martedì 31 agosto 2010

Sviluppo economico, 4 mesi senza ministro mentre il Paese insegue la ripresa


di MASSIMO GIANNINI

C'È una vicenda esemplare che la politica, l'establishment e l'opinione pubblica continuano a sottovalutare. Fotografa la palude nella quale sta sprofondando il governo Berlusconi. Riflette l'irresponsabilità nella quale sta declinando il presidente del Consiglio. Questa vicenda si chiama ministero per lo Sviluppo Economico. Oggi sono 119 giorni. Sabato prossimo saranno 4 mesi esatti. Nell'anno più nero dell'industria italiana, nel cuore di una recessione di cui non si vede l'uscita, a tanto "ammonta" il vuoto di potere in quel dicastero, strategico per la tenuta del Sistema-Paese e per il sostegno delle imprese.

La sede è "vacante" da maggio. Da allora il premier esercita un'impalpabile e insostenibile "supplenza", in attesa di nominare il nuovo ministro. Attesa vana, consumata nel Palazzo tra annunci ambigui, tentativi grotteschi, promesse inevase. Attesa cara, pagata dall'Italia al prezzo di una crisi economica e occupazionale gravissima. Ci si chiede come sia possibile, in una grande democrazia industriale impegnata a fronteggiare la "tempesta perfetta" di questi ultimi due anni.

Eppure succede, nell´Italia berlusconiana di oggi, dove l´intera dimensione della politica economica si esaurisce nella tenda beduina di Gheddafi, nella pacca sulle spalle con Putin, nel verso del «cucù» ad Angela Merkel. Era il 4 maggio scorso, dunque, quando Claudio Scajola si dimise da ministro dello Sviluppo Economico in circostanze avventurose. Sui giornali rimbalzano da giorni i verbali delle procure, dai quali si evince senza ragionevoli dubbi che la «cricca» del G-8 - cioè quel micidiale sistema di potere imperniato intorno ad Anemone, Balducci e la Protezione Civile di Guido Bertolaso - ha pagato al ministro il prestigioso appartamento romano, vista Colosseo, nel quale risiede con la famiglia. In conferenza stampa, di fronte ai cronisti attoniti, l´autodifesa di Scajola è surreale: «Un ministro non può sospettare di abitare una casa pagata in parte da altri... Siccome considero la politica un´arte nobile, con la p maiuscola, per esercitarla bisogna avere le carte in regola e non avere sospetti... Mi devo difendere, e per difendermi non posso fare il ministro come ho fatto in questi due anni...». Quasi un caso di comicità involontaria. Il premier assume invece i toni gravi: «Scajola ha assunto una decisione sofferta e dolorosa, che conferma la sua sensibilità istituzionale e il suo senso dello Stato...». È un testacoda, nel quale il colpevole diventa vittima, il sospettato diventa colui che sospetta. La sera stessa Berlusconi va al Quirinale da Napolitano, e prende l´interim del dicastero. Rassicura il Capo dello Stato: «Presidente, dammi qualche giorno e tornerò da te con il nuovo ministro per il giuramento».

Mai promessa fu più bugiarda. Il presidente del Consiglio ci prova, ma a modo suo. Risultano agli atti almeno tre tentativi. Il primo è un sondaggio telefonico con Luca Cordero di Montezemolo, a metà maggio. Respinto al mittente: il presidente della Ferrari non lascia il suo team, e comunque ha ben altre ambizioni. Il secondo tentativo è di pochi giorni dopo. Il 27 maggio, all´assemblea annuale della Confindustria, il premier lancia un´«opa» su Emma Marcegaglia. Davanti ai duemila delegati confindustriali, sale sul palco e dice: «Volete voi che il nostro presidente di Confindustria affianchi il presidente del Consiglio al ministero dello Sviluppo Economico? Alzi la mano chi dice sì...». In una sala ammutolita, tra lo stupore e l´imbarazzo, cala il gelo. E il premier chiosa la sua gaffe: «Nessuno? Allora non potete lamentarvi di quei poveracci che sono al governo e che hanno ereditato un deficit pubblico che si è moltiplicato per otto...». Il terzo tentativo è di un mese dopo: a metà giugno, al termine di un incontro a Palazzo Chigi con le parti sociali, Gianni Letta «abborda» il leader della Cisl, Raffaele Bonanni: «Silvio mi chiede di dirti se saresti disposto a fare il ministro dello Sviluppo Economico...». La notizia non è il rifiuto di Bonanni. Quanto piuttosto la disinvoltura con la quale un importante incarico di governo, decisivo per gli assetti dell´economia, viene offerto indifferentemente a chiunque: un leader degli industriali o un dirigente sindacale.

Incassati i tre no, Berlusconi tira avanti come nulla fosse. Fa di peggio: non nomina un ministro necessario, ne nomina uno impossibile. Il 24 giugno porta al Quirinale non il successore di Scajola, ma Aldo Brancher, premiato «ad personam» all´Attuazione del federalismo, e nominato ministro solo per sfuggire a un processo penale, come nella migliore tradizione berlusconiana. Intanto crescono le tensioni sociali, e in parallelo le pressioni politiche. Dilagano le crisi della Glaxo, deflagrano le proteste dei minatori nel Sulcis, esplode il conflitto sulla Fiat di Pomigliano. In Parlamento piovono le interrogazioni parlamentari su un interim che, alla luce di quello che sta avvenendo nel Paese, sembra sempre più incomprensibile. Il 22 luglio i capigruppo dell´Idv al Senato, Donadi e Belisario, scrivono al presidente della Repubblica: «Intendiamo, con questa lettera aperta, portare alla Sua attenzione la nostra preoccupazione per questo delicatissimo dicastero, strategico per il rilancio dell´economia italiana...». L´iniziativa coglie nel segno. Il giorno dopo al Quirinale, durante la cerimonia del Ventaglio, Napolitano parla chiaro ai giornalisti, prima della pausa estiva: «L´istituzione governo non può ormai sottrarsi a decisioni dovute, come quella della nomina del titolare del ministero dello Sviluppo Economico e del presidente di un importante organo di sorveglianza come la Consob...». Nel frattempo, infatti, all´urgenza di sostituire Scajola si aggiunge quella di sostituire Lamberto Cardia, che il 28 giugno ha lasciato dopo 13 anni il vertice della Commissione di controllo sulle società e la Borsa. Altra posizione «apicale», che una grande nazione capitalista alle prese con fibrillazioni finanziarie e tracolli di mercato non dovrebbe permettersi di lasciare sguarnita.

L´appello del Capo dello Stato sembra raccolto. Lo stesso giorno, a Milano, al termine di un bilaterale con il presidente russo Putin, Berlusconi in conferenza stampa fa un annuncio impegnativo: «In questo periodo ho fatto qualche cambiamento importante nella struttura del ministero, ma ora posso annunciare che la prossima settimana procederemo alla nomina del nuovo ministro per lo Sviluppo Economico...». La notizia viene accolta da un sospiro di sollievo. Non solo sul Colle, ma anche in Parlamento e tra le parti sociali. Ma il sollievo svanisce presto. Il 4 agosto, nell´ultimo Consiglio dei ministri prima delle ferie, la nomina del nuovo ministro «non compare all´ordine del giorno». Il leader del Pd Bersani tuona: «È una vergogna». Fioccano nuove interrogazioni parlamentari. Trapela l´irritazione del Quirinale. Ma il premier tace. Non ha nulla da dire. Nella maggioranza parla solo Daniela Santanchè, con una frase memorabile: «Berlusconi all´interim sta facendo bene...». Da allora, più nulla. E adesso, alla ripresa di settembre, lo Sviluppo Economico rimane ancora «sede vacante».

Nel metodo, l´interim è un´anomalia per due ragioni. La prima ragione è che Berlusconi ci ha abituato a farne un uso smodato. Accadde il 5 gennaio 2002, quando lo assunse agli Esteri dopo le dimissioni di Renato Ruggiero in polemica sull´Europa. Accadde il 2 luglio 2004, quando lo assunse all´Economia dopo le dimissioni di Giulio Tremonti in seguito agli scontri con An e Udc. Accadde il 10 marzo 2006, quando lo assunse alla Sanità dopo le dimissioni di Francesco Storace travolto dal Laziogate. in totale, 471 giorni di interim in tre legislature. Troppi. La seconda ragione è che anche questo interim amplifica, ancora una volta, l´ennesimo conflitto di interessi di un presidente del Consiglio-proprietario di un impero mediatico che, nella sua veste di «ministro competente», deve decidere l´assegnazione delle frequenze televisive alle quali concorre anche Sky (principale concorrente di Mediaset sulla tv digitale) e deve firmare il contratto di servizio con la Rai (principale concorrente di Mediaset sulla tv generalista).

Nel merito, l´interim è un danno per il Paese. Mentre Berlusconi si occupa d'altro, la recessione non rallenta, semmai morde più a fondo nella carne viva degli italiani. Il premier-ministro non parla delle numerose crisi emerse, da Telecom alla Fiat di Pomigliano e Melfi. E non si occupa delle innumerevoli crisi sommerse. Secondo Movimprese, nel secondo trimestre di quest´anno (e dunque in piena coincidenza con l´interim) le aziende italiane che hanno portato i libri in tribunale per fallimento sono aumentate a 3.505, contro le 2.897 dello stesso periodo del 2009. E secondo un report diffuso dallo stesso dicastero dello Sviluppo Economico a metà agosto, i «tavoli» di crisi aziendale aperti presso il ministero, nei primi otto mesi dell´anno, sono passati da 100 a 170. Chi se ne occupa? «I posti di lavoro a rischio - si legge nel documento - sono circa 200 mila». Chi se ne fa carico? «Su 686 "Sistemi locali di lavoro" mappati a livello nazionale, 113 sono in "elevata crisi", 136 sono in "crisi medio-alta"». Chi li monitorizza? Sono domande senza risposta. L´unica cosa certa è che prima dell´estate (come «Repubblica» ha certificato) è cominciato un silenzioso smembramento del ministero. La manovra 2011 gli ha sottratto 900 milioni di fondi di dotazione. I fondi Ue e Fas sono stati trasferiti al ministro degli Affari regionali Raffaele Fitto. I circa 800 milioni di fondi per il turismo sono passati direttamente sotto la gestione di Michela Vittoria Brambilla. L´Istituto per la Promozione Industriale è stato soppresso. E il 24 giugno 150 imprenditori che avevano vinto il bando per le agevolazioni previste dal programma «Industria 2015» e non hanno visto un solo euro, hanno scritto una lettera al premier: «In queste condizioni è difficile realizzare gli obiettivi condivisi dal ministero».

Non hanno avuto né soldi né risposte. La poltrona dello Sviluppo Economico è mestamente vuota. Da 119 giorni. Quella della Consob lo è altrettanto, da 64 giorni. Ma non importa. «La nave va», avrebbe detto uno dei più famosi «maestri» del Cavaliere. Giusto pochi mesi prima di sfasciarsi sugli scogli.

(31 agosto 2010)

OIL

Protestare contro Dell’Utri: Liberale o no? La parola ai politici e società civile


Se per Sgarbi anche la moglie di Riina ha il diritto di presentare un "Raffaello", per Nando Dalla Chiesa "chiunque lo invita è complice". Tobagi: così é chiara la differenza tra le "comparsate in tv" e gli incontri con la "gente reale".

Davvero è illiberale contestare un uomo che non solo è stato condannato in secondo grado per fatti di mafia ma che si vanta delle sue amicizie con le cosche? Lo stiamo chiedendo a uomini e donne della società civile e del mondo politico.

Per Vittorio Sgarbi “contestare è un diritto sacrosanto. Purtroppo il nostro tempo è distrutto dal fatto che chiunque possa dire quello che vuole, anche se si trova dalla parte sbagliata. E’ giusto, far tacere chi non ha nulla da dire. C’è da registrare però una cosa: Dell’Utri, ieri non è andato a parlare, da uomo mafioso, della mafia ma da uomo che trovato un’opera storica di cui ancora bisogna stabilire il valore. E’ un coraggioso. Voglio dire che manifestare mi sembra giusto ma, in questo caso è stato controproducente. Nessuno può impedire a nessuno, anche se è un delinquente, di presentare un opera d’arte. Se la moglie di Riina scopre un Raffaello, cosa faccio, non glielo faccio presentare? Non accetto, infine, il perbenismo di Pigi Battista, che porta a legittimare chiunque abbia da dire delle stronzate”.

Per Pina Grassi, vedova dell’imprenditore Libero Grassi ucciso dalla mafia il 29 agosto 1991 per avere denunciato i suoi estorsori “un uomo nelle sue condizioni dovrebbe solo stare zitto. Zitto! Zitto! Francamente spero che la magistratura chiuda le indagini al più presto, e che lo sbatta all’ Ucciardone. Sono meravigliata del fatto che in Italia ancora non ci sia una rivoluzione. Spero che sempre più persone si convincano a scendere in piazza per contestare personaggi come Dell’Utri, per dire basta. Basta.”

Nando Dalla Chiesa, figlio del generale Carlo Alberto, ucciso dalla mafia a Palermo il 3 settembre 1982, e presidente onorario dell’associazione Libera dice: “Io non andrei mai a contestare Dell’utri. Mi da fastisio che qualcuno lo inviti per dire la sua. Che ci siano giovani al suo seguito. Che continuino a invitarlo nonostante la condanna di secondo grado per concorso esterno in associazione mafiosa. Inviterei chi lo invita a non farlo più, perché sa un po’ di complicità”.

Anche Rita Borsellino dice la sua da Bruxelles: “Penso che tutti abbiano il diritto di dire la propria. Lui ha avuto l’opportunità di dire che Mangano è un eroe. Proprio a lui, che ha alle spalle ha una condanna di secondo grado per fatti di mafia. Cosa pensava, adesso, che potesse andare in giro per fare il bello e il cattivo tempo? Ha anche diritto la gente di contestare, purché sia fatto in modo non troppo eccessivo e con toni non troppo esagerati”.

Marco Cappato, europarlamentare radicale: “Contestare è libero, più che liberale. Impedire a una persona, fisicamente, di parlare non è liberale. Non è che se uno ha fatto delle dichiarazioni (il riferimento è a Mangano, ndr.) non può più andare in giro per l’Italia a dire quel che pensa”.

Addio pizzo, l’associazione dei giovani imprenditori nata nel 2004 a Palermo per lottare il racket, attraverso il suo presidente Enrico Colajanni dice: “Sino a quando gli uomini che ci rappresentano andranno avanti con certi provvedimenti, le contestazioni potranno solo aumentare. Il problema non è solo Dell’Utri. É la politica in generale che non fa altro che creare distanza rispetto ai cittadini. A nome di un’associazione che lotta tutti i giorni l’estorsione, penso all’atteggiamento di Mantovano (sottosegretario all’Interno, ndr.) che nega la protezione a un pentito come Spatuzza. Penso al provvedimento varato dal governo sui beni confiscati che permette la vendita dei beni confiscati alla mafia, minando l’utilizzo sociale. É un’ingiustizia che grida vendetta. Bisogna non solo contestare personaggi come Dell’Utri ma cacciare i politici condannati in parlamento”.

Per il presidente dei giovani siciliani del Pdl, Mauro La Mantia: “La differenza tra noi – che pure abbiamo assunto una posizione netta nei confronti di Dell’Utri – e i contestatori di ieri, è di stile. Entrato nel ciclone politico per aver chiesto l’espulsione del fondatore di Forza Italia dopo la condanna per mafia, Filippo La Mantia parla di “rispetto della costituzione”, proprio in nome della carta: “Non neghiamo a nessun cittadino l’espressione del proprio pensiero. Poi ognuno ha il diritto di contestare non andando oltre, negare la parola non è giusto”.

Benedetta Tobagi, scrittrice e figlia del giornalista Walter Tobagi, ucciso a Milano dalle brigate” XXVIII marzo”: “Da che mondo e mondo c’è il diritto di contestare, specialmente chi decide di esporsi in pubblico. Non condivido mai i toni e le affermazioni violente, da qualunque parte provengano. Per esempio mi indignò molto l’aggressività usata dal senatore Dell’Utri nei confronti della cronista Antonella Mascali quando tentò di porgli alcune domande in occasione del processo di Palermo. Questa è la grossa differenza che corre tra le comparsate programmate per la tv e gli incontri con la gente reale”.

Legge ad aziendam, per Nicola Gratteri “la Mondadori esempio tangibile di liberalismo”


Il magistrato calabrese partecipa così al dibattito innescato dal teologo Vito Mancuso che si chiedeva se fosse etico scrivere per la casa editrice dei Berlusconi dopo l'ennesima legge che la salva dal fisco

”Non mi sento affatto in imbarazzo a pubblicare i miei libri con Mondadori”. Il procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Nicola Gratteri, autore della Malapianta, interviene così nella polemica tra gli autori più importanti della casa editrice di Segrate. Il dibattito è stato lanciato da una lettera del teologo Vito Mancuso pubblicata su Repubblica il 21 agosto, dopo la notizia dell’ennesima legge “ad aziendam” che permette alla Mondadori di proprietà della famiglia Berlusconi di salvarsi dal fisco, pagando solo 8,6 milioni di euro rispetto ai 350 che deve al fisco. In sostanza Mancuso si chiedeva se fosse etico pubblicare con Mondadori. “Come posso continuare a pubblicare con Mondadori? – si chiedeva Mancuso – . Con un’azienda che non solo dell’etica ma anche del diritto mostrerebbe, in questo caso, una concezione alquanto singolare?”.

Da sempre in prima linea nella lotta alla ‘ndrangheta e dal 1989 sotto scorta, nel 2007, Nicola Gratteri ha iniziato la sua attività pubblicistica. Con una piccola casa editrice calabrese (Luigi Pellegrini editori) ha dato alle stampe il libro Fratelli di sangue in collaborazione con il giornalista Antonio Nicaso. Il testo è un’impietosa ricostruzione degli assetti economico-criminali della mafia più potente e ricca del mondo. Nel 2009, dopo il grande successo della prima edizione, Mondadori ne compra i diritti e pubblica lo stesso libro con qualche aggiornamento, ma con lo stesso titolo. Dopodiché, sempre la casa editrice della famiglia Berlusconi, pubblica la Malapianta (libro-intervista in cui il magistrato risponde alle domande di Nicaso). Il punto di partenza è la strage di Duisburg che il 15 agosto 2007 fuori dal ristorante da Bruno lasciò a terra sei affiliati alla cosca Pelle-Vottari.

“Quando scrissi il libro – ricorda Gratteri a proposito di Fratelli di sangue – nessuna casa editrice lo volle pubblicare, né Rizzoli né Einaudi”. Al contrario “si fece viva la Mondadori che pubblicò il libro senza modificare neanche una virgola di un testo che in alcuni passaggi è durissimo contro i provvedimenti della politica sulla giustizia”. Per questo motivo il procuratore non ha alcun dubbio sulla Mondadori: “Un esempio tangibile di liberalismo”.

Le affermazioni di Gratteri chiudono, per il momento, un dibattito iniziato il 21 agosto a cui hanno partecipato diversi scrittori della casa editrice di Segrate da Carlo Lucarelli a Pietrangelo Buttafuoco a Vittorio Zucconi, tutti e tre sulla stessa linea del magistrato calabrese.

OGNI COSA A SUO TEMPO

Fischiamoli tutti


Marcello Dell'Utri, condannato in appello a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa, è un senatore del Pdl. E' soprattutto il co-fondatore (insieme a Silvio Berlusconi) di Forza Italia.
Ieri Dell'Utri, invitato a Como per parlare dei presunti diari di Mussolini durante la rassegna ‘ParoLario’, è stato costretto ad abbandonare il palco. Un gruppo di cittadini ha contestato il fatto che un condannato per mafia potesse intervenire durante un evento culturale.
Cosa deve dire alla gente un uomo che ha avuto rapporti con le cosche mafiose, che ha patteggiato la pena di due anni e tre mesi di reclusione per false fatture e frode fiscale nell'ambito della gestione di Publitalia '80 e che risulta indagato nell'inchiesta sulla P3, l’associazione segreta che ha tentato condizionare le decisioni dei giudici della Consulta sulla costituzionalità del Lodo Alfano? O meglio, cosa deve imparare un cittadino onesto, un precario, un impiegato, da un soggetto del genere?
Le proteste nei confronti di Dell'Utri sono un segnale positivo, nonostante si cerchi di sminuire l'accaduto con le solite analisi all'italiana. La presa di coscienza della popolazione è sempre più forte. E se personaggi come Dell'Utri vengono cacciati a suon di fischi dalle piazze, forse il risveglio sociale non è poi così lontano. C'è ancora un'Italia capace di indignarsi. Ed è proprio da qui che si deve ripartire. Iniziamo a zittire quelli come Dell'Utri in tutte le piazze d'Italia, perché non è lì che dovrebbero stare, ma in galera.
Sono convinto, oggi più che mai, che se tutti i cittadini potessero seguire quotidianamente in Aula le sedute parlamentari, dai banchi del Pdl non si alzerebbe più nessuno. Dell'Utri non può pretendere stima e apprezzamento dai cittadini, considerato che quelli come lui siedono in Parlamento grazie a una legge elettorale che il Paese non vuole, e grazie alla quale hanno evitato di finire in galera. Per questo, non mostrino le piume in pubblico. E' un fatto di decenza.

Processo breve targato Pd


di Bruno Tinti

Ma è possibile che il Pd, quando si parla di giustizia e di cosiddette riforme, non ne imbrocchi una che è una?

Riforma delle intercettazioni: il progetto Mastella (dal nome del ministro piazzato dal Pd – non da B&C – sulla poltrona di via Arenula) riscosse l’applauso di tutti i delinquenti del paese e in particolare di quelli che sedevano in Parlamento.

Processo breve: il copyright di questo balordo salvacondotto ai malfattori più ricchi e sofisticati (un processo per rapina, omicidio o traffico di droga è sempre “breve”, quelli lunghi sono i processi per frode fiscale, corruzione, insider trading, falso in bilancio e così via) appartiene di diritto al Partito democratico che nel 2004 presentò un disegno di legge sulla stessa materia. Sicché oggi dà un po’ fastidio dover riconoscere che il ministro Alfano non ha tutti i torti quando si lamenta di tutte le critiche che piovono sul “suo” processo breve da parte di chi, tutto sommato, ne aveva proposto uno più o meno uguale.

È per questo che qualcuno dovrebbe spiegare al Pd che accanirsi sull’unica norma ragionevole contenuta nel progetto Alfano non è molto intelligente. Dice dunque il Pd che non va bene che la nuova legge si applichi ai processi già in corso, per reati commessi prima del 2 maggio 2006 e puniti con pena inferiore a 10 anni: norma fatta apposta per impedire il processo Mills ed evitare che B. venga ufficialmente dichiarato colpevole di corruzione.

Naturalmente nessuno si sogna di contestare che questo sia l’unico scopo di questa legge, ripescata alla vigilia della dichiarazione di incostituzionalità del ponte tibetano, il legittimo impedimento che sempre lo stesso scopo aveva, impedire che B. venisse dichiarato colpevole etc etc.

Ma il punto è che, se B. non ci fosse (però, come sarebbe bello!), questa norma sarebbe l’unica ragionevole tra quelle che compongono il disegno di legge Alfano. Che senso ha celebrare processi per reati che si prescriveranno con certezza prima che sia possibile arrivare al processo d’appello? E che senso ha celebrarli quando la pena che dovrebbe essere presumibilmente inflitta sarebbe vanificata dall’indulto, provvedimento scellerato approvato da tutti i partiti (al solito non dall’IdV), che grida vendetta ma che, ormai, lì sta e nessuno può eliminarne gli effetti?

Memorandum per ministri

SE LE MOLTE teste competenti di diritto che militano nel Partito democratico venissero consultate prima di stabilire le strategie dell’opposizione in materia di giustizia, sarebbe agevole contestare al ministro Alfano che, sì, è vero, anche il Pds (allora si chiamava così) aveva progettato un processo breve; ma che questo era molto diverso dalla scappatoia pro B. su cui ora la maggioranza ricatta il Paese: fiducia o elezioni.

Si potrebbe ricordare al ministro e ai cittadini (le cose basta spiegarle in maniera chiara) che in quel disegno di legge si imponevano tempi certi per celebrare i processi ma che non si calcolavano le interruzioni del processo dovute alle richieste di rinvio per impedimento dell’imputato o del difensore e nemmeno quelle rese necessarie dalle rogatorie internazionali (durano anni e il giudice italiano non ha nessun modo per sollecitarle), dalla mancata presentazione dei testimoni e dalla necessità di rintracciarli e farli accompagnare in aula. Insomma si potrebbe ricordare che il progetto del Pds sanzionava con la morte del processo (e le conseguenti responsabilità disciplinari) l’inerzia del giudice, la sua incapacità organizzativa, l’eventuale pigrizia; ma che teneva conto delle interruzioni, inevitabili in ogni dibattimento, per assumere le prove necessarie per decidere.

L’accordo scellerato

MA C’È di più. Il Pd potrebbe ricordare che il suo rigoroso progetto fu, all’epoca, snaturato dalla destra, che pretese, per concedere il suo appoggio al disegno di legge, che le interruzioni eventualmente necessarie per l’acquisizione delle prove non fossero incluse tra le cause legittime di sospensione del processo. Per dire, se l’imputato offriva al pubblico ufficiale da lui corrotto un bel soggiorno alle Barbados, così questi si rendeva irreperibile e non si presentava a testimoniare, il tempo necessario per accertare dove quello era finito e per costringerlo a venire in aula non interrompeva i termini per la morte del processo. L’accordo, per la verità scellerato, fu concluso; ma il progetto non ebbe seguito per la caduta del governo.

Tutto questo dimostra alcune cose molto preoccupanti, perfino più del processo morto su cui si giocano le sorti della legislatura:

1) Oggi l’opposizione è così poco efficace nella critica al salvacondotto di B. perché evidentemente ha la coda di paglia;

2) l’aspirazione del Pd a un dialogo costruttivo per riforme condivise viene da lontano;

3) i disastrosi risultati di questo metodo non hanno insegnato niente.

La scienza triste al capezzale Fiat


di Massimo Roccella

Provvisoriamente eclissatosi nella sfera della politica, il Partito dell’Amore è riemerso in quella delle relazioni industriali, con martellanti annunci sulla fine del conflitto di classe. Lo dice Sergio Marchionne, il ministro Renato Brunetta conferma, dunque bisogna crederci. Strano, però: negli anni ’60, in un’epoca in cui nessuna persona minimamente assennata si sarebbe sognata di dubitare dell’esistenza delle classi (e dei relativi conflitti), negli Usa il rapporto medio fra i compensi dei manager e quelli dei loro dipendenti era di 1 a 24; nel 2006 lo stesso rapporto è risultato di 1 a 257. Nel nostro piccolo, per stare all’esempio della Fiat, si è saputo fare di meglio: la remunerazione di Vittorio Valletta superava di 20 volte quella media dei lavoratori; quella di Marchionne - come non si stanca di ricordare Gad Lerner - si attesta su livelli 435 volte superiori al salario operaio medio.

A chi rammenta questi dati, il ministro Brunetta replica che non è questo il punto. Inutile soffermarsi su questa fastidiosa seccatura della disuguaglianza, se non ci si decide, una buona volta, ad affrontare il nodo di “come si remunera il capitale e il lavoro”. E come bisognerebbe farlo? Va da sé: con la partecipazione, che Brunetta predicava già una ventina d’anni fa.

Quegli slogan che non funzionano

PARTECIPAZIONE: bella parola, atta a rasserenare i cuori, in perfetta consonanza con quest’epoca priva di conflitti. In concreto, però, di che si tratta? Quelli che la propugnano risultano essere decisi sostenitori dello spostamento del baricentro della contrattazione collettiva al livello aziendale: perché solo lì –spiegano– si potrebbero misurare e distribuire meglio gli incrementi di produttività. Nell’applicazione italiana del modello, peraltro, il rischio è che la ricchezza prodotta scompaia con la stessa rapidità del coniglio nel cilindro del prestigiatore. Nel caso Fiat, ad esempio, tanto per non restare nel vago, succede che ai manager siano stati riconosciuti quest’anno cospicui bonus, in ragione del positivo andamento complessivo dell’azienda. Lo stesso non vale per gli operai italiani, perché solo negli stabilimenti del nostro Paese si registrerebbero perdite, tali da non consentire l’erogazione del premio di produzione (la componente aziendale del salario). Falso? Vero? E se anche fosse vero, a chi attribuirne la responsabilità ? Impossibile dirlo: non siamo in Germania, dove i lavoratori dispongono, attraverso i sindacati, di incisivi diritti di controllo sull’andamento dell’impresa, esercitabili nel quadro del sistema della cogestione, tali da rendere il discorso sulla partecipazione lontanissimo dalle fumisterie nostrane. In un paese come il nostro, dove il falso in bilancio è stato omologato a una trascurabile marachella, Brunetta con Raffaele Bonanni (Cisl) e Confindustria invocano all’unisono la partecipazione: sarà un caso?

Al meeting di Rimini Emma Marcegaglia ha evocato con accenti appassionati il modello tedesco. Parlava di cose che conosce? Forse no. Nel sistema tedesco, infatti, non solo il modello partecipativo si presenta con caratteri seri e impegnativi per l’impresa, ma resta comunque fermo il ruolo cruciale della contrattazione collettiva nazionale. Più in generale, è un dato acquisito agli studi di relazioni industriali che i modelli in grado di coniugare meglio sviluppo ed equità sociale sono proprio quelli più centralizzati (Germania e Svezia ne costituiscono gli esempi più significativi). Se non in generale, la contrattazione bisognerebbe modernizzarla almeno nel settore metalmeccanico, dando spazio a un contratto del settore auto (nella sostanza un contratto aziendale tagliato su misura delle richieste di Corso Marconi). Anche perché, come sostiene Tito Boeri (su “Repubblica” del 25 agosto), confortato dalle affermazioni di Pietro Ichino, “l’accordo normativo per i metalmeccanici risale addirittura al 1972”, lasciando intendere che da allora sia rimasto immutato e, dunque, si tratti di un obsoleto ferro vecchio.

La storia riscritta

L’ARGOMENTAZIONE è suggestiva: peccato che non abbia fondamento. Basterebbe conoscerlo il contratto dei metalmeccanici, per evitare di ripeterla. Basterebbe porre a raffronto il testo del 1972 e quello del 2008, anche soltanto limitando l’analisi a due istituti chiave come inquadramenti ed orario di lavoro, per rendersi conto della tanta acqua che è scorsa sotto i ponti. Boeri, però, almeno concede che le sentenze dei tribunali andrebbero rispettate. Michele Boldrin (sul “Fatto” del 29 agosto) neppure questo: essendo riuscito, nello spazio di poche righe, dopo aver attaccato Obama da destra (con argomenti, per intenderci, esattamente opposti a quelli di Paul Krugman), a farci sapere che “il problema non è se la Fiat abbia violato o meno… il dettaglio di una legge... L’ha violato intenzionalmente per comunicare... che tale legislazione... è oggi incompatibile con lo sviluppo economico nazionale”. Tesi ancora più suggestiva di quella di Boeri, se non fosse proprio per un dettaglio: il dettaglio in questione a Melfi è il diritto di sciopero, diritto fondamentale per la nostra costituzione, come per la Carta dei diritti dell’Unione europea (quest’ultima, Boldrin si stupirà, entrata in vigore nel dicembre 2009: ah! la vecchia, incorreggibile Europa). Insomma, per Tremonti sarebbero un lusso insostenibile le regole a tutela della sicurezza sul lavoro, per Boldrin quelle sulla libertà sindacale e il diritto di sciopero: nell’universo etico dei neo-liberisti ce n’è per tutti i gusti. Una volta l’economia veniva definita la scienza triste. Anche qui i tempi devono essere cambiati: perché – diciamo la verità – di fronte a certi assunti scappa proprio da ridere.

massimo.roccella@unito.it

Flash mob a Roma, un libro ‘rosa’ contro Gheddafi


Il popolo della rete contro ”la sfilata delle hostess per il Colonnello”. La sfilata delle “bellezze interiori” così è stata ribatezzata la mobilitazione lampo, il flash mob, che si è tenuta questa sera a Roma davanti alla caserma dei carabinieri ‘Salvo D’Acquisto’ in viale di Tor di Quinto, sede dei festeggiamenti con tanto di parata equestre in onore del leader libico Muammar Gheddafi e presidiata da decine di carabinieri. Ma alle 20,30 una cinquantina di persone, puntuali, all’ora esatta in cui all’interno della caserma aveva inizio lo spettacolo, si sono riunite silenziose in strada davanti alla ‘Salvo D’Acquisto’, controllate a vista da decine di carabinieri e lasciate al buio per ore per la mancanza improvvisa di illuminazione pubblica su tutto il viale. Ecco allora che il ‘popolo della rete’ si è ingegnato, illuminando il piccolo presidio con l’aiuto dei fari degli scooter.

Chi ha partecipato sono stati uomini ma, soprattutto, donne e tutte con in mano un libro o più libri scritti da autrici donne. “Per non rimanere in silenzio, ferme a guardare l’avvilente show che Gheddafi e Berlusconi stanno mandando avanti”, hanno dichiarato molte di loro accorse per rispondere al post dal titolo ‘Un libro per il colonnello’ pubblicato su Facebook e creato da ‘Italia indignata’ e che aveva fissato la mobilitazione lampo solo poche ore prima della parata, come è poi nello spirito del ‘flash mob’ che nasce sui social network. Questo per “Rompere un silenzio troppo lungo – si legge nel post di
Italia Indignata – sullo svilimento della figura femminile in Italia”.

Fra chi ha partecipato, l’autrice satirica
Francesca Fornario, le attrici Paola Minaccioni e Manuela Grimalda, i rappresentati del Popolo Viola e dell’Anpi. “Questa sera facciamo una passerella di donne con in mano libri scritti da donne che hanno fatto la cultura anche di questo Paese e la facciamo gratis in onore del colonnello Gheddafi”, è quanto dichiara a ilfattoquotidiano.it la Fornario, “è la sfilata, insomma, non delle 500 hostess, ma di Sibilla Aleramo, Elle Kappa, Elsa Morante e tante altre”. “Siamo qui per protestare contro il velinismo applicato al proselitismo islamico. Questa è la summa del berlusconimo imperante” ha aggiunto un’altra donna con in mano un libro della scrittrice cilena, Isabel Allende.

Caso Annozero, ancora incertezza dopo il faccia a faccia Masi-Santoro


Nulla di fatto nell’incontro di oggi fra Michele Santoro e il direttore generale della Rai Mauro Masi. Il faccia a faccia, durato oltre quattro ore, non è servito a chiarire la situazione di Annozero. Il programma dovrebbe comunque riprendere il prossimo 23 settembre. Al momento nel palinsesto di Rai Due rimane la generica definizione “spazio Santoro” e per ora non ci sono controindicazioni. Anche se i contratti della redazione che non sono stati ancora firmati e la macchina organizzativa non è ancora ripartita.

Domani mattina alle 9.30 ci sarà comunque un incontro, già previsto prima del faccia a faccia per riavviare i meccanismi produttivi e mantenere la scadenza della data di partenza del programma. In ogni caso, restano due nodi da sciogliere: il titolo della trasmissione e la partecipazione, nell’eventuale nuova edizione, di Vauro e Marco Travaglio.

Dell’Utri fugge per le contestazioni Salta la lettura dei diari del Duce


di Gianni Barbacetto

Gran pieno di pubblico, dentro e fuori il tendone nel centro di Como dove Marcello Dell’Utri avrebbe dovuto parlare dei suoi, probabilmente falsi, diari del Duce. Erano tutti lì per lui. Ma non tutti per ascoltarlo.

Alcuni, giovanissimi, erano arrivati perché avevano visto su Facebook il gruppo “No a Dell’Utri a ParoLario”. Massimo e i suoi amici avevano mandato una pioggia di email e avevano autoprodotto un po’ di volantini, piccolissimi, su cui era riportata la parte finale della condanna a Dell’Utri in appello, a sette anni per “concorso nelle attività dell’associazione di tipo mafioso denominata Cosa nostra”.

Armando Torno, giornalista, saggista e amico del senatore Pdl, ha preso la parola in perfetto orario. Ma quando ha passato la parola, è partito il primo intervento non programmato dal pubblico: “Ma vi sembra giusto aver invitato qui un condannato in appello a sette anni per mafia?”. Si scatena un applauso e poi cori, slogan, canti che si fermeranno solo mezz’ora più tardi, quando Dell’Utri, sconfitto, scende dal palco e se ne va.

Doveva essere uno dei tanti incontri di fine estate in riva al lago di Como, organizzato dall’associazione “ParoLario”. Invece si è tramutato in una clamorosa sconfitta per il senatore. Subito sette ragazzi del gruppo Facebook si sono schierati: avevano indossato magliette bianche su cui avevano scritto, con il nastro adesivo nero, una sola lettera dell’alfabeto. Ma visti insieme, componevano una parola: “Mafioso”. Fermàti e identificati, insieme a un amico colpevole di avere indosso una maglietta rossa.

Un altro gruppo di ragazzi stende il suo striscione: “Marcello, baciamo le mani”. Un ragazzo intanto si è fatto sotto il palco sventolando un libro che voleva regalare al senatore: “Dossier Mangano” (Kaos editore).

L’Anpi (l’associazione nazionale partigiani) di Como distribuiva un volantino in cui criticava la scelta di “aver invitato un condannato per mafia, noto per le sue numerose dichiarazioni a sostegno del fascismo e di Mussolini”.

Il locale Comitato per la difesa della Costituzione, invece, nel suo volantino non lo nominava neppure, Dell’Utri, ma faceva un elenco dei morti ammazzati, da Giorgio Ambrosoli a Carlo Alberto Dalla Chiesa, contrapposti al mafioso Vittorio Mangano, sotto il titolo “Felice il popolo che non ha bisogno di eroi”.

Qualcuno di Rifondazione comunista fa partire il coro: “Bella ciao”, che unisce giovani e vecchi, antimafiosi e antifascisti. Stupiti loro stessi di essere così tanti. Rigorosi ma pacifici. Nessun gruppo organizzato da catalogare come “estremisti dei centri sociali”, solo ragazze e ragazzi in t-shirt e canottierina, o cittadini più maturi, sorridenti e felici, per questo pomeriggio di sole in riva al lago di Como.

COMO - PAROLAIO - PROTESTA CONTRO DELL'UTRI

L’ORAZERO DI MASI


Oggi il direttore generale della Rai incontra Santoro Dandini in onda, ma con “caratteristiche diverse”

di Carlo Tecce

Oggi è il giorno. Mauro Masi incontra Michele Santoro, il conduttore dovrà ascoltare le richieste del direttore generale, a tre settimane dal ritorno di Annozero ancora definito spazio Santoro. Perché Masi in pantaloni rossi, intervistato da Giovanni Minoli (in pensione, ora consulente), a Cortinaincontra infiamma partite già perse e simula un'esultanza. Un gioco dei pacchi, in perfetto stile Raiuno: “Mi aspettano battaglie. La sentenza dice che Santoro deve fare un programma, non specifica quale”. E cade male sui giudici: il reintegro per rimediare all'editto bulgaro prevedeva, proprio per riparare a un danno, l'assunzione di Santoro per riprendere il lavoro interrotto. Tradotto: approfondimento giornalistico in prima serata.

L'EX SEGRETARIO di Palazzo Chigi ha davanti a sé il mese della verità, la televisione che rialza la saracinesca – abbassata per ferie da giugno – e mostra poche differenze e (di)mostra il fallimento del normalizzatore (o censore) Masi. Un direttore generale che valuta 'accettabile' il palinsesto e che, mai applaudito dal pubblico di Cortina, finge serenità per mascherare la tensione.

Cerca di aggredire l'argomento Santoro, poi – guardando negli occhi la gente smarrita – improvvisa un ricamo: “La stima della persona e del professionista è fuori discussione. Ma è un caso specifico e peculiare, il suo rapporto con l'azienda è determinato da una sentenza”. Il dg cita la Bbc e proverbi inglesi, ma ignora che Annozero, arrivato con abbrivio al quinto anno, ormai è un marchio di successo.

E ANZICHÉ aiutare la redazione, sempre con la tecnica dell'ostruzionismo, l'azienda ha annullato le riunioni già in calendario per i contratti, la produzione e la scenografia. Minoli non risparmia domande insidiose che trovano in Masi risposte monosillabiche né camuffa un conflitto d'interesse. Quando sterzano in coppia su Parla con me di Serena Dandini, confermato per quattro puntate a settimana, spingono per le celebrazioni dell'Unità d'Italia che, per pura casualità, vengono coordinate da Minoli medesimo.

Il dg ha diviso la Rai in buoni e cattivi, illustra le categorie con leggerezza. Stavolta è sincero: elogia Minzolini, critica la Dandini. “Ero molto perplesso su Parla con me. Lei mi ha convinto che farà un programma con caratteristiche diverse”. La Dandini farà il suo Parla con me con novità artistiche tipiche di una trasmissione sperimentale, ma sempre con gli stessi ingredienti: ospiti sul divano, satira, musica. Parla con me debutta il 28 settembre e durerà almeno sino ad aprile, eppure Masi, che recita una parte ben precisa, incalzato da Minoli ovvero dall'Unità d'Italia in persona, ammette che la Dandini è al sicuro per il primo periodo di garanzia (in primavera, appunto). Per il Tg1 scatta la sinfonia: “Minzolini era un giornalista di punta della sua generazione. Il suo telegiornale è innovativo e non di parte”. Per scongelare un Masi rigido, osservato con distacco dal pubblico, Minoli pesca nella vita privata del direttore generale, fresco innamorato, servitore delle istituzioni: “Ho tre difetti: sono impaziente, arrogante e presuntuoso”. E anche testardo nel corteggiare Bruno Vespa per il Festival di Sanremo. E poi rivoluzionario con i sergenti di un tempo: per un pensatoio Rai ha convocato Maurizio Costanzo e Michele Guardì (e chissà, Minoli). La portata ricca spunta per ultima: “Non è normale che una società per azioni non possa avvicendare un direttore che sta lì da otto anni. I cambiamenti a Raitre risalgono a Guglielmi e Minoli”, e ammicca all'intervistatore, Masi. Il “direttore che sta lì” è Paolo Ruffini, rimosso a novembre e reintegrato da una sentenza.

FINITO il siparietto, le battute e le smorfie, i due sono affiatati nell'annunciare con ironia la trasmissione di Maria Luisa Busi su Raitre: “Ha visto? – dice Minoli – Lasci il Tg1 e ti ritrovi con una prima serata...”. A Minoli che lamenta zero euro per il canale di Storia, Masi replica con i 350 milioni in sette anni rifiutati da Sky per trasmettere sul satellite: “Ho rinunciato a svendere la Rai”. Peccato che, armato di chiavetta usb, l'abbonato di Sky può guardare il servizio pubblico: “Sono scettico. E poi ci siamo mossi per vie legali”, e sghignazza Masi. L'oretta di Cortinaincontra passa in fretta, forse per il protocollo stringente e il freddo pungente, Minoli ha smarrito il taccuino con la domanda sull'inchiesta di Trani e le telefonate di Silvio Berlusconi. Sarà per la prossima volta. Magari a Unomattina.

Geronzocomio


di Marco Travaglio

Il Meeting di Rimini, com’è noto, è un evento “ecclesiale” e “religioso”. Infatti anche quest’anno si stentava a distinguerlo da un raduno di banchieri, da un Consiglio dei ministri, da un forum di Confindustria e dall’ora d’aria di San Vittore (erano presenti i noti condannati Paolo Scaroni, corruzione, e Renato Farina, favoreggiamento in sequestro di persona).

Ma è anche un festoso ritrovo giovanile. Infatti, da quando non arriva più Andreotti per evidenti problemi di deambulazione, è stato degnamente sostituito da un altro tenero virgulto della finanza: Cesare Geronzi, 75 anni suonati, ex banchiere di Capitalia e poi di Mediobanca, ora presidente di Generali, nonché imputato per i crac Parmalat e Cirio.

“Ora – ha detto Geronzi ai suoi coetanei ciellini – siamo tutti chiamati a una fase di impegno di costruzione del futuro”.

In questi giorni va per la maggiore Luciano Gaucci con la sua numerosa famiglia, intervistata quotidianamente fino ai parenti di terzo grado senza dimenticare il geometra di Gaucci, la colf di Gaucci e il tabaccaio di Gaucci, dai segugi del Giornale e di Libero, per dare lezioni di morale alla Tulliani e, di carambola, a Fini.

Gaucci è il maestro ideale: ha patteggiato 3 anni per bancarotta del Perugia Calcio e scampò all’arresto fuggendo a Santo Domingo lasciando in ostaggio dei magistrati i figli, incarcerati al posto suo.

Pochi sanno quel che Gaucci ha raccontato ai magistrati sull’amico Geronzi (ben coperto dal servilismo di gran parte della stampa italiana): “Ho lavorato per lui per oltre 20 anni e ho fatto avere a lui, a sua moglie e a sua figlia beni per 60 milioni di euro”.

In particolare Gaucci ha sostenuto di aver pagato a Geronzi tangenti da 200 milioni di lire per ciascuno dei 18 finanziamenti concessigli da Capitalia fra il 1989 e il ’92 (22 milioni di euro e rotti).

Geronzi l’ha denunciato per calunnia e diffamazione, ma poi è finito indagato per false dichiarazioni al pm, mentre Gaucci è stato assolto dalla calunnia e Geronzi ha ritirato la denuncia per diffamazione. Dunque non esistono sentenze che smentiscano le accuse. Anzi tutto il contrario.

Nel 2008, sentito come parte lesa, Geronzi tenta di negare ogni rapporto personale e familiare con Gaucci, definendolo “un millantatore pericoloso e amorale”. Poi deve ammettere di averlo ricevuto a fine anni 80, quando dirigeva la Cassa di Rispamio di Roma: “Andreotti mi telefonò: ‘Ricevi Gaucci, è persona rozza ma intelligente’. Lo incontrai 2-3 volte”. Di sfuggita? Mica tanto. Altrimenti come spiegare i regali “per i miei compleanni, per Natale e per Pasqua” che gli faceva Gaucci, cliente della sua banca, e che lui si guardò bene dal rispedire al mittente? “Cibo, vini e generi alimentari che noi dirottavamo in beneficenza a don Picchi” per i ragazzi bisognosi. Ma qualcosa restò anche al bisognoso Geronzi. Per esempio una fontana “da un miliardo” (dice Gaucci) che Geronzi ridimensiona a “vasca di 5 blocchi in pietra” e che fa bella mostra nel giardino di villa Geronzi ai Castelli Romani: “Me la portò l’autista di Gaucci, il signor Macellari, un tipo molto invadente a cui non ho voluto fare la scortesia rifiutando quei pezzi dismessi da una villa di Gaucci”. Pareva scortese rifiutare gli scarti di Gaucci, così li tenne.

Idem per tre statue, anche se Geronzi dice “non ricordo bene, ma non sono antiche e non sono di valore”. Altrimenti le avrebbe dirottate a don Picchi. E l’autista Macellari era così invadente che fu invitato alle nozze della figlia di Geronzi, Chiara, giornalista del Tg5 e socia della Gea World di Moggi & C.

“Chiara – spiega il finanziere – fu costretta a invitare l’autista dopo aver ricevuto in regalo un quadro”. Povera stella.

Ora però, come ha annunciato papà Geronzi al Meeting, “siamo tutti chiamati a una fase di impegno di costruzione del futuro”.

Applausi. Sipario.

COMO - PAROLAIO - PROTESTA CONTRO DELL'UTRI

lunedì 30 agosto 2010

MATTEO - MODA MARE 2010

L'ospedale dei baroni tra pallottole e sospetti


LAURA ANELLO

Ma di che cosa si stupisce? Lo sa che cosa ha visto questo ospedale?». E giù a raccontare delle pallottole sparate nel 1998.

Bersaglio il direttore della clinica di Endoscopia digestiva Matteo Bottari, il genero dell’ex rettore. E delle accuse, poi cadute, al collega epatologo Giuseppe Longo, «topacchione assassino» nelle intercettazioni, finito in carcere per storie di mafia e infine assolto. E poi, scendendo dal sangue al malcostume, del processo in corso a carico dell’attuale Magnifico, Francesco Tomasello, ordinario di Neurochirurgia, accusato con altri ventitré fra docenti, funzionari e ricercatori, di avere truccato un concorso a Veterinaria. Già, di che cosa ci si stupisce, qui, nel verminaio Messina, se due ginecologi del Policlinico si sono presi a pugni mentre la paziente era sul lettino in attesa del parto cesareo? Se adesso non potrà più avere figli ed è qui a chiedere come sta il suo piccolo Antonio? «Voglio vederlo - dice - fatemelo almeno vedere».

Nel tempio dei baroni messinesi, nell’ospedale dell’Università dove metà dei 1.500 docenti ha almeno un omonimo tra padri, figli, mogli, nipoti, cugini, il potere si misura sulle cattedre. Una cittadella accademica ambita, ambitissima, la camera di compensazione dei poteri forti della città, la patente da esibire per fare carriera, il legame da intrecciare per salire nella scala sociale della città che un tempo era la «babba», la sciocca, risparmiata dalle guerre di mafia di Catania e Palermo, e che poi si è scoperta soltanto più capace di una crudele, apparente, rispettabilità. Pentola a pressione che non è mai esplosa, non ha visto il bianco e nero, le bombe e l’antimafia, il disgusto e la rivolta.

«Quando sono arrivato qui - racconta Giuseppe Pecoraro, alla guida del Policlinico da tre anni, prima da commissario straordinario e ora da direttore generale - mi sono trovato davanti a una fenomeno incontrollato di medici estranei ai reparti che chiedevano di svolgere attività di volontariato, un modo per curare i loro interessi professionali privati fregiandosi della griffe Policlinico e assicurando con facilità ai pazienti una serie di servizi ospedalieri, dai prelievi di sangue alle ecografie ai ricoveri. Una follia diventata prassi che evidentemente, nonostante i miei divieti, continua ad allignare».

Il riferimento, per niente casuale, è ad Antonio De Vivo, il rampante assegnista di ricerca che ha portato Laura Salpietro, sua paziente in regime privatistico, a partorire al Policlinico. «Questa cosa ha un nome - incalza Pecoraro - e si chiama esercizio abusivo della professione, un assegnista non può svolgere alcuna attività assistenziale autonoma. La responsabilità è di chi gliel’ha consentito, a partire dal primario del reparto». Domenico Granese, che adesso rischia la testa.

Oggi, al termine dell’incontro con il ministro della Salute Ferruccio Fazio e dell’assessore alla Sanità Massimo Russo, Pecoraro annuncia provvedimenti forti. Probabilmente il commissariamento del reparto, «che è uno dei punti deboli dell’ospedale». Eppure le donne di Messina vengono a partorire proprio qui, anche perché l’alternativa è il «Piemonte» delle vergogne che è in via di chiusura o il «Papardo», dove nella nuova Ginecologia tre mesi fa è caduto un pezzo di soffitto in un corridoio.

Già, si viene qui al Policlinico per stare tranquille, si viene in questo padiglione A che aspetta da due anni una ristrutturazione mai arrivata, per garantirsi la terapia intensiva neonatale, e spesso l’amorevole cura dello specialista privato al quale non si nega l’ingresso. Quando il medico di guardia, responsabile di quel che avviene in reparto, è amico del professionista, si chiude un occhio e sono sorrisi e ringraziamenti. Quando tra i due ci sono ruggini, l’ospedale può diventare un ring.

Il potere semina odi, rinfocola invidie, si coalizza in clan. Come qui a Ginecologia, rimasta orfana dieci anni fa di un professore ordinario per l’impossibilità di mettere d’accordo una cordata che aspirava a chiamare un professore in servizio in un altro Policlinico e gli avversari che premevano per bandire il concorso e piazzarci un solito noto. È finita che non se n’è fatto niente.
Secondo e terzo piano, aspetto dimesso ma dignitoso, un centro per la cura della sterilità di coppia guidato proprio dal professore Vincenzo Benedetto - uno dei due dottori diventati pugili - un avviato servizio di riferimento per le donne in menopausa.

I medici parlano, ma «niente nomi, per carità». In tutto venticinque camici bianchi, di cui sei professori associati (esentati dalle guardie, la più rognosa delle prestazioni) e tutti gli altri ricercatori. Rimasti al primo gradino della carriera accademica nonostante i capelli bianchi, «anche perché non valeva neanche la pena di presentare domanda per il concorso», pure loro in parte dispensati dai turni di guardia per varie ragioni personali. Quattro sono andati in pensione il primo agosto con la «rottamazione» voluta dal ministro Brunetta: a casa quelli con quarant’anni di servizio.

Un mini-esodo che ha gettato benzina sul fuoco di una situazione già tesissima, aggravata dalla compressione del reparto che due anni fa ha perso ambulatori, ambienti comuni, spazi di studio. «Ma ci vede? Tra ferie e pensionamenti siamo rimasti quattro gatti», borbotta un dottore. Trent’anni fa, nel momento di maggiore fulgore, i posti letto erano 99. Oggi sono 26. Una media di un medico per ogni paziente, ironizza qualche nemico. «Sì? Allora sappia che presto saranno di meno - taglia corto un altro -. Io appena posso scappo in pensione».

Lite in sala parto, rimosso il primario Un medico licenziato e l'altro sospeso


Arrivano le prime sanzioni per i medici del Policlinico di Messina, dopo la lite tra due camici bianchi che giovedì scorso potrebbe aver ritardato il parto di una donna, causando complicazioni alla salute della puerpera e del neonato.

I vertici dell’ospedale, in una riunione con l’assessore alla Sanità della Sicilia Massimo Russo, avrebbero deciso una sospensione cautelativa per il primario di Ginecologia e ostetricia Domenico Granese. Uno dei due medici coinvolti nella lite, Vincenzo Benedetto, è già stato sospeso. Interrotto anche il rapporto di collaborazione tra il Policlinico messinese e l’altro medico protagonista della rissa: Antonio De Vivo. È stato inoltre deciso di commissariare l’Unità operativa di ginecologia, teatro della lite. Le funzioni saranno assegnate alla direzione sanitaria. L’azienda sanitaria universitaria, infine, avvierà un’azione civile per danni di immagine subiti.

Intanto questa mattina si è recato a Messina Ferruccio Fazio. «Chiedo scusa alla signora e alla famiglia a nome dei medici e della Sanità per quello che è successo, e lo dico da medico», ha affermato il ministro alla Salute dopo aver incontrato Laura Salpietro, la donna che ha partorito nel policlinico di Messina mentre due medici litigavano in sala parto. «La mia è stata una visita di solidarietà alla signora, al piccolo Antonio e a suo marito - ha aggiunto Fazio -. Ho trovato la signora bene. Ho cercato di darle parole di speranza e soprattutto ho cercato di ribadirle che le istituzioni sono vicine a lei e alla sua famiglia in questo momento». Il ministro ha poi commentato quanto è accaduto. «È difficile assistere ad una cosa del genere. Io non sono qui per fare indagini né per stabilire dei nessi, che non so quanto siano importanti, queste cose non devono succedere. Se succedono accadono anche perchè avvengono in un humus e in un contesto particolare - ha aggiunto il ministro -, qui stiamo parlando di parti. La media Ocse accettabile di cesarei è di non oltre il 25%. In Italia siamo a una media del 38% ma in regioni come la Lombardia, la Toscana, il Veneto e l’Emilia Romagna, sono sotto il 30%, mentre nel 2009 la Sicilia era al 52% e la Campania oltre al 60%. Devo dire - ha sottolineato Fazio - che in Sicilia l’assessore regionale alla Sanità, Massimo Russo, ha emanato dei provvedimenti recenti per ridurre questo fenomeno. La proliferazione dei cesarei può essere anche dovuta a forme di non trasparenza».

«Io in questo mi associo all’opinione pubblica», ha aggiunto il ministro, rispondendo alle domande dei giornalisti che gli chiedevano se fosse anche lui «indignato come l’opinione pubblica» per la lite in sala parto dei due medici al policlinico di Messina. Secondo Fazio occorrono «punizioni esemplari a chi si è reso partecipe e protagonista di questi episodi». «Domani - ha detto il marito di Laura Salpietro, Matteo Molonia - si spegnerà l’informazione su questo caso e la vicenda sparirà del tutto. È una presa in giro all’italiana. Ma è importante che il ministro sia stato qui, vuol dire che il problema non è soltato mio e che qui dentro è accaduto davvero qualcosa. Resta il fatto che la mia famiglia è ferita: mia moglie non potrà più avere figli a 30 anni e mio figlio non è ancora fuori pericolo».

Alleati in pressing su Berlusconi "Ora basta liti"


UGO MAGRI

Riavvolgere il film delle ultime settimane: chissà se Berlusconi, potendo, accetterebbe la raccomandazione che gli viene da amici di lunga data. Azzerare tutto. Rimangiarsi l’espulsione per decreto di Fini. Condannare le aggressioni dei suoi giornali alla famiglia Tulliani. Cucirsi la bocca nei confronti del Quirinale. Insomma, prendere atto una volta per tutte che le cariche a testa bassa non lo liberano dai guai. Semmai, peggiorano la condizione...

Sono tanti, nelle ultime ore, quelli che cercano di spingere il Cavaliere a più miti consigli. Non solo «pacifisti» alla Gianni Letta. Praticamente l’intero gruppo di vertice del Pdl, la vecchia guardia, è su questa lunghezza d’onda. Ma pure alleati ruvidi come Umberto Bossi. E addirittura «colombe» insospettabili come l’avvocato Ghedini, il quale sa perfettamente che solo in un clima di autentica pacificazione con Fini potrebbe strappare un «salvacondotto» giudiziario per il suo cliente, alle prese con processi (vedi Mills) vicini a concludersi con la condanna.

E’ un coro, ormai. Eccezion fatta per il gruppo di amazzoni (la Rossi, la Brambilla, la Ravetto, la Santanchè) da cui il premier ama farsi applaudire, nessuno s’illude più.

Contro Fini l’offensiva è fallita, si combatte nel fango, avanti di questo passo perderà pure la guerra nella vana attesa dell’«arma segreta» (qualche rivelazione choc sull’appartamento di Montecarlo) che forse non arriverà mai. Quindi occorre trattare adesso, quando ancora è possibile in condizioni onorevoli. Ascoltando che cosa vuole Fini, e se si tratta di proposte fondate sul buonsenso accettarle. Rinunciando nel frattempo a bombardare il presidente della Camera, a chiederne le dimissioni, a epurare i suoi uomini, a tentare di spaccargli il gruppo. In una parola, Berlusconi viene invitato ad attendere che cosa Gianfranco dirà domenica a Mirabello, quando si rivolgerà al Paese (come anticipano i finiani) «e lì fisserà i suoi paletti».

In che cosa consistano questi «paletti», nessuno sa dirlo. Ma agli ambasciatori leghisti (Cota e Calderoli) qualcosa Fini ha lasciato intuire. Il presidente della Camera metterà radici nel centrodestra, deludendo quanti vorrebbero spingerlo nel Terzo Polo casiniano. E dirà più o meno al Cavaliere: se desideri governare fino al 2013, non hai che due chances. O ti rimangi l’editto in cui mi dichiari «incompatibile» dal Pdl. Oppure garantisci un’alleanza elettorale al partito che, fuori dal Pdl, dovrei fondare. A te, caro Silvio, la scelta...

Se davvero Fini pronuncerà l’aut-aut, come scommettono queste fonti leghiste, nel campo berlusconiano si aprirà la bagarre. Qualcuno suggerirà al Cavaliere di rispondere «m....» proprio come il generale Cambronne a Walterloo. Altri (sulla scia di Giuliano Ferrara) suggeriranno di «resettare» le polemiche, restituendo a Fini la «compatibilità» e a Bocchino la carica di vice-capogruppo vicario. Altri ancora sosterranno, invece, che un via libera al partito finiano sarebbe in fondo il male minore (è la soluzione preferita da Bossi). Ma tutti, proprio tutti, inviteranno Silvio a tener duro sul processo breve. Come minimo Fini dovrà provare la sua lealtà sostenendo la legge che, nelle pieghe della disciplina transitoria, cancella i processi contro il premier.

Sintomatico ieri il capogruppo Pdl Cicchitto, che pure passa per un trattativista: «L’eccesso di furbizia su questo argomento può provocare disastri», ammonisce Bocchino & C, «servono impegni precisi».

Come al solito, gli schizzi della faida interna tendono a lambire il Colle più alto. Ed è curiosa la sincronia delle due sponde. Da una parte i finiani sostengono che il vero ostacolo al processo breve non sono loro, bensì Napolitano, dunque il Cavaliere se la prenda con lui. Dall’altra Berlusconi mostra di crederci. E non perde occasione, nei colloqui privati, per lamentarsi del Quirinale sempre poco compiacente. Si sfoga così spesso, in tono talmente acuto, da farsi udire ovunque e da rendere inutili le successive smentite del portavoce Bonaiuti: come raccogliere il mare con un cucchiaio.

Napolitano a sua volta non ama farsi tirare per la giacca. Si può comprendere, dunque, l’irritazione presidenziale. Ma il vero dramma è che le sue riserve al processo breve, ben note dalle parti di Palazzo Chigi, non hanno ancora prodotto alcuna rettifica. Fonti berlusconiane si sentono di escludere che Ghedini e il ministro Alfano stiano preparando emendamenti, o addirittura qualche nuova scappatoia giuridica per il premier: «Il testo è quello», dicono, «e tale resterà». Neppure frena Berlusconi la prospettiva che Napolitano, una volta approvata la legge, possa rinviarla alle Camere per un riesame. «Pazienza, in quel caso la riapproveremo tale e quale», alzano le spalle i pretoriani. L’enorme «rospo» di Fini si può ingoiare, aggiungono, ma a patto che Berlusconi venga sottratto una volta per tutte alle grinfie dei «giudici comunisti».