lunedì 30 agosto 2010

L'ospedale dei baroni tra pallottole e sospetti


LAURA ANELLO

Ma di che cosa si stupisce? Lo sa che cosa ha visto questo ospedale?». E giù a raccontare delle pallottole sparate nel 1998.

Bersaglio il direttore della clinica di Endoscopia digestiva Matteo Bottari, il genero dell’ex rettore. E delle accuse, poi cadute, al collega epatologo Giuseppe Longo, «topacchione assassino» nelle intercettazioni, finito in carcere per storie di mafia e infine assolto. E poi, scendendo dal sangue al malcostume, del processo in corso a carico dell’attuale Magnifico, Francesco Tomasello, ordinario di Neurochirurgia, accusato con altri ventitré fra docenti, funzionari e ricercatori, di avere truccato un concorso a Veterinaria. Già, di che cosa ci si stupisce, qui, nel verminaio Messina, se due ginecologi del Policlinico si sono presi a pugni mentre la paziente era sul lettino in attesa del parto cesareo? Se adesso non potrà più avere figli ed è qui a chiedere come sta il suo piccolo Antonio? «Voglio vederlo - dice - fatemelo almeno vedere».

Nel tempio dei baroni messinesi, nell’ospedale dell’Università dove metà dei 1.500 docenti ha almeno un omonimo tra padri, figli, mogli, nipoti, cugini, il potere si misura sulle cattedre. Una cittadella accademica ambita, ambitissima, la camera di compensazione dei poteri forti della città, la patente da esibire per fare carriera, il legame da intrecciare per salire nella scala sociale della città che un tempo era la «babba», la sciocca, risparmiata dalle guerre di mafia di Catania e Palermo, e che poi si è scoperta soltanto più capace di una crudele, apparente, rispettabilità. Pentola a pressione che non è mai esplosa, non ha visto il bianco e nero, le bombe e l’antimafia, il disgusto e la rivolta.

«Quando sono arrivato qui - racconta Giuseppe Pecoraro, alla guida del Policlinico da tre anni, prima da commissario straordinario e ora da direttore generale - mi sono trovato davanti a una fenomeno incontrollato di medici estranei ai reparti che chiedevano di svolgere attività di volontariato, un modo per curare i loro interessi professionali privati fregiandosi della griffe Policlinico e assicurando con facilità ai pazienti una serie di servizi ospedalieri, dai prelievi di sangue alle ecografie ai ricoveri. Una follia diventata prassi che evidentemente, nonostante i miei divieti, continua ad allignare».

Il riferimento, per niente casuale, è ad Antonio De Vivo, il rampante assegnista di ricerca che ha portato Laura Salpietro, sua paziente in regime privatistico, a partorire al Policlinico. «Questa cosa ha un nome - incalza Pecoraro - e si chiama esercizio abusivo della professione, un assegnista non può svolgere alcuna attività assistenziale autonoma. La responsabilità è di chi gliel’ha consentito, a partire dal primario del reparto». Domenico Granese, che adesso rischia la testa.

Oggi, al termine dell’incontro con il ministro della Salute Ferruccio Fazio e dell’assessore alla Sanità Massimo Russo, Pecoraro annuncia provvedimenti forti. Probabilmente il commissariamento del reparto, «che è uno dei punti deboli dell’ospedale». Eppure le donne di Messina vengono a partorire proprio qui, anche perché l’alternativa è il «Piemonte» delle vergogne che è in via di chiusura o il «Papardo», dove nella nuova Ginecologia tre mesi fa è caduto un pezzo di soffitto in un corridoio.

Già, si viene qui al Policlinico per stare tranquille, si viene in questo padiglione A che aspetta da due anni una ristrutturazione mai arrivata, per garantirsi la terapia intensiva neonatale, e spesso l’amorevole cura dello specialista privato al quale non si nega l’ingresso. Quando il medico di guardia, responsabile di quel che avviene in reparto, è amico del professionista, si chiude un occhio e sono sorrisi e ringraziamenti. Quando tra i due ci sono ruggini, l’ospedale può diventare un ring.

Il potere semina odi, rinfocola invidie, si coalizza in clan. Come qui a Ginecologia, rimasta orfana dieci anni fa di un professore ordinario per l’impossibilità di mettere d’accordo una cordata che aspirava a chiamare un professore in servizio in un altro Policlinico e gli avversari che premevano per bandire il concorso e piazzarci un solito noto. È finita che non se n’è fatto niente.
Secondo e terzo piano, aspetto dimesso ma dignitoso, un centro per la cura della sterilità di coppia guidato proprio dal professore Vincenzo Benedetto - uno dei due dottori diventati pugili - un avviato servizio di riferimento per le donne in menopausa.

I medici parlano, ma «niente nomi, per carità». In tutto venticinque camici bianchi, di cui sei professori associati (esentati dalle guardie, la più rognosa delle prestazioni) e tutti gli altri ricercatori. Rimasti al primo gradino della carriera accademica nonostante i capelli bianchi, «anche perché non valeva neanche la pena di presentare domanda per il concorso», pure loro in parte dispensati dai turni di guardia per varie ragioni personali. Quattro sono andati in pensione il primo agosto con la «rottamazione» voluta dal ministro Brunetta: a casa quelli con quarant’anni di servizio.

Un mini-esodo che ha gettato benzina sul fuoco di una situazione già tesissima, aggravata dalla compressione del reparto che due anni fa ha perso ambulatori, ambienti comuni, spazi di studio. «Ma ci vede? Tra ferie e pensionamenti siamo rimasti quattro gatti», borbotta un dottore. Trent’anni fa, nel momento di maggiore fulgore, i posti letto erano 99. Oggi sono 26. Una media di un medico per ogni paziente, ironizza qualche nemico. «Sì? Allora sappia che presto saranno di meno - taglia corto un altro -. Io appena posso scappo in pensione».

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