servono come coperchio a quello che c'è nell'altro fondo. C'è una resa dei conti con i media: sconvolgendone le linee interne di responsabilità e di garanzia; negandogli il diritto di mettere in comunicazione quello che è pubblico nella sfera del processo con la sfera pubblica della cittadinanza. E c'è alla fine di una storia che comprende tutti gli altri buchi neri del progetto (e gli aggravamenti al Senato li hanno resi ancora più visibili e civicamente scandalosi) anche il tentativo di "devitalizzare" le intercettazioni come strumento di indagine giudiziaria.

Il messaggio complessivo che passa è che la lotta al crimine in Italia, terra di molte mafie e di molte corruzioni, sarà indebolita. Perché non potrà contare sull'appoggio di una opinione pubblica informata (e allarmata).

E questa è una questione non negoziabile. I ribassi di pene per non-reati, cioè per la libertà giornalistica di informare su atti non più segreti, non servono a cancellare il non senso strutturale dell'intero progetto

L'ha capito benissimo quel signor Lanny Breuer, capo degli affari penali del Dipartimento americano della giustizia, venuto da noi a commemorare i giudici Falcone e Borsellino. Ha fatto peccato (diplomatico) a pensar male della legge-bavaglio: ma ci ha indovinato. Ha capito, cioè, che la questione non era di diritto interno italiano, ma di diritto costituzionale internazionale. Quello che ancora si basa sulle quattro libertà proclamate dal Presidente Roosevelt il 7 gennaio 1941, contro il "nuovo ordine della tirannia": libertà di espressione, libertà di religione, libertà dal bisogno, libertà dalla paura. E la Freedom of Speech, veniva prima delle altre. Perfino quando era stampata sul retro delle AM-lire, l'Allied Military Currency, la moneta di guerra messa in circolazione nei territori liberati. Quando il Duce era dall'altra parte.

(30 maggio 2010)

Stesso processo, ma regole diverse "Norma transitoria incostituzionale"


In queste ore la passano ai "raggi x" i finiani e il Quirinale. Perché potrebbe nascondere, nella sua irragionevolezza, la pecca d'incostituzionalità più smaccata nella riforma delle intercettazioni. Un capoverso che Antonio Di Pietro ha già liquidato così: "Ce l'hanno messo per salvare la cricca". Regola l'entrata in vigore delle norme, la cosiddetta norma transitoria che tante volte ha celato il trucco per incidere sui processi in corso. Dice il testo: "Le disposizioni di modifica del codice di procedura penale non si applicano ai procedimenti pendenti alla data della sua entrata in vigore in relazione ai quali sia già stato emesso il decreto di autorizzazione allo svolgimento delle operazioni. In tal caso, le medesime non possono ulteriormente proseguire per un tempo superiore al termine massimo di durata previsto". Quindi, in realtà la legge si applica e le intercettazioni attive possono durare al massimo 75 giorni.

In commissione Giustizia al Senato la capogruppo del Pd Silvia Della Monica, ex pm a Firenze e Perugia, ha detto alla maggioranza: "Cosa direte a quel magistrato che grazie alle intercettazioni ha trovato il complice dell'assassino, ma per il primo potrà portare in giudizio mesi di ascolti, mentre per il secondo dovrà accontentarsi al massimo di 75 giorni?". E ha chiuso: "Questa è una norma che non reggerà il giudizio della Consulta. Pioveranno i ricorsi, perché è manifesta la sua incostituzionalità: state violando il principio di ragionevolezza".

Un ex pm, e adesso un avvocato. Della violazione di un altro principio, quello della parità di trattamento, ha parlato Luigi Li Gotti, il legale della famiglia Calabresi nel processo Sofri: "C'è una regola imprescindibile nel diritto. Tempus regit actum, si applicano le norme processuali in vigore nel momento in cui l'atto è stato commesso. La dottrina è univoca: applicare norme contrastanti nello stesso processo crea solo confusione. Per questo, quando nell'89 entrò in vigore il nuovo codice di procedura penale, le norme transitorie stabilirono che si sarebbe applicato solo ai nuovi processi. Quello Sofri fu fatto con le vecchie regole, tant'è che non si usò la cross examination".

E invece adesso il doppio binario entra di forza nelle inchieste. L'imputato A potrà subire ascolti per due anni, ma l'imputato B solo per 75 giorni. Per il primo la Corte avrà più elementi di prova, per il secondo di meno. Non si viola il principio di uguaglianza? Il sospetto dell'opposizione è forte: la norma è stata scritta per incidere sulle inchieste in corso, per bloccare le intercettazioni che a Perugia, Bari e Roma, nelle inchieste su appalti, mala sanità e Mockbel potrebbero ancora riservare sorprese.

Alla Camera, si prepara a dare battaglia Donatella Ferranti, capogruppo Pd in commissione Giustizia, anche lei una ex pm. Che legge il testo e commenta: "Ma davvero l'hanno scritto proprio così? È un'evidente forzatura perché colpisce l'efficacia dell'autorizzazione del giudice a fare l'intercettazione, ma secondo le vecchie regole". I suoi colleghi, nelle procure, non nascondono lo sconcerto. Dice un pm assai noto: "Ho avviato la mia inchiesta costruendo una strategia processuale che razionalizza gli strumenti che il codice mi autorizza ad usare. Secondo pesi e contrappesi. Non possono, all'improvviso, decurtarmene uno concedendomi un tempo di ascolti risibile".

Il punto è: favorisce le inchieste in corso oppure no? Per certo gli avvocati già si fregano le mani. Confida uno: "Ne approfitterò per i miei clienti appena esce in Gazzetta. Chiederò di non poter utilizzare contro il mio assistito tutte le intercettazioni oltre i 75 giorni". Sarà la paralisi.

"Inchieste in corso? Ma per favore... Il Quirinale ci ha chiesto di cambiare la formula precedente, che rischiava, quella sì, di creare una disparità di trattamento. Noi ci siamo adeguati". Così replica nel centrodestra chi ha lavorato alle modifiche, leggendo a voce alta la vecchia norma transitoria: "La legge non si applica ai processi pendenti alla data della sua entrata in vigore". Ma il Colle paventò il dubbio che potevano nascere inchieste "truffa", aperte solo per anticipare la legge. Ora il rischio resta, e c'è pure il fumus che il premier voglia dare una mano alla cricca.

(30 maggio 2010)

Con il Quirinale tratta Gianni Letta Tremonti isolato resta a bordo campo


"Adesso basta, la partita la gestiamo noi". È metà pomeriggio quando il presidente del Consiglio Berlusconi lascia Villa Certosa prima di volare verso Arcore. Il Quirinale incalza, chiede chiarimenti, correttivi, sebbene non per iscritto. E il mandato che il premier conferisce al telefono a Gianni Letta sa di esautorazione del ministro dell'Economia Tremonti, finora regista unico della manovra da quasi 25 miliardi di euro. Per tutta la giornata, d'altronde, i contatti dell'ufficio giuridico del Colle vengono tenuti direttamente con Palazzo Chigi, con lo stesso Letta e con i tecnici del ministero di via XX Settembre. Non con il ministro, però. Lavorio di limatura, ma anche di riscrittura concordata di parti del testo, andato avanti fino a tardi. Finché in serata il governo non ha inviato la manovra rivista e corretta secondo le indicazioni della Presidenza della Repubblica. Troppo tardi, tuttavia, per consentire al Quirinale un ultimo ma necessario controllo del testo che Napolitano effettuerà stamattina, prima di firmarlo e consentirne la pubblicazione in Gazzetta.

Osservazioni accolte, dunque. Al danno di immagine derivato da un parto lungo e logorante del testo, il premier Berlusconi non ha voluto sommare la beffa di una stroncatura dal Colle. Ma i rapporti tra Berlusconi e Tremonti, nelle ultime 48 ore, sono tornati tesissimi. Ai pochi fidati consiglieri sentiti nella giornata festiva, il capo del governo ha continuato a ripetere che la stretta finanziaria ha già scatenato "troppi malumori, troppe proteste" in seno alla stessa maggioranza. Tra leghisti preoccupati per il federalismo a rischio, finiani sul piede di guerra e industriali scettici. D'altronde, lo strappo consumato sabato sera è sintomo del clima deterioratosi in questo week-end ad alta tensione. Il comunicato di fuoco con il quale, a sorpresa, il ministro della Cultura e coordinatore del partito Sandro Bondi si è scagliato contro i tagli "indiscriminati" operati dal collega Tremonti è stato preceduto da una lunga telefonata del fedelissimo ministro allo stesso Berlusconi. E dunque proprio dal premier sarebbe scattato il via libera per quel j'accuse che Bondi, del resto, non avrebbe mai osato senza il conforto del suo leader.

Come se non bastasse, quando da Palazzo Chigi è stata pubblicata ieri pomeriggio la nota sui chiarimenti attesi dal Quirinale, è stato anche sottolineato, non a caso, che "i contatti con il Colle sono tenuti in queste ore dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Gianni Letta". Non da altri, sottinteso. E tanto è bastato per lasciar intendere quanto fosse "isolato" (Lega a parte), per il momento esautorato, il superministro dell'Economia.

Berlusconi ha fretta. Avrebbe preferito che la firma del presidente Napolitano fosse arrivata già ieri, per consentire stamattina la pubblicazione sprint della manovra correttiva in Gazzetta Ufficiale. In tempo per l'apertura di Piazza Affari e per inviare un segnale positivo ai mercati finanziari. In tempo si farà ugualmente, perché l'ultimo controllo del Quirinale sarà rapido e, salvo sorprese, la pubblicazione avverrà comunque in poche ore, ragionavano in serata negli uffici della Presidenza della Repubblica.

Del resto, se il testo approvato in Consiglio dei ministri martedì scorso è stato spedito solo sabato al Colle, non è responsabilità di altri se non del governo. E poi, il presidente Napolitano non è mai stato - né tanto meno lo sarebbe stato in questa fase così delicata - un semplice notaio. Preso atto che nella manovra non vi è traccia del ventilato condono, risolto a quanto pare positivamente il nodo del taglio agli stipendi dei magistrati - oggi Gianni Letta incontrerà e rassicurerà i vertici dell'Anm - il capo dello Stato ha preferito non mettere per iscritto i propri rilievi. Ma li ha comunque "girati" alla Presidenza del Consiglio. A cominciare da una serie di incongruenze tecnico-giuridiche. Per entrare quindi nel merito di quei "tagli indiscriminati" a enti di ricerca e culturali in alcuni casi simbolo dell'identità nazionale e della stessa Unità d'Italia, dunque insostenibili, tanto più alla vigilia della celebrazione del 150' anniversario.

Insostenibili come quelli sulla scuola e sulla ricerca che penalizzerebbero formazione e mondo giovanile, settori sui quali, al contrario, il Quirinale ha raccomandato più volte di investire con maggiore coraggio. Le correzioni alla fine sono state accolte. Su tanto altro, preannunciano i dirigenti del Pdl, da Gasparri a Napoli, si interverrà comunque in aula. Ma il testo che arriverà in Parlamento lascia piuttosto freddo Pier Ferdinando Casini, pur disponibile al dialogo, come lascia intendere il suo braccio destro Roberto Rao: "Non c'è stato alcun coinvolgimento, non hanno avuto il coraggio di dire che la casa brucia, né di assumersi le loro responsabilità. Se è così, tanti auguri".

(31 maggio 2010)

LORENZO FA LA BICICLETTA

Microfoni e telecamere fuori dalle aule la tv-realtà dei processi chiude i battenti


Via le telecamere dalle aule dei tribunali. Niente riprese durante i processi senza il consenso di tutte le parti: il disegno di legge sulle intercettazioni che approda oggi in Senato mette il bavaglio ai giornalisti e rischia di cancellare le trasmissioni che seguono casi di cronaca e i processi in tv. RaiTre, la rete della "tv realtà" inventata da Angelo Guglielmi con le sue trasmissioni di punta, "Un giorno in pretura", "Chi l'ha visto?" e "Report", è di fatto la più colpita. Milena Gabanelli è durissima: "Ho fatto un appello in testa alla trasmissione la scorsa settimana per spiegare come la penso: sono convinta che la questione intercettazioni vada regolamentata, ma credo che questo governo non sia legittimato a fare niente perché è troppo coinvolto. E poi lo vogliamo dire? Per come è messo il Paese in questo momento è possibile che il Parlamento sia bloccato a discutere solo di questo?".

Il disegno di legge che colpisce duramente la libertà di stampa colpisce anche i cittadini che vogliono essere informati e seguire l'andamento dei processi: basterà infatti il no di un perito o di un consulente chiamato a deporre perché l'aula diventi off limits per le telecamere. Attualmente il giudice poteva autorizzare le riprese, anche senza il consenso delle parti, quando sussiste "un interesse sociale rilevante alla conoscenza del dibattimento". Invece col nuovo regime questa disposizione è soppressa e resta solo la possibilità per il giudice di autorizzare le riprese "se le parti consentono". Il divieto non sarà limitato solo alla ripresa del volto dell'imputato o del testimone che chiederà la tutela della privacy, ma saranno rese impossibili perfino le immagini dell'aula di giustizia, o dell'avvocato e del pubblico ministero che porranno le domande. Si oscurano così le aule dei tribunali: "Un giorno in pretura", storica trasmissione che ha seguito Tangentopoli, il caso Izzo, il processo Priebke e quello al mostro di Firenze - e che si sta occupando del clan dei Casalesi - sparirebbe. "C'è la volontà di distruggere, vogliono una nazione che sia narcotizzata e viva solo di buone notizie", commenta Roberta Petrelluzzi, da vent'anni alla guida di "Un giorno in pretura" "Non si capisce che bisogno ci sia di cambiare una norma in vigore che era perfetta: teneva conto del diritto alla privacy degli imputati e della necessità di informare. Un processo è un'azione pubblica, solo i regimi totalitari hanno processi segreti. È il momento più alto di una democrazia e infatti le sentenze sono emesse nel "nome del popolo italiano". La telecamera tutela giudici e imputati: questa voglia di coprire, di nascondere, va a scapito di tutti". Cita due casi emblematici: "Amanda Knox non ha voluto essere ripresa: si è opposta lei e il giudice non ha voluto le telecamere. Ci siamo adeguati. Nel caso della clinica Santa Rita i responsabili non volevano le riprese, si sono battuti fino all'ultimo ma la sanità non è un fatto privato, riguarda tutti noi che dobbiamo essere informati. In questo caso le facce degli imputati non si vedranno ma si sentirà quello che avviene".

Massimo Bordin, direttore di Radio Radicale, che da oltre trent'anni documenta con il suo "Speciale Giustizia" le udienze (trasmesse in versione integrale) dei processi più significativi - dal delitto Moro alla strage di Ustica al caso Tortora, ai processi di mafia e camorra - è sceso sul piede di guerra. "In questi anni abbiamo difeso il diritto dei cittadini di giudicare l'operato della magistratura, e il diritto degli imputati a difendersi. Sono valori importanti che con l'approvazione della nuova norma rischiano di scomparire. L'iniziativa sulle registrazioni dei processi è la riprova del carattere censorio di tutto il provvedimento: qui non si tratta di intercettazioni ma di rendere pubblico come si muovono accusa e difesa. Radio Radicale ha sempre trasmesso integralmente i processi: la nuova regola segna la volontà di chiudere le aule dei tribunali. È gravissimo. Ci batteremo e speriamo di trovare una sensibilità anche nei senatori e nei deputati della maggioranza: vogliamo capire da dove parta questa voglia di censura".

"Ci vogliono impedire di fare il nostro lavoro" osserva Federica Sciarelli che con "Chi l'ha visto?" ha seguito il caso della banda della Magliana, della scomparsa di Emanuela Orlandi e ha mostrato le immagini della prima testimonianza in aula di Danilo Restivo quando fu fermato per la scomparsa di Elisa Claps. "Questo disegno di legge ferma il lavoro d'inchiesta: le intercettazioni servono, le telecamere documentano. Abbiamo seguito il caso della scomparsa Denise Pipitone dal 2004, il caso è arrivato in aula l'altro ieri. Durante il processo Izzo raccontò di aver ucciso due donne; Donatella Papi è andata in tv a dire che è innocente. Con Tangentopoli sfilò in aula la classe politica che non fece una gran figura. Spegnere le telecamere significa togliere agli italiani il diritto di capire cosa succede nel Paese".

(31 maggio 2010)