lunedì 31 agosto 2009

Se manca la riserva



di Edmondo Berselli


Al di là del Capo dello Stato c'è un grande vuoto di personalità cui chiedere il sacrificio dell'impegno pubblico

Le ultime rivelazioni sulla dipendenza sessuale del premier (vedi la nuova edizione del libro di Maria Latella 'Tendenza Veronica') avvalorano la sensazione che la parabola di Silvio Berlusconi sia arrivata vicina alla fase di caduta: certo l'uomo di Arcore, e di Villa Certosa, ha una forza spaventosa, e prima di cedere il potere organizzerà spettacoli impressionanti. Ma il beckettiano finale di partita di Berlusconi, tutto giocato su uno scenario virtualmente catastrofico, rischia di essere ulteriormente complicato da un fattore chiave, che investe la struttura morale e istituzionale dell'Italia contemporanea: l'assenza di riserve credibili, cioè la mancanza di uomini simbolo, in grado quando è necessario di fare da argine al degrado e da supplenza alla politica.

In passato abbiamo avuto la possibilità di ricorrere a uomini come Carlo Azeglio Ciampi, al quale venne richiesto un compito difficilissimo prima come capo di un governo di transizione, poi come ministro del Tesoro, e infine come presidente della Repubblica. Non si può dimenticare il ruolo preziosissimo ricoperto nella vicenda dell'ingresso nell'area della moneta unica, quando il suo prestigio in campo europeo contribuì a superare i dubbi dei partner sulla capacità di tenuta dei conti pubblici italiani, gravati da un debito fuori dai parametri di Maastricht. Così come oggi, nel momento di un attacco squinternato all'unità nazionale, non è possibile trascurare il sottile e fitto lavoro di cucitura eseguito nei suoi sette anni al Quirinale, con la valorizzazione dei simboli (la bandiera e l'inno nazionale) e soprattutto con i cento viaggi nelle province italiane, alla ricerca di una società più unita e solidale di quanto non mostrasse la politica.

Oggi stiamo assistendo a un solerte lavoro da parte di Giorgio Napolitano, nel tentativo di tenere sotto controllo un'azione legislativa spesso scombinata, e animata da intenzioni sbagliate o dalla voglia di slabbrare strumentalmente l'architettura istituzionale del sistema. Ma ci si rende conto facilmente che al di là del capo dello Stato c'è un grandissimo vuoto, uno spazio che difficilmente può essere riempito. Dopo il mandato di Napolitano si può immaginare un'occupazione 'manu militari' del Colle, con effetti purtroppo immaginabili sugli equilibri istituzionali (anche se grazie al cielo, e ai sofisticati microfoni utilizzati dalla escort Patrizia D'Addario, si direbbe che è evaporata dall'orizzonte politico l'ipotesi di Berlusconi al Quirinale).

Può sembrare piuttosto bizzarro che in tempi di crisi della politica (crisi culturale soprattutto, crisi di idee complessive e di progetti) si possa assistere in prospettiva a una superpoliticizzazione dei poteri neutri dello Stato. Ma si tratta di un fenomeno facilmente spiegabile: quando non sono in gioco valori supremi, la politica è anche gestione, amministrazione, spartizione. Cambia tutto, nella scena, se dovessimo affrontare un periodo di crisi conclamata, come sarebbe possibile ad esempio con la caduta di Berlusconi e con un autunno disastroso per l'economia e l'occupazione.

Tutta la politica italiana, infatti, di governo e di opposizione, dipende dalla figura del Cavaliere, dal gioco di attrazione e repulsione che ha innescato negli anni e che condiziona ormai l'intero sistema politico. Il suo ritiro, o autoeliminazione, rappresenterebbe potenzialmente la catastrofe finale di una Repubblica mai compiuta, e quindi fragilissima nei suoi meccanismi, nonché vulnerabilissima socialmente in seguito al prevedibile colpo di coda della recessione.

È in queste condizioni che verrebbero utili, e anzi essenziali, quelle figure di alta credibilità biografica e intellettuale a cui chiedere il sacrificio personale dell'impegno pubblico nel momento della massima tensione politica e istituzionale. Ma ormai le riserve della Repubblica sono esaurite. Dovesse effettivamente crollare il berlusconismo, si può intravedere in controluce l'eventualità di un governo Fini, grazie anche all'asse con il Quirinale.

Curiosa ipotesi, anche questa, di una felice coabitazione e di un 'idem sentire' fra un ex comunista e un ex fascista: ma anche in questo caso si tratterebbe, e in parte già si tratta, di un esemplare combinazione realizzata da una politica che non ha saputo trovare niente di nuovo, e quindi deve affidarsi al vecchio. Nella speranza che il 'patriottismo della Costituzione', secondo la storica definizione di Habermas, sia sufficiente a reggere gli equilibri di un sistema che sta già cedendo.

(28 agosto 2009)

Doppio gioco



di Gianluca Di Feo e Stefania Maurizi


Montagne d'armi per alimentare le guerre africane. Vendute da italiani. Un regime che chiede tangenti su tutti gli affari. Ecco la Libia con cui Berlusconi stringe patti segreti

C'è un governo affamato d'armi. Cerca arsenali perché si sente debole dopo quarant'anni di regime e teme le rivolte popolari. E vuole montagne di mitragliatori per proseguire la sua spregiudicata politica di potenza che negli scorsi decenni ha contribuito a riempire l'Africa di guerre civili. Questa è la Libia che si materializza negli atti della più sconvolgente inchiesta sul traffico d'armi realizzata in Italia: verbali, intercettazioni, pedinamenti e rogatorie che raccontano l'ultimo eldorado del commercio bellico. E dove dignitari vicinissimi al colonnello Gheddafi si muovono con grande spregiudicatezza tra affari di Stato, interessi personali e trame segrete. Questa è la Libia dove si recherà Silvio Berlusconi, invocando accordi strategici per il rilancio dell'economia ma soprattutto per stroncare definitivamente le partenze di immigrati ed esuli verso Lampedusa. Mentre dagli atti dell'indagine - come può rivelare "L'espresso" - spunta il nome del più importante ente libico che si occupa di quei migranti rispediti indietro dall'Italia. Deportazioni che stanno creando perplessità in tutta Europa e non riescono a scoraggiare la disperazione di chi sfida il mare e spesso muore nel disinteresse delle autorità maltesi.

Prima di Berlusconi un'altra incredibile squadra di imprenditori italiani era corsa a Tripoli per fare affari. Sono i nuovi mercanti di morte, figure inedite e sorprendenti di quarantenni che riforniscono gli eserciti africani di missili, elicotteri e bombardieri. E che passano in poche settimane dai cantieri edili alla compravendita di fucili d'assalto, tank e cannoni. Improvvisarsi commercianti di kalashnikov è facilissimo: trovarne mezzo milione sembra un gioco da ragazzi. Ma tutto è a portata di mano: caccia, radar, autoblindo. Si va direttamente alla fabbrica, in Cina, nell'ex Urss o nei paesi balcanici.


L'importante è avere le conoscenze giuste, conti offshore e una scorciatoia per evitare i controlli. Tutto documentato in tre anni di indagini dalla procura di Perugia. Tutto confermato nella sostanza - anche se non sempre nella rilevanza penale - dagli stessi interessati nei lunghi interrogatori davanti al pubblico ministero Dario Razzi.

Un filo di fumo Come spesso accade le grandi trame hanno un inizio banale, perso nella noia della campagna umbra. Nel dicembre 2005 i carabinieri di Terni stavano indagando su un piccolo giro di hashish. L'attenzione dei militari si è concentrata su Gianluca Squarzolo, che lavorava per una azienda insolitamente attiva negli appalti della cooperazione internazionale: la Sviluppo di Terni. Soprattutto in Libia è riuscita a entrare tra i fornitori della nomenklatura più vicina al colonnello Gheddafi. Ha ristrutturato palazzi e ville. Merito soprattutto dei contatti che si è saputo costruire Ermete Moretti, vulcanico manager toscano. Al pm Razzi racconta di avere accompagnato uno specialista di ozonoterapia per curare il leader massimo della Jamairhia: "Anche solo a livello di fargli fare delle iniezioni, sicuramente un bello screening me l'hanno fatto prima, per vedere se ero una persona di qualche servizio segreto". Come in tutti i paesi arabi, anche a Tripoli per fare affari ci vogliono conoscenze e mazzette. Così Moretti non si sorprende quando nel marzo 2006 gli viene proposto un nuovo business: una fornitura colossale di mitragliatori. A parlarne è Tafferdin Mansur, alto ufficiale nel settore approvvigionamenti dell'esercito libico, "vicino al capo di stato maggiore generale Abdulrahim Alì Al Sied". Muoversi in questo settore, però, richiederebbe figure con una certa esperienza. Invece per la prima missione viene incaricato Squarzolo che parte verso Tripoli con un piccolo campionario. Quando i carabinieri gli ispezionano i bagagli a Fiumicino invece dell'hashish trovano tutt'altra merce: un catalogo di armamenti. Capiscono di essersi imbattuti in qualcosa di grosso: lo lasciano andare e fanno partire le intercettazioni. Che individuano gli altri soci.

Mister Gold Rock C'è Massimo Bettinotti, 42 anni, radicato nello Spezzino e abile nello scovare contratti bellici. C'è Serafino Rossi, imprenditore agricolo a lungo vissuto in Perù che legge Jane's, la rivista militare più autorevole, e tra una semina e l'altra sa riconoscere ogni modello di caccia. Il nome più misterioso è quello di Vittorio Dordi, 44 anni, nato a Cazzaniga in provincia di Bergamo e studi interrotti dopo la licenza media. E la sua carriera pare ricalcata da un romanzo. Racconta di essere emigrato dalle fabbrichette tessili lombarde all'Uzbekistan per costruire impianti e telai. Nel '98 apre un ufficio in Congo: spiega di essere stato chiamato dal presidente Kabila per rivitalizzare la coltivazione del cotone. Ma la sua vocazione è un'altra. In Congo diventa una sorta di consigliere del ministro della Difesa, ottiene un passaporto diplomatico e la concessione per una miniera di diamanti. Nel 1999 a Cipro fonda la Gold Rock e comincia a muoversi sul mercato russo degli armamenti: "Diciotto anni di esperienza, sa: sono abbastanza conosciuto...", si vanta con il pm. La sua specialità - racconta - è la Georgia, dove si producono ordigni pregiati. Nell'interrogatorio cita il Sukhoi 25, un bombardiere che è la fenice dei conflitti africani. Un aereo corazzato, progettato ai tempi dell'invasione dell'Afghanistan: robusto, semplice, decolla anche da piste sterrate e non teme né le cannonate né i missili. Ogni tanto stormi fantasma di questi jet, con equipaggi mercenari, spuntano all'improvviso nei massacri del continente nero. Anche in Congo, ovviamente. Dordi non si presenta come un semplice compratore: parla di un suo ruolo nell'azionariato delle aziende che costruiscono caccia ed elicotteri. Millanterie? I depositi bancari rintracciati dai magistrati a Malta, a Cipro e a San Marino sembrano indicare transazioni rilevanti e un tesoretto di 22 milioni di euro al sicuro sul Titano.

Ma le sorprese di Mister Gold Rock non sono finite. "Voi pensate a Dordi come a uno che vende solo armi, mica è vero", spiega al pm il suo amico Serafino Rossi: "M'ha detto che lui è socio di un grosso costruttore spagnolo, che fa strade, ponti, quello che stava comprando il Parma". È Florentino Perez quel costruttore spagnolo, deduce il procuratore: il boss del Real Madrid che ha speso cifre folli per la sua squadra stellare. Perez, racconta sempre Rossi, avrebbe investito forte in Congo e Dordi conta di lavorarci insieme, "visto che sono molto amici ". Assieme ai nuovi sodali, Dordi discute anche qualche altro affaruccio: 50 mila kalashnikov e 5000 mitragliatrici russe destinate "a un sedicente rappresentante del governo iracheno" da spedire con "il beneplacito del governo americano"; cannoni navali per lo Sri Lanka, elicotteri per il Pakistan, Mig di seconda mano dalla Lituania.

Operazioni coperte Per uno come lui, i kalashnikov sono merce di scarso valore. Ma sa che i libici cercano ben altro: venti anni di embargo, decretati dopo gli attentati di Lockerbie e Berlino, hanno reso Tripoli ghiotta. Dordi spera di sfruttare i contatti partiti dall'Umbria per strappare qualche commessa più ricca. Descrive al pm nel dettaglio gli incontri con i responsabili del riarmo libico: vogliono apparati per modernizzare i carri armati T72, elicotteri da combattimento, missili terra-aria di ultimissima generazione. Insomma, il meglio per riportare l'armata di Gheddafi ai fasti degli anni Settanta.E allora perché tanta insistenza nel cercare una montagna di vecchi kalashnikov, tutti del modello più antico e rustico? Mezzo milione di Ak47 e dieci milioni di proiettili, una quantità di gran lunga superiore alle necessità dell'esercito libico. Sono gli stessi indagati a dare una risposta nelle intercettazioni: "Li vogliono regalà a destra e manca, capito?". Il pm parla di "esigenze politico-militari, gli indagati sanno che parte della commessa sarà ceduta a terzi. Nessun problema per loro se le armi dovessero essere destinate a Stati o movimenti in contrasto con la politica estera italiana". È una vecchia storia. Dalla fine degli anni Settanta i libici hanno cercato di esportare la loro rivoluzione verde in mezzo mondo, donando casse di ordigni: dal Ciad al Nicaragua, dal Sudan alla Liberia.

Tangentopoli a Tripoli I nostri connazionali sono maestri nell'esperanto della bustarella. Pagano le rette del college londinese per il figlio del colonnello Mansur, più una mazzetta da 250 mila dollari; altrettanti all'ingegnere libico che esamina lo shopping bellico. I soldi li fanno gonfiando i costi: i kalashnikov vengono pagati 85 dollari e rivenduti a Tripoli per 136. "Su 64 milioni e 800mila dollari che i libici pagheranno, il 60 per cento andrà agli italiani". Ma i soldi non restano nelle loro tasche: "Non sono poi infondate le pretese dei libici di ottenere un prezzo della corruzione più elevato rispetto a quanto finora corrisposto", continua con un filo di ironia il pm. Gli oligarchi della Jamairhia sanno però che il loro potere va difeso. Nella primavera 2006 la rivolta islamica di Bengasi, nata come protesta contro la t-shirt del ministro Calderoli, li sorprende. Si teme anche per la salute di Gheddafi. Per questo chiedono con urgenza strumenti anti-sommossa: 250 mila pallottole di gomma, 750 lancia granate lacrimogene, scudi e corpetti protettivi.

(27 agosto 2009)

SIRIO


SIRIO


Confalonieri: Feltri? Pubblica le notizie



«Un clima da Trovatore». Sceglie l'opera di Verdi, forse tra le più cupe, per descrivere quello che sta accadendo in questi mesi in Italia. Quell'opera dove tra agnizioni e riconoscimenti i veri protagonisti sono i roghi. Il falò dove brucia la zingara che darà inizio all'opera e quello dove la figlia dell'uccisa rivelerà al Conte Luna che ha fatto decapitare senza saperlo suo fratello Manrico, il Trovatore appunto. E dice: «Basta roghi». Ma in Fedele Confalonieri non alberga alcun dubbio: «C'è chi ha voluto accendere il fuoco. E ora ci si lamenta se qualcun altro fa il suo mestiere di giornalista e pubblica notizie». Confalonieri non ha perso certo il buon umore e l'ottimismo di fondo su un'Italia «che troppo spesso dimentica dove era solo qualche anno fa». Ma con durezza non è disposto a tollerare e non transige di fronte alle «licenze di uccidere a senso unico», «o chi è pronto a far pagare gli errori senza sconti, ma solo ai nemici», ai «tanti moralismi e moralisti a buon mercato che insorgono quando si scoprono i loro altarini». Non è il presidente di Mediaset bonario che con una battuta o una citazione colta fa superare all'amico Silvio più di una situazione difficile. È un Confalonieri che non ha paura delle battaglie. Ma pronto alla battuta. «Chi di spada ferisce di spada perisce. E poi, chi la fa... l'aspetti. E mi fermo con i proverbi... Sa, potrei trovarne dieci e qualcuno anche un po' volgare», dice e sembra di vederlo sorridere. «Saranno anche i detti più scemi sulla terra ma descrivono la situazione che si è creata».

La sera prima sugli spalti di San Siro a vedere il derby ha salutato Vittorio Feltri. Il direttore del Giornale ha pubblicato la notizia del patteggiamento di Dino Boffo, direttore dell'Avvenire, per un procedimento per molestie. Cosa che ha scatenato le reazioni dure della Chiesa. C'è chi ha attribuito al presidente di Mediaset la battuta «è un sacramento ma è bravo», ma anche se non l'avesse detta non è molto distante da quello che pensa. «Un giornalista estremo ma giornalista, che riporta come tanti altri notizie. Si dovrebbe fermare adesso perché non riguardano Berlusconi che in questi mesi è sembrato il bersaglio di tre palle e un soldo nei Luna Park? Quello al quale tutti possono sparare senza che nessuno chieda conto di niente? Sono tre mesi che si parla di "papi" e "D'Addario", che si continua a diffamarlo, poi arriva un fatto che non lo riguarda e improvvisamente c'è chi sui giornali scopre che non si può andare avanti così. Ma andiamo...». La china che si è intrapresa è quella di un mondo che si imbarbarisce e che sembra avviato verso un gioco al massacro dove tutto diventa lecito purché riguardi la parte avversa.

«È un momento di imbarbarimento. Ma non mi fanno certo pena quelli che hanno appiccato il fuoco, e non è stato Feltri, e che ora temono di bruciarsi». Il problema è che di mezzo c'è un Paese, che sarà stato anche capace di superare prove difficili come quelle della strategia della tensione e del terrorismo. Ma che ora vede mescolarsi scontro di valori, istituzioni laiche e religiose, libertà di cronaca, opinione e persino comportamenti. «È il momento del riconoscimento di quello che siamo. Ma non per questo siamo al disastro. Come spesso il paese viene descritto da voi. A volte si dimenticano vicende come quelle delle Banlieue parigine dove l'odio religioso spinge ad atti barbarici. O dei conflitti razziali nelle periferie inglesi. Qui fortunatamente non accade e il merito di chi è se non del governo? Forse bisognerà aspettare che arrivi la generazione dei 25enni al potere perché la si faccia finita con questo clima da Santa Inquisizione. Perché se Berlusconi querela chi l'ha diffamato, immediatamente è "un attacco alla libertà di stampa" e si fa muovere mezza Europa? Poi, quando si tirano fuori notizie sgradevoli per altri signori, che si tratti dell'Avvocato o di De Benedetti, ecco che si grida subito allo scandalo? Feltri dà fastidio per Boffo o perché tocca argomenti tabù? E che dire degli interessi privati nascosti dietro il ritornello sulle privatizzazioni come la Sme, Seat, operazioni tipo Omnitel?».

Il clima pare tutt'altro che destinato a rasserenarsi quindi. E questo nel bel mezzo di una crisi. «Ma smettetela di piangervi addosso. Basta con il lamento. E come ha detto il vostro De Rita, finiamola con la litania sulle riforme. Perché si attacca Berlusconi? Ma perché sta facendo cose normali, il capo di chi amministra il Paese: i Tremonti, le Gelmini, gli Alfano, i Brunetta e ancora Maroni, Scajola. Si sono messi lì e amministrano. Tentano di far funzionare le cose. Berlusconi non farà certo il Codice napoleonico, ma è uno che vede i problemi e tenta di risolverli. O ci si illude di salvare l'Italia con i Franceschini o i Bersani, che è pure una brava persona peccato sia comunista?». E quindi? I falò continueranno a bruciare alti? «Non devo rispondere certo io. Lo chieda ai signori della Santa Inquisizione a senso unico che hanno acceso il fuoco. Io sono solo un amico di Berlusconi che all'indice c'è finito da quasi due decenni ormai».

Daniele Manca
31 agosto 2009

La Chiesa mette in campo la «diplomazia segreta»: ora ricucire


CITTÀ DEL VATICANO — «La politica della Chiesa, come sempre, è aspettare». Sarà che un’istituzione bimillenaria ten­de ad avere una dimensione del tempo diversa da quella che scandiscono le polemiche e i ve­leni quotidiani. Fatto sta che è inutile chiedersi oggi quanto l’«attacco virulento e basso» al direttore di Avvenire Dino Bof­fo, e ai vertici della Cei che avrebbero coperto il presunto «scandalo», sia destinato ad avere conseguenze in futuro, quanto le ferite si possano ri­marginare. «Al momento op­portuno si prenderanno le deci­sioni». Ma adesso, in Vaticano, è il momento della «diplomazia segreta», ovvero della «media­zione nel nascondimento», il paziente e discreto lavoro sotto­traccia con gli interlocutori rite­nuti affidabili sull’altra riva del Tevere. «Il problema adesso è ri­cucire, ricucire, ricucire. Uscire da questa situazione increscio­sa e dolorosa. Perché un Paese e la sua politica non possono andare avanti a palate di fan­go».

Qui sta l’essenziale. La Santa Sede ha negato fin dall’inizio una «crisi istituzionale». Ma i «falchi» che «esistono da una parte come dall’altra», si dice, possono trarre forza dalla situa­zione, e la situazione sfuggire ad ogni controllo.

Certo, ci sono questioni di at­tualità politica cui la Chiesa tie­ne molto, testamento biologi­co, aiuti alle famiglie, sostegno alle scuole cattoliche e così via. Ma non è questo il punto, la fac­cenda è troppo seria perché la si possa ridurre a una sorta di «pragmatismo delle leggi», an­che perché sia Oltretevere sia al­la Cei nessuno sembra avere ti­mori in questo senso. Piuttosto c’è una considerazione ricorren­te, ai piani alti della Santa Sede: «La Chiesa ha una responsabili­tà sociale. Se c’è degrado nella società e nella cultura del Pae­se, ha il dovere di agire: col pragmatismo che vuole si fac­cia un passo alla volta per veni­re fuori da questo guazzabu­glio, calmare gli animi, far pre­valere il buon senso. L’Italia non può permettersi di vivere in un conflitto permanente».

Del resto, c’è preoccupazio­ne anche per la situazione inter­na. Un alto prelato, ieri, sospira­va: «E’ stato preso di mira il di­rettore dell’unico quotidiano cattolico, la voce dei vescovi ita­liani. Un attacco all’istituzione e alla sua credibilità. Ci sono ve­scovi che in passato non aveva­no apprezzato la linea troppo 'morbida' di Avvenire verso il governo e adesso dicono: avete visto che cosa succede a esse­re troppo accondiscendenti?».

Il problema, riflettono in Va­ticano, «è che se ognuno si met­te a sparare a zero tutto diventa più difficile». Si tratta di aspet­tare, quindi: anche perché la stagione del «fango» e dei «ve­leni» potrebbe non essere fini­ta. Una stagione che dura da un po’ di tempo, in verità: già pri­ma dell’estate, all’università Cattolica, era stata distribuita in forma di volantino una lette­ra anonima che conteneva in so­stanza le stesse accuse pubblica­te dal Giornale berlusconiano. Ora si viene a sapere che perfi­no in Vaticano qualcuno aveva fatto recapitare «le fotocopie di presunti atti giudiziari o infor­mative», raccontano (disgusta­ti) Oltretevere. Fogli «che han­no fatto la fine di tutte le lettere anonime». Perciò è il momento dei freddi, di quelli che sanno mantenere i nervi saldi e «ricu­cire», con discrezione: «Vedia­mo come si evolveranno i fatti. E se si riuscirà a venire fuori da tutto questo».

Gian Guido Vecchi
31 agosto 2009

Vian: rivendico di non aver scritto sulle vicende private del Cavaliere



«E’ vero, sulle vicende private di Silvio Berlusconi non abbiamo scrit­to una riga. Ed è una scelta che riven­dico, perché ha ottime ragioni». Dice Gian Maria Vian, direttore dell’Osser­vatore Romano, il quotidiano del Pa­pa, che «il giornalismo italiano pare diventato la prosecuzione della lotta politica con altri mezzi. Segno che la politica, in tutti i suoi schieramenti, è piuttosto debole. Infatti da alcuni mesi la contesa tra partiti sembra svolgersi soprattutto sui giornali, che hanno assunto un ruolo non sol­tanto informativo, come mostrano le vicende anche degli ultimi giorni. Ma forse — aggiunge Vian — non si è data sufficiente attenzione al fatto che, il giorno stesso in cui è esploso il caso del direttore di Avvenire, su Repubblica Vito Mancuso ha attacca­to, con molte approssimazioni stori­che e una durezza insolita, il cardina­le segretario di Stato, presentando co­me un appuntamento politico una ce­rimonia religiosa antica di sette seco­li, che quest’anno rivestiva una solen­nità particolare dopo la tragedia di un terremoto da trecento morti. Co­sì, nel giro di quattro ore, l’Osservato­re ha risposto con un editoriale che ha chiarito il significato della Perdo­nanza e ribadito che non ci occupia­mo di polemiche contingenti. Quan­to alla rinuncia del presidente del Consiglio, che è stato rappresentato da Gianni Letta, si è trattato di un ge­sto concordato, di responsabilità isti­tuzionale da entrambe le parti. Tanto più che i rapporti tra le due sponde del Tevere sono eccellenti, come più volte è stato confermato. Anche sul nostro giornale, che per la prima vol­ta, l’anno scorso, ha intervistato, in­sieme agli altri media vaticani, sia il presidente della Repubblica sia il pre­sidente del Consiglio». L’Osservatore Romano non si è mai occupato delle vicende di Berlusconi anche perché, spiega il direttore, «negli ultimi due anni il giornale è cambiato. Prima c’erano una o anche due pagine di cronaca italiana e un’altra di cronaca di Roma. Siamo un giornale piccolo, anche se impor­tante. Proprio su richiesta del nostro 'editore' abbiamo triplicato lo spa­zio delle informazioni internazionali. E, in genere, il quotidiano della Santa Sede oggi non è solito entrare negli scontri politici interni dei diversi Sta­ti, a cominciare dall’Italia. Preferia­mo dedicarci ad analisi di ampio re­spiro, piuttosto che seguire vicende molto particolari, controverse e di cui spesso sfuggono i contorni preci­si, come quelle italiane degli ultimi mesi».

Sul caso che riguarda il direttore di Avvenire, non è certo in discussione la solidarietà personale con Dino Bof­fo. Vian, che lo conosce da quindici anni ed è stato editorialista del gior­nale dei cattolici italiani, gliel’ha espressa per iscritto, il giorno stesso. E’ un dato però che la linea dell’Osser­vatore Romano non sia stata la stessa del giornale dei vescovi, e taluni edi­toriali di Avvenire molto critici verso il governo abbiano destato sconcerto Oltretevere: «Non si è forse rivelato imprudente ed esagerato — si chiede Vian — paragonare il naufragio degli eritrei alla Shoah, come ha suggerito una editorialista del quotidiano catto­lico? Anche nel mondo ebraico, fer­ma restando la doverosa solidarietà di fronte a questa tragedia, sono sta­te sollevate riserve su questa utilizza­zione di fatto irrispettosa della Sho­ah. E come dare torto al ministro de­gli Esteri italiano quando ricorda che il suo governo è quello che ha soccor­so più immigrati, mentre altri – pen­so per esempio a quello spagnolo – proprio sugli immigrati usano di nor­ma una mano molto più dura? Mi sembra davvero un caso clamoroso, nei media, di due pesi e di due misu­re » .

Anche l’informazione religiosa, de­nuncia Vian, tende ad appiattirsi sul­le tendenze deteriori di quella politi­ca, anch’essa un tempo in genere più ampia e approfondita. «Sono stato ac­creditato in sala stampa vaticana dal 1975 al 2007, e ricordo quindi benissi­mo il direttore Federico Alessandri­ni, in precedenza vicedirettore del­­l’Osservatore: un gentiluomo d’altri tempi sempre disponibile a spiegare le cose, che aveva tutta la preparazio­ne per farlo e interlocutori giornalisti ben più preparati e tuttavia desidero­si davvero di capire. Oggi, invece, sembra aperta la caccia al prelato, me­glio se cardinale, e preferibilmente per una battuta polemica. E così si fi­nisce anche per ripiegare su figure di ecclesiastici, magari autorevoli ma or­mai ritirati, oppure che non hanno il ruolo istituzionale per parlare a no­me della Santa Sede, come ha dovuto precisare l’attuale successore di Ales­sandrini, il gesuita Federico Lombar­di. Mentre, per fortuna, mi sembra che questa abitudine non sia così dif­fusa tra i vaticanisti non italiani». Vian non fa nomi, ma non è impossi­bile vedere dietro le sue parole il pro­filo del cardinale Lozano Barragán per la sanità e di monsignor Sgreccia per la bioetica, entrambi emeriti. «Ora, per esempio, dei migranti ha la responsabilità un diplomatico come l’arcivescovo Vegliò, che ha dimostra­to sensibilità e prudenza; certo, se si mette in discussione il suo ruolo o, peggio, si dicono enormità sul suo conto, come è stato fatto frettolosa­mente e con impudenza, lui ha tutto il diritto di reagire, anche con ener­gia, come ha fatto».

Ma i rapporti tra l’Italia e la Santa Sede, ribadisce Vian, «sono buoni. Berlusconi è stato il pri­mo a chiarire che non sarebbe anda­to a Viterbo per la prossima visita del Papa, quando ha capito che la sua pre­senza avrebbe causato strumentalizzazioni. L’incontro dell’Aquila è salta­to per non alimentare le polemiche, ma era stato previsto proprio per se­gnare simbolicamente un impegno comune, dello Stato e della Chiesa, per le popolazioni colpite dal terre­moto. Con la presenza del cardinale Bertone a rappresentare Benedetto XVI, che è anche primate d’Italia. No, nelle relazioni tra Repubblica Italiana e Santa Sede non cambia nulla».

Aldo Cazzullo
31 agosto 2009

L'informazione delle denunce anonime

LA GUERRA LERCIA


CONCHITA DE GREGORIO

Un assaggio della guerra che ci aspetta in autunno. Non sporca, lercia. La battaglia finale di un uomo malato, barricato nel delirio senile di onnipotenza che sta trascinando al collasso della democrazia un paese incapace di reagire: un uomo che ha comprato col denaro, nei decenni, cose e persone, magistrati, politici e giornalisti, che ha visto fiorire la sua impunità e i suoi affari dispensando come oppio l'illusione di un benessere collettivo mai realizzato.
Dall'estero guardano all'Italia come un esempio di declino della democrazia, una dittatura plutocratica costruita a colpi di leggi su misura e di cavalli eletti senatori. Vent'anni di incultura televisiva - l'unico pane per milioni - hanno preparato il terreno. Demolita la scuola, la ricerca, il sapere. Distrutte l'etica e le regole. Alimentata la paura. Aggrediti i deboli.
È una povera Italia, un piccolo paese quello che assiste impotente all'assalto finale alle voci del dissenso condotto da un manipolo di body guard del premier armate di ministeri, di aziende e di giornali.
L'ultimo assunto ha avuto il mandato di distruggere la reputazione del "nemico".
Scovare tra le carte gentilmente messe a disposizione dei servizi segreti, controllati dal premier medesimo, dossier personali che raccontino di figli illegittimi e di amanti, di relazioni omosessuali, come se fosse interessante per qualcuno sapere cosa accade nella vita di un imprenditore, di un direttore di giornale, di un libero cittadino. Come se non ci fosse differenza tra il ruolo di un uomo pubblico, presidente del Consiglio, un uomo che del suo "romanzo popolare" di buon padre di famiglia ha fatto bandiera elettorale gabbando milioni di italiani e chi, finito di svolgere il suo lavoro, va a letto con chi vuole - maggiorenne, sì - in vacanza con chi crede.
La battaglia d'autunno sarà questa: indurre gli italiani a pensare che non c'è differenza tra il sultano e i suoi sudditi, tra il caudillo e i suoi oppositori.
Non è così: la parte sana di questo paese lo sa benissimo.
Un anno fa arrivavo in questo giornale scrivendo che avrei voluto diventasse "il nostro posto". Non immaginavo sarebbe stata una trincea di montagna. Mentre cresceva, l'Unità è stata oggetto di una campagna denigratoria portata avanti dal presidente del Consiglio e dai suoi alleati, da giornali compiacenti non solo - purtroppo - nel centrodestra. Anziché difendersi e reagire compatto il fronte dell'opposizione si è diviso in guerre fratricide. Mentre si alimentano i veleni e le calunnie su di noi i nostri lettori sono cresciuti, negli ultimi mesi, del 25 per cento, caso unico nel panorama editoriale.
I cittadini ci sono: leggono, capiscono.
Mentre l'aggressione diventava personale (scritte intimidatorie sotto casa, telefonate notturne, le nostre vite sotto scorta) ci venivano offerte da emissari dei poteri opachi videocassette e carte contenenti "le prove" di gesta erotiche dei nostri aggressori.
Materiale schifoso, alcove filmate all'insaputa dei protagonisti. Naturalmente le abbiamo respinte.
Il sesso tra adulti, di chi non lo baratti con seggi e presidenze, non ci interessa.
Questo è quello che ci aspetta, però.
Sappiatelo. Una guerra lercia.

Morte in diretta di un pianeta gigante


di Pietro Greco


Morte, in diretta, di un pianeta. Il luttuoso evento si sta consumando lontano dal nostro sistema solare, a qualche milione di anni luce da noi: il pianeta WASP-18b, grande 10 volte e più il nostro Giove, sta per essere inghiottito dalla sua stella, WASP-18, grande 1-2 volte il nostro Sole. L’esopianeta sparirà nella geenna cosmica in meno di un milione di anni. Un amen, nella scala astronomica dei tempi. A darne il triste annuncio sulla rivista Nature sono stati giovedì scorso Coel Hellier, ricercatore del Gruppo di astrofisica della Keele University, Regno Unito, e i suoi collaboratori. Hellier e i suoi non sono certi della morte del pianeta. Ma assicurano che entro una decina di anni avremo dati sufficienti per la definitiva conferma del catastrofico evento. Insomma, se non proprio alla morte assisteremo all’agonia del pianeta.

QUANTE STRANEZZE La faccenda rivela non poche stranezze. A iniziare dalla stella, che con i suoi 630 milioni di anni (in realtà l’età è compresa tra un minimo di 530 e un massimo di 950 milioni di anni) è davvero giovane: ha un’età otto volte inferiore a quella del nostro Sole e della Terra, che vantano, anno più anno meno, 4,7 miliardi di anni. Ciò rende WASP-18 la più giovane tra le 320 stelle della galassia intorno a cui abbiamo scoperto, negli ultimi dieci anni, pianeti orbitanti. La seconda stranezza è che il pianeta WASP-18b, con la sua gigantesca massa, ruota intorno al Sole in appena 0,94 dei nostri giorni. Un fulmine. WASP-18b è il pianeta più veloce finora conosciuto: l’unico che orbita intorno alla sua stella in meno di 24 ore. Ciò è reso possibile dal fatto, terza stranezza, che il pianeta dista dalla sua stella appena 0,05 unità astronomiche. Un’unità astronomica è, per convenzione, la distanza tra la Terra e il Sole, pari più o meno a 150 milioni di chilometri. Dunque WASP-18b dista da WASP-18 appena 7,5 milioni di chilometri. Solo dieci anni fa nessuno immaginava che pianeti così grandi potessero orbitare intorno a una stella. Oggi sappiamo che circa il 20% dei 320 esopianeti scoperti si trova a una distanza dalla propria stella inferiore a 0,20 unità astronomiche. Insomma, l’anomalia è rappresentata più dal nostro sistema solare.

A Saint Michel, in Bretagna, dove il mare in meno di un’ora si riira di oltre venti chilometri e compie un salto di 15 metri, ogni giorno sperimentano le forze di marea causate dalla piccola Luna. Possiamo, dunque, immaginare le forze di marea che la stella WASP-18 esercita sul pianeta WASP-18b. Queste forze, combinate con la velocità orbitale del pianeta e la velocità di rotazione della stella, fanno sì che WASP-18b stia precipitando a gran velocità su WASP-18. E in un milione di anni sarà inghiottito dalla stella. L’uomo dunque assiste, per la prima volta, alla morte di un pianeta. In realtà gli astronomi hanno bisogno di ulteriori dati per sciogliere la prognosi. Molti sono scettici per motivi statistici: il pianeta ha un miliardo di anni e averlo intercettato a un millesimo dalla fine è come aver vinto alla lotteria. In dieci anni sapremo la verità.

31 agosto 2009

Il Cavaliere "esasperato" e il pasdaran Vittorio Feltri



ANAIS GINORI


PARIGI - "Nessuna indulgenza per Silvio Berlusconi". Le Figaro racconta oggi del mancato appuntamento con il cardinal Bertone, titolando sul "disaccordo crescente con la Chiesa". "L'incidente rivela il clima di nervosismo che aleggia a Palazzo Chigi", scrive il quotidiano conservatore, che osserva quanto il Cavaliere sia "esasperato" dagli attacchi della stampa, compresa quella cattolica. Nella corrispondenza da Roma, Le Figaro parla anche delle accuse lanciate a Dino Boffo dalle colonne del Giornale.

Lo stile del quotidiano diretto da Vittorio Feltri viene associato a quello dei "pasdaran del regime iraniano". "E' lo stesso giornale - è scritto nell'articolo di oggi - che aveva dato della 'snob' a Carla Sarkozy perché non si era piegata al programma ufficiale del G8", costringendo poi Berlusconi a scusarsi con la première dame. "E intanto i rapporti con il mondo dell'informazione sono ai minimi storici" conclude il giornale francese riportando la notizia della citazione contro Repubblica e la volontà del premier di attaccare molti giornali stranieri.

I "rapporti tesi" tra Chiesa e Berlusconi sono sulla prima pagina del quotidiano La Croix. Il conflitto - secondo il più grande giornale cattolico francese - potrebbe essere "insanabile", "a causa della vita dissoluta del premier e dell'alleanza con il partito xenofobo Lega Nord".

Molti siti francesi continuano a riportare la controffensiva di Berlusconi, e i suoi problemi con il Vaticano. Negli ultimi giorni, le notizie dall'Italia hanno dato luogo anche ad approfondimenti nelle tv e nella radio. France Info ha trasmesso alcune analisi sulla situazione dei media nel nostro paese e un commento di Serge Raffy, autore del pezzo del Nouvel Observateur citato dagli avvocati del premier. "E' un onore essere attaccato da Berlusconi - ha detto il giornalista - ed è un invito ad andare avanti nel nostro lavoro di inchiesta". Sul sito del Nouvel Observateur, oltre alla notizia della possibile denuncia contro il settimanale francese, campeggia anche un altro articolo: "Berlusconi in Libia nonostante Lockerbie".

(31 agosto 2009)

Boffo, La Cei torna all'attacco: "Avvertimento mafioso"



Nel fascicolo riguardante il procedimento per molestie a carico di Dino Boffo "non c'è assolutamente alcuna nota che riguardi le sue inclinazioni sessuali". A confermarlo è il gip di Terni Pierluigi Panariello. Che cos'è allora la "velina" anonima recapitata ai vescovi italiani (che l'hanno cestinata) e finita nelle mani di Feltri (che l'ha citata testualmente sul Giornale)? "Un'intimidazione che da siciliano definirei di tipo mafioso", risponde monsignor Domenico Mogavero, vescovo di Mazara del Vallo e presidente del consiglio Cei per gli affari giuridici.

La Cei. Ricevuta l'informativa sul direttore dell'Avvenire, il monsignore racconta di averla "cestinata" e di essere "rimasto indignato della cosa". Un testo del genere, "indirizzato a più persone", ha lo scopo di "un avvertimento" che, osserva il vescovo, "io da siciliano definirei di tipo mafioso" in particolare "nei confronti dei due cardinali citati, Camillo Ruini e Dionigi Tettamanzi". L'intera vicenda legata a questa informativa per Mogavero è "un affaraccio brutto","inquietante", "spazzatura maleodorante" e "prestarsi a un gioco di questo genere è offensivo della dignità delle persone, della libertà di stampa e anche di una certa professionalità. Non credo proprio - sottolinea - si tratti di un autentico scoop".

Il vescovo di Mazara del Vallo ragiona anche sulle conseguenze del caso Boffo. "Bisogna capire - spiega - che quando si entra nel piano della rappresaglia si sa da dove si comincia ma non si sa dove si va a finire, soprattutto perchè esistono persone che poi in queste situazioni ci sguazzano. Certi signori - rimarca - si sono assunti la responsabilità morale di aver messo in moto un meccanismo che speriamo si fermi qui". In merito alla rivendicazione del direttore del Giornale di avere agito in autonomia dal presidente del Consiglio, Mogavero afferma: "Nessuno nega autonomia a Feltri ma non sono disponibile a pensare che nessuno della proprietà del Giornale fosse al corrente di quanto si stava per pubblicare, saremmo fuori dal mondo se si sostenesse una cosa del genere. Può essere che non lo sapesse il presidente del Consiglio - conclude - ma non la proprietà".

Tutta la vicenda "peserà sui rapporti Stato-Chiesa". Infatti, "se il premier - continua il vescovo - cerca un riavvicinamento con la Chiesa deve semplicemente cambiare stile di vita, deve semplicemente fare il politico e non il manager o l'uomo di spettacolo". Poi, prosegue Mogavero, "il giudizio sulla sua politica lo daranno il Parlamento e la storia ma se cerca la vicinanza con il mondo ecclesiastico deve assumere un rigoroso stile di vita". "Non ci interessa la sua vita privata - conclude - ci interessa che non ne faccia motivo di spettacolo". Secondo Mogavero la vicenda si trasformerà in "una bomba a orologeria" e, aggiunge, "mi dispiace che il povero Boffo abbia dovuto pagare un prezzo così alto ma se questo è servito a far saltare l'incontro tra il segretario di stato vaticano il card. Tarcisio Bertone e il premier Silvio Berlusconi all'Aquila, sono contento".

Il giudice di Terni. Il gip di Terni conferma che la "velina" utilizzata da Il Giornale di Feltri per la Giustizia non esiste e non è mai esistita, così come nessuna nota che riguardi l'orientamento sessuale di Boffo. Il giudice di Terni si sta occupando della vicenda essendo stato chiamato a decidere in merito alle richieste di accesso agli atti presentate da diversi giornalisti. Sulla medesima istanza deve esprimere un parere anche il procuratore della Repubblica Fausto Cardella. Dopo che lo avrà fatto gli atti passeranno al gip che dovrà pronunciarsi (una decisione è attesa non prima di domani mattina). Già in passato altri cronisti presentarono richiesta di accesso agli stessi atti ma il gip di allora respinse le istanze. La vicenda di Boffo venne definita con un decreto penale di condanna di 516 euro relativo al reato di molestie alla persona. Un atto al quale il direttore di Avvenire non fece opposizione e quindi la vicenda si chiuse senza la celebrazione del processo. Nell'indagine venne ipotizzato anche, inizialmente, il reato di ingiurie, ma la querela che ne era alla base - secondo quanto emerge dallo stesso fascicolo - venne poi rimessa. Tra gli atti del procedimento non figurano intercettazioni telefoniche. Ci sono invece i tabulati relativi al telefono di Boffo dal quale partirono le presunte chiamate moleste.

(31 agosto 2009)

Boffo va al contrattacco "Contro di me una patacca"


di ORAZIO LA ROCCA


CITTÀ DEL VATICANO - "Non una "informativa", ma una emerita patacca". E il terzo giorno dalla "crocifissione" subita sulle pagine de Il Giornale - il quotidiano berlusconiano diretto da Vittorio Feltri -, per il direttore di Avvenire Dino Boffo arriva il momento della pubblica autodifesa e del contrattacco. Ieri, il giornale cattolico ha pubblicato due pagine di lettere al direttore che fin dal titolo ("Un atto inqualificabile: non lasciatevi intimidire") esprimevano aperta condanna per l'iniziativa di Feltri e solidarietà incondizionata per Boffo.

Quella stessa solidarietà che già sabato da Genova gli era stata pubblicamente manifestata dal presidente della Cei, il cardinale Angelo Bagnasco (l'editore di riferimento di Avvenire) e che ancora ieri gli è stata rinnovata anche dal cardinale Segretario di Stato della Santa Sede Tarcisio Bertone, il porporato autore del clamoroso gran rifiuto a partecipare alla cena della Perdonanza col premier Silvio Berlusconi dopo aver letto, giovedì scorso, il furibondo attacco de Il Giornale contro Boffo. Dal Vaticano si è appreso che nel corso della telefonata, "molto serena ed incoraggiante", Bertone avrebbe rinnovato la fiducia a Boffo mettendo a tacere quelle voci circolate su alcuni giornali che hanno adombrato imminenti "cambiamenti" alla direzione di Avvenire e insinuato che gli attacchi al quotidiano cattolico sarebbero partiti da ambienti ecclesiali.

Boffo, nel suo commento alle lettere, respinge tutte le accuse mossegli da Vittorio Feltri, verso il quale a tratti usa anche espressioni ironiche come quando lo definisce il "Mourinho dei direttori" o il "primo degli astuti", che però non ha saputo controllare "con più attenzione le carte" in suo possesso forse fidandosi troppo di "qualche consigliere" all'interno del suo giornale, dandogli comunque "appuntamento in Tribunale". Punto centrale dell'autodifesa di Boffo è che non esistono "informative" di fascicoli giudiziari o della Polizia di Stato che proverebbero le sue presunte molestie sessuali. Il "documento" citato come prova da Il Giornale per incastrare il direttore di Avvenire sarebbe una "vera sola, una patacca", come - scrive Boffo - gli ha assicurato anche il ministro degli Interni Roberto Maroni "in una inattesa telefonata" nella quale il capo del Viminale "ha voluto manifestarmi la sua solidarietà e il senso di schifo che gli nasceva dalle cose lette" su Il Giornale. Il ministro - riferisce ancora il direttore - "teneva anche ad assicurarmi di aver ordinato un'immediata verifica nell'apparato di pubblica sicurezza centrale e periferico che da lui dipende, e che nulla, assolutamente nulla di nulla era emerso".

Dalla Cei, intanto, un altro intervento pro Boffo arriva da monsignor Diego Coletti, vescovo di Como e presidente della Commissione episcopale per l'educazione, il quale in una lettera aperta accusa Feltri di aver usato "criteri pericolosi e immorali per far piacere al suo editore di riferimento e vendere più copie". Il vescovo ricorda pure che "il rito abbreviato e il conseguente patteggiamento di pena (ricordati da Feltri come prove della presunta colpevolezza di Boffo), non costituisce da parte dell'accusato ammissione di colpa, ma corrisponde solo alla scelta spesso consigliata dagli avvocati di evitare le scandalose lungaggini dei processi italiani". Ed è proprio quello che, per Coletti, "è successo a Boffo".

(31 agosto 2009)

Una democrazia debole

ANTONIO DI PIETRO
31 Agosto 2009

Con il ritardo che contraddistingue un certo tipo di opposizione, quella delle piume per intenderci, finalmente l’Italia sembra aver capito chi ha portato alla Presidenza del Consiglio. Ora che lo squalo ha fatto incetta della libera informazione, riducendola a brandelli, si accinge a sbranare i pesci più grossi che si ritenevano al sicuro.

Rai, Repubblica, The Guardian, Avvenire, El Pais, Videocracy, "Biutiful Countri" ma anche blogger, contestatori di piazza, giornalisti e presentatori, ogni volta che osano contestare la propaganda di governo, vengono fatti oggetto di repressione. Per farlo questa maggioranza utilizza tutti i mezzi messi a disposizione dalle istituzioni: forze dell’ordine, moniti alla platea di Confindustria, interruzione di finanziamenti pubblici, televisioni di Stato e parlamentari avvocati.

Non riesco neanche più a comprendere chi voglia al governo Silvio Berlusconi se non una manciata di parlamentari che temono per la loro pensione, una falange sudista alla guida di Miccichè, che lo tiene sotto scacco con il Partito del Sud, i lettori dei giornali di famiglia e qualche signora sintonizzata su Rete4, innamorata di Emilio Fede. Tolto questo folto, ma sparuto, gruppo di interessati fan, il Vaticano ed i cattolici prendono le distanze dalle festicciole rosse, il mondo degli industriali chiede continuamente interventi che non arrivano, la scuola e l’istruzione agonizzano devastate dai licenziamenti, gli operai sono da tempo senza lavoro e senza casa, gli investitori internazionali sono tutti fuggiti dal Belpaese. I vari Primi ministri lo schivano per evitare gaffe anche per uno scatto fotografico e, da ultimo, il Financial Times gli dedica una prima pagina di denigrazione, segnale che ritengo particolarmente significativo poiché indica una sola cosa: anche il mondo della finanza ha scaricato l’Italia.

Non ricordo una Presidenza del Consiglio più devastante di questa, e mai avrei immaginato che l’Italia cadesse così in basso senza accorgersene.

L’Italia è isolata e schiacciata tra Paesi con derive dittatoriali, ai quali inviamo le Frecce tricolori per real politik, dicono, e potenze economiche in forte sviluppo da cui siamo emarginati per gli scandali e le pessime scelte politiche del governo.

Comincio a pensare che se un Paese che vuole togliersi di torno un Presidente del Consiglio, con un consenso di poco superiore al 15% sul totale della popolazione con diritto al voto come ci dicono gli ultimi risultati delle europee, non è in grado di farlo attraverso le proprie leggi, allora è la democrazia ad essere debole e gli strumenti costituzionali di difesa sono lacunosi. Forse è il caso di pensare a nuovi meccanismi che, più che proteggere le istituzioni, penso all’immunità parlamentare o il lodo Alfano, proteggano i cittadini da quest’ultime.

Pubblico di seguito le 10 domande di La Repubblica ed invito i lettori a fare altrettanto sui propri blog:

1. Quando, signor presidente, ha avuto modo di conoscere Noemi Letizia? Quante volte ha avuto modo d’incontrarla e dove? Ha frequentato e frequenta altre minorenni?
2. Qual è la ragione che l’ha costretta a non dire la verità per due mesi fornendo quattro versioni diverse per la conoscenza di Noemi prima di fare due tardive ammissioni?

3. Non trova grave, per la democrazia italiana e per la sua leadership, che lei abbia ricompensato con candidature e promesse di responsabilità politiche le ragazze che la chiamano «papi»?

4. Lei si è intrattenuto con una prostituta la notte del 4 novembre 2008 e sono decine le “squillo” che, secondo le indagini della magistratura, sono state condotte nelle sue residenze. Sapeva che fossero prostitute? Se non lo sapeva, è in grado di assicurare che quegli incontri non l’abbiano resa vulnerabile, cioè ricattabile – come le registrazioni di Patrizia D’Addario e le foto di Barbara Montereale dimostrano?

5. È capitato che “voli di Stato”, senza la sua presenza a bordo, abbiano condotto nelle sue residenze le ospiti delle sue festicciole?

6. Può dirsi certo che le sue frequentazioni non abbiamo compromesso gli affari di Stato? Può rassicurare il Paese e i nostri alleati che nessuna donna, sua ospite, abbia oggi in mano armi di ricatto che ridimensionano la sua autonomia politica, interna e internazionale?

7. Le sue condotte sono in contraddizione con le sue politiche: lei oggi potrebbe ancora partecipare al Family Day o firmare una legge che punisce il cliente di una prostituta?

8. Lei ritiene di potersi ancora candidare alla presidenza della Repubblica? E, se lo esclude, ritiene che una persona che l’opinione comune considera inadatta al Quirinale, possa adempiere alla funzione di presidente del consiglio?

9. Lei ha parlato di un «progetto eversivo» che la minaccia. Può garantire di non aver usato né di voler usare intelligence e polizie contro testimoni, magistrati, giornalisti?

10. Alla luce di quanto è emerso in questi due mesi, quali sono, signor presidente, le sue condizioni di salute?

Il posto della Chiesa in tempi pagani


di ILVO DIAMANTI


È SINGOLARE vedere la Chiesa all'opposizione. Soprattutto oggi, che governa il centrodestra guidato da Silvio Berlusconi, particolarmente attento e disponibile nei confronti delle richieste della Chiesa: sulla bioetica, sulla scuola e sull'educazione, sulla famiglia. Mentre le incomprensioni con il precedente governo di centrosinistra erano comprensibili. Eppure mai, nella contrastata (per quanto breve) stagione dei rapporti con il governo Prodi, si era assistito ad attacchi tanto violenti, nei confronti della Chiesa, come quelli lanciati negli ultimi giorni dal centrodestra.

Prima: le reazioni della Lega alle critiche espresse dal mondo cattolico in merito alle politiche sulla sicurezza e sull'immigrazione. Culminate nella minaccia - apertamente evocata dal quotidiano "La Padania" - di rivedere il Concordato. Poi l'attacco rivolto dal "Giornale" al direttore di "Avvenire", Dino Boffo (il quale ha parlato di "killeraggio"). Accusato di non avere titolo per esprimere giudizi "morali" sugli stili di vita del premier. Troppi e troppo ravvicinati, troppo violenti, questi interventi per apparire casuali. Come si spiega l'esplodere di queste tensioni? E, in particolare, cosa ha spinto all'opposizione la Chiesa, fino a ieri interlocutore affidabile del governo?

In effetti, occorre distinguere. I rapporti con la Lega sono sempre stati conflittuali. Basti pensare al periodo intorno alla metà degli anni Novanta, quando la Chiesa si oppose alla strategia secessionista della Lega. Allora Bossi si scagliò contro il Papa polacco e i "vescovoni romani arruolati nell'esercito di Franceschiello, l'esercito del partito-Stato". In altri termini: contro la Chiesa, ritenuta (non senza ragione) il collante, forse più denso, dell'unità nazionale. Oggi, invece, il problema è prodotto dalle critiche del mondo cattolico - le associazioni, i media, le gerarchie - contro le politiche del governo sulla sicurezza e l'immigrazione. Cioè: il vero marchio della Lega (degli uomini spaventati). Più ancora del federalismo.

D'altronde, il mondo cattolico, su questi temi, esprime un progetto fondato sull'accoglienza, sulla carità, sull'integrazione. Concretamente praticato attraverso associazioni e istituzioni diffuse sul territorio. Dalla Caritas, ai gruppi di volontariato, alle parrocchie. Assai più della sinistra, è il mondo cattolico l'alternativa alla cultura e al linguaggio leghista. Non solo sui temi della sicurezza e degli immigrati. Perché il mondo cattolico è presente e attivo soprattutto dove è forte la Lega. Cioè: nella provincia del Nord. Dove i campanili costituiscono ancora un centro della vita sociale. Da ciò un conflitto inevitabile. Che è, in parte, competizione. Anche perché la Lega si propone come una sorta di "Chiesa del Nord". Con i suoi riti, i suoi simboli, i suoi valori, le sue reti di appartenenza locale. Ronde comprese. Della tradizione cattolica accetta gli aspetti, appunto, più tradizionali e tradizionalisti. Le "radici cristiane" rivendicate dalla Lega coincidono, in effetti, con la "religione del senso comune".

Diverso - e meno prevedibile - è invece il contrasto diretto con il premier e il PdL. Innescato dalla velenosa inchiesta dedicata dal "Giornale" al direttore dell'"Avvenire". Definito un "lapidatore che non ha le carte in regola per lapidare alcuno". In particolare il premier. Immaginare Dino Boffo - prudente per natura (e incarico) - impegnato a scagliare parole dure come le "pietre" risulta (a noi, almeno) davvero difficile. Per questo, la reazione del "Giornale" appare sproporzionata rispetto al contenuto e al tono delle critiche apparse su "Avvenire".

Era difficile, d'altronde, che i vescovi italiani tacessero di fronte al disagio emerso in molti settori del clero e in molti esponenti del mondo cattolico. Tanto più al tempo di Papa Ratzinger, che ha fatto del contrasto al relativismo etico un marchio e un programma.
Tuttavia, nonostante le smentite di questi giorni, ci riesce altrettanto difficile pensare che Vittorio Feltri abbia lanciato il suo attacco "senza preavviso". Senza, cioè, avvertire almeno il premier. Il che suggerisce una ulteriore spiegazione della singolare (op) posizione assunta dalla Chiesa in questa fase.

Vi sarebbe stata spinta, più che per propria scelta, dallo stesso premier e dalla Lega. Per diverse ragioni.
(a) Intimidire l'unico soggetto capace, nell'Italia d'oggi, di esercitare un effettivo controllo morale, istituzionale e sociale.
(b) Dividere la Chiesa stessa, al proprio interno; isolando gli ambienti accusati di simpatie per la "sinistra"; e ponendola in contrasto con il suo stesso popolo. In larga parte vicino alle posizioni della Lega, in tema di sicurezza e immigrazione. E indulgente verso i comportamenti e gli stili di vita esibiti dal premier.
(c) C'è, infine e al fondo di tutto, la crisi del modello, proposto e imposto da Ruini alla fine della prima Repubblica. La "Chiesa extraparlamentare" (come la definisce Sandro Magister), che agisce ora come movimento, ora come gruppo di pressione. A sostegno dei propri riferimenti di valore e di interesse. Senza partiti cattolici né "di" cattolici.

Oggi sembra suscitare molti dubbi. E in alcuni settori della Chiesa e del mondo cattolico emerge la nostalgia di un polo alternativo: a una destra amica ma pagana. E a una sinistra laicista e comunque inaffidabile. Da ciò l'idea (post-ruiniana) di un soggetto politico che metta insieme Casini, Tabacci, Pezzotta. Rutelli e Montezemolo. Magari Letta (Gianni). D'altra parte, 4 cattolici praticanti su 10 non hanno un partito di riferimento. Sono patologicamente incerti. Anche così si spiega la reazione di Berlusconi - e l'azione di Feltri. Volta a scoraggiare la costruzione di un nuovo partito collaterale alla Chiesa. Mentre al premier - e alla Lega - piace di più l'idea di una Chiesa collaterale o, comunque, affiancata al PdL. In grado - non da ultimo - di santificare un modello di vita che - come ha ammesso il premier - santo non è. Ma, anzi, piuttosto pagano.

(31 agosto 2009)

Il Pd: "Il caso in Parlamento". Copasir: "Vigileremo sui servizi"


di ALBERTO CUSTODERO


È scontro sulla "velina" sul direttore dell'Avvenire, Dino Boffo, pubblicata da Vittorio Feltri sul Giornale. Il Pd chiede che il caso si affronti in Parlamento mentre il Copasir, l'organo di controllo sugli 007, assicura che "vigilerà sul corretto funzionamento dei servizi in questo momento delicato della vita democratica". Feltri, intanto, dopo la rivelazione di Repubblica di ieri - la "nota informativa" citata dal Giornale non è contenuta nelle carte giudiziarie del Tribunale di Terni - è investito da una bufera di accuse. Ed è costretto a smentirsi fino quasi a negare l'esistenza della "nota informativa" citata per ben tre volte nell'inchiesta del Giornale nella quale Boffo viene definito "noto omosessuale già attenzionato dalla polizia di Stato per questo genere di frequentazioni...".

Emanuele Fiano, deputato pd e membro del Copasir, lo sfida: "Se ha quel documento, lo tiri fuori. Così vedremo da chi è firmato". È dunque ora il direttore del Giornale a doversi giustificare per rispondere alla domanda che da più parti gli viene posta: "Dove ha preso quella "nota informativa"?".

"Non ho mai parlato di schedature o informative giudiziarie - si difende ora Feltri - e il Viminale non c'entra in alcun modo. Abbiamo un documento che prova un fatto (il patteggiamento di Boffo, non i riferimenti alla sua vita privata, ndr), il resto non conta. Non conta da chi l'abbiamo avuto, non conta se ci sono errori perché non è un testo di diritto. Anche se i termini fossero impropri, i fatti sono questi e se qualcuno è in grado di smentirli lo faccia". Ma l'articolo del Giornale di venerdì parlava invece proprio di una "nota informativa che accompagna e spiega il rinvio a giudizio del direttore di Avvenire disposto dal Gip".

D'altronde è proprio in quella nota che sono contenute le frasi più gravi su Boffo definito "un noto omosessuale già attenzionato dalla Polizia per questo genere di frequentazioni". Negli atti giudiziari del resto non si fa nessun accenno alla vita privata di Boffo: quindi non è affatto irrilevante come sostiene oggi il direttore del Giornale, da dove provenga e che attendibilità abbia il documento su cui ha fondato la sua azione di killeraggio. Feltri nega, poi, di essersi recato a Palazzo Chigi dopo la sua nomina al Giornale.

"Non vado a Roma da 4 mesi - dichiara - non sono stato a Palazzo Chigi, né a Palazzo Grazioli. L'unico che ho sentito, venerdì scorso, è stato Gianni Letta. Voleva avere notizie dell'articolo. Ma erano le 23,30, e il Giornale era già in stampa". Berlusconi sostiene "di non aver mai avuto in questi giorni alcuna conversazione telefonica" col direttore del giornale di famiglia.

Ma la sua risposta non placa le polemiche politiche. "Quelle contro Boffo, ma anche altre allusioni minacciose - commenta il senatore pd Luigi Zanda - hanno le stesse caratteristiche delle "veline" che, in anni recenti e passati, hanno inquinato l'aria della nostra Repubblica". Mentre il deputato europeo leghista Matteo Salvini ammette che "il caso Boffo potrebbe essere un avvertimento alla gerarchia ecclesiastica", anche il capogruppo pd all'Antimafia, Laura Garavini, chiede chiarezza: "C'è un inquietante sospetto che grava sul governo, che a questo punto deve fare al più presto chiarezza in questa bruttissima vicenda".

A proposito di presunte schedature di omosessuali da parte del Viminale Boffo ha fatto sapere di aver ricevuto una telefonata dal ministro dell'Interno. "Maroni mi ha assicurato che quell'"informativa" non esce dall'apparato della pubblica sicurezza".

(31 agosto 2009)

Boffo, la "velina" anonima arrivò a tutti i vescovi



di ZITA DAZZI


Una fotocopia del certificato del casellario giudiziale del direttore di Avvenire, Dino Boffo. E, attaccato con una graffetta, un secondo foglio, dattiloscritto, non firmato e compilato in un italiano malfermo, dal titolo elusivo: "Riscontro a richiesta di informativa di sua Eccellenza". In queste due pagine, arrivate oltre due mesi fa sulle scrivanie di tutti i vescovi italiani, era scritta la storia che in questi giorni il Giornale della famiglia Berlusconi ha sbattuto in prima pagina.

L'arcivescovo di Milano Dionigi Tettamanzi, viene citato nel documento anonimo, come il cardinale Camillo Ruini e come il vescovo di Firenze Giuseppe Betori. Ed è proprio monsignor Betori a rivelare di aver cestinato quella lettera senza mittente e a scagliarsi contro i "fogli anonimi che circolano in questi giorni, assurti al rango di 'informativa'. Li ho sempre ritenuti - come ogni missiva anonima - degni del cestino della spazzatura, da cui provengono e devono tornare".

Della missiva si parlava da tempo negli ambienti ecclesiastici ed erano in molti a interrogarsi sulla provenienza di quel materiale imbarazzante e pieno di insinuazioni sul direttore del quotidiano della Cei. Nessuno aveva dubbi sul primo dei due fogli, visto che, pur essendo stata cancellata col pennarello la sede, c'era il timbro di una Procura della Repubblica e un estratto del casellario dal quale risulta il decreto penale del Tribunale di Terni a carico di Boffo. Ma sulla seconda pagina, gli alti prelati che l'hanno ricevuta, hanno visto l'ombra di una qualche burocrazia legata ai servizi segreti o di qualche nemico del giornalista nello stesso mondo cattolico.

È il linguaggio, poco giuridico, a tradire l'estensore del secondo foglio, ripreso senza alcuna modifica dall'articolo sul Giornale di Vittorio Feltri e citato come "nota informativa" in accompagnamento all'atto del giudice per le indagini preliminari. "Il Boffo è stato a suo tempo querelato da una signora di Terni - si legge testualmente, con tanto di errori di ortografia - destinataria di telefonate sconcie e offensive e di pedinamenti volti a intimidirla onde lasciasse libero il marito con il quale il Boffo aveva una relazione omosessuale".

Le stesse parole dell'articolo che ha puntato l'indice contro il direttore di Avvenire, reo di aver espresso critiche nei confronti del presidente del Consiglio. I cardinali e i vescovi che hanno ricevuto la missiva anonima non hanno tenuto in nessun conto le altre notizie peccaminose che si leggono nel messaggio: "Il Boffo è un noto omosessuale già attenzionato dalla Polizia di Stato per questo genere di frequentazioni e gode indubbiamente di alte protezioni, correità e coperture in sede ecclesiastica".

Il vescovo di Firenze Betori, amico di lunga data del direttore di Avvenire, non ha dubbi di fronte a quei veleni: "Quale sia la mia stima e fiducia nei confronti del dottor Boffo lo mostra la collaborazione con lui instaurata negli anni del mio servizio alla Cei".

(31 agosto 2009)

domenica 30 agosto 2009

Papi, uno scandalo politico

19 luglio 2009


Questo è un instant book, uno di quei libri che si scrivono in fretta e si leggono ancor più velocemente, perché c’è un’urgenza. Noi l’abbiamo avvertita il mese scorso, quando il nuovo direttore del Tg1 ha comunicato all’inclita e al colto che i gravissimi scandali che da mesi inseguono il presidente del Consiglio non sono notizie, ma pettegolezzi, e dunque il principale telegiornale del «servizio pubblico» non li racconterà. Oppure seguiterà a farlo con servizi criptati e cambiando nome alle cose per nasconderle meglio («escort» invece di prostitute, «imprenditori» invece di prosseneti, «utilizzatori finali» invece di clienti, nel nostro caso il presidente del Consiglio secondo un’efficace definizione del suo onorevole avvocato).
Non che prima i tg brillassero per completezza d’informazione, nel paese di nuovo declassato da Freedom House a «semilibero», a pari merito con l’isola di Tonga. Ma che un direttore teorizzasse la censura, anzi l’autocensura, non era mai accaduto neppure in Italia.
Per farsi un’idea completa sui casi delle euroveline, del divorzio del premier, dei voli di Stato per trasportare nani e ballerine, delle imbarazzanti feste a Palazzo Grazioli e a Villa Certosa con «ragazzeimmagine » e prostitute reclutate da gente implicata in lenocinii e traffici di droga, gli italiani dovrebbero acquistare quotidianamentecinque o sei giornali, fra italiani e stranieri. Troppi. Anche perché le notizie più scandalose sono emerse dopo la chiusura estiva di tutti i programmi televisivi di approfondimento giornalistico. Ecco dunque questo libro veloce che mette insieme tutte le tessere dell’osceno mosaico. Nulla di quanto raccontiamo invade la privacy di questo o quello, nulla può essere classificato come gossip sulla vita privata di persone private (di cui saremmo ben felici se venisse decretata l’abolizione per legge). Anche se è grottesco che l’editore di svariate testate dedite al gossip e all’invasione della privacy altrui possa poi invocarla per sé, e soltanto per sé, le vicende narrate in questo libro sono tutte di rilevanza pubblica. E costituiscono un gigantesco scandalo politico. Per una serie di ragioni che qui riassumiamo per punti.
1. La salute psichica del capo del governo italiano, messa in serio dubbio dalla donna che lo conosce meglio, sua moglie Veronica, e da una serie impressionante di suoi comportamenti tenuti in pubblico, o in privato ma di rilevanza pubblica.
2. Le continue menzogne con cui Silvio Berlusconi tenta di annullare gli scandali che lo stanno travolgendo, spesso facendo o lasciando fabbricare veri e propri «falsi da laboratorio» dai suoi numerosi house organ televisivi o stampati. Sia per coprire le gesta del premier-padrone, sia per screditare quei pochi che ancora non si sono posti al suo servizio.
3. L’incoerenza del capo di un governo che emana leggi per vietare agli altri ciò che fanno lui e i suoi amici: dal carcere per i consumatori di droghe anche leggere,
al carcere per le prostitute e i loro clienti, al carcere per i molestatori telefonici («stalkers»). Leggere sui giornali in rapida successione, com’è avvenuto il 25 giugno 2009, che «una prostituta ha trascorso una notte con il premier» e, nella pagina successiva, che «slitta a settembre la legge Carfagna contro la prostituzione», può indurre a sorridere soltanto chi non abbia a cuore le sorti del nostro Paese.
4. Il discredito internazionale a cui il presidente del Consiglio espone ogni giorno il paese che dovrebbe rappresentare «con disciplina e onore» (articolo 54 della Costituzione Repubblicana).
5. L’emanazione di leggi, come quella per limitare drasticamente le intercettazioni da parte della magistratura e la cronaca giudiziaria da parte della libera stampa, al fine di occultare atti giudiziari in cui sono già emerse sue condotte imbarazzanti, o potrebbero emergere in futuro.
6. L’uso politico ed elettorale da sempre fatto da Silvio Berlusconi – «il più grande privatizzatore della politica in Occidente» (Barbara Spinelli) – delle sue vicende familiari e delle sue presunte convinzioni religiose: dai baciamano ai Papi (nel senso dei Pontefici), alla diffusione di fotoromanzi elettorali in cui la sua famiglia viene dipinta come un modello di concordia, alla sfilata del Family Day per contrastare il progetto di estendere i diritti civili alle coppie di fatto, alla lettera di Sandro Bondi ai parroci di tutt’Italia per invitarli a sostenere Forza Italia, partito custode dei più genuini valori cristiani.
7. La commistione fra vicende private e incarichi pubblici o retribuiti con denaro pubblico, emersa clamorosamente con la candidature di alcune «favorite del Sultano» alle elezioni politiche, europee, amministrative, ma anche con la raccomandazione di alcune delle suddette per farle lavorare alla Rai, a spese dei contribuenti. E il disprezzo per la Politica sotteso a queste scelte, che hanno trasformato gran parte del Parlamento e delle istituzioni di garanzia in assemblee e comitati di yesmen pronti e proni a tutto, pur di compiacere il Capo che ha trasformato tante zucche in altrettante carrozze dorate.
8. I pericoli per la sicurezza nazionale derivanti dall’ingresso incontrollato nelle residenze del premier (assurte al rango di edifici di Stato e spesso protette dal segreto di Stato) di decine di persone, spesso sconosciute allo stesso padrone di casa, fra le quali potrebbe nascondersi un agente provocatore, un attentatore, una spia.9.
Il degrado ormai scandaloso cui, con lusinghe e minacce, promesse ed editti bulgari e post-bulgari, egli ha costretto le due principali istituzioni di garanzia e controllo: la magistratura e l’informazione, davastando la Costituzione, i codici e i diritti di libertà pur di nascondere al grande pubblico il peggio di se stesso. Il tutto in un paese dove – secondo l’indagine del Censis pubblicata dopo le elezioni europee e amministrative di giugno – il 69,3 per cento degli elettori forma la sua scelta attraverso le notizie e i commenti trasmessi dai telegiornali (il dato sale al 76 per cento per i meno istruiti, al 78 per i pensionati, al 74,1 per le casalinghe).
10. L’estrema ricattabilità del presidente del Consiglio da parte di decine, forse centinaia di persone, a conoscenza di suoi «altarini» che, se resi pubblici, potrebbero travolgere quel che resta della credibilità sua e del Paese che egli così indegnamente rappresenta. Ricattabilità già peraltro emersa in vicende, se possibile, infinitamente più gravi di quelle trattate in questo libro. L’avvocato Cesare Previti che pretende leggi per salvarsi dal carcere. L’avvocato David Mills che incassa 600mila dollari dalla Fininvest per non dire tutto ciò che sa su Silvio Berlusconi in due processi a carico di quest’ultimo. Marcello Dell’Utri che viene ascoltato dal consulente di Publitalia Ezio Cartotto mentre dice, nel marzo del 1994: «Silvio non capisce che deve ringraziarmi, perché se dovessi aprire bocca io...». Una mezza dozzina di coimputati del Cavaliere trasformatisi, come per incanto, in parlamentari di Forza Italia, ben prima che la stessa sorte toccasse a questa o quell’attricetta. E così via.
Certo, avremmo preferito che il suo crepuscolo politico arrivasse per i suoi rapporti con la mafia, le storie di corruzione, i fondi neri, i bilanci truccati, i conflitti d’interessi, le leggi canaglia. Vicende evidentemente troppo serie per un paese ridicolo, che anche lui ha contribuito a ridurre in questo stato. Ciascuno ha il 25 luglio che si merita: il suo somiglia a un film con Alvaro Vitali. Non sappiamo quando l’Italia si libererà di questa maledizione, e soprattutto in quali condizioni e a quale prezzo.
Ma sappiamo che riuscirà a farlo soltanto quando avrà acquisito un minimo di informazione. Da quando la stampa estera ha messo gli occhi sul caso Italia e ha deciso di non sollevarli più, anche la stampa italiana (quella stessa che, salvo rare eccezioni, ancora un anno fa descriveva Silvio Berlusconi come uno «statista» completamente trasformato rispetto al passato, dunque «pronto per il Quirinale») è stata costretta a raccontare qualcosa. Sia pur di rimbalzo. Vale la pena insistere.