mercoledì 31 marzo 2010

La partita da giocare



di EZIO MAURO

L'effetto simbolico del Lazio e del Piemonte che cambiano di segno politico fa pendere la bilancia elettorale dalla parte di Silvio Berlusconi, che era entrato indebolito nella cabina elettorale e ne è uscito rafforzato: tutto il resto è chiacchiera. In gran parte, il Cavaliere gode per la vittoria altrui a cui ha pagato un prezzo, consegnando alla Lega le chiavi di due grandi regioni settentrionali e dunque il governo diretto del territorio, con il passaggio dalla Padania immaginaria all'Italia reale. Ma intanto Bossi con la sua vittoria personale consegna tutto il Nord al Cavaliere, ad eccezione della Liguria, e dunque consente all'impero berlusconiano di allargarsi da est a ovest, senza veder mai tramontare il sole della destra.

Un'alleanza a ruoli invertiti nel Nord, con Bossi che diventa nei fatti il Lord Protettore di un berlusconismo declinante nella sua parabola, ma ancora capace di costruire vittorie. E un'alleanza sotterranea ma evidente a Roma con la Chiesa, che ha trasformato il Lazio in un totem, abbracciando il Gran Pagano pur di sconfiggere Emma Bonino, con i vescovi che scendono in campo nel 2010 italiano non per difendere un valore ma per dare un'indicazione esplicita di voto, come una qualsiasi lobby secolare, mondana e ultraterrena.

Al centro di questo sistema, un Cavaliere invecchiato e forse stanco, ipnotizzato dai suoi stessi malefici dopo un anno di scandali e rincorse giudiziarie, assorbito da sé oltre la normale patologia, circondato dai falsi movimenti di generali e colonnelli che preparano esplicitamente il dopo senza averne il talento e il coraggio. Un leader incapace da un anno di produrre alcunché - salvo le leggi ad personam per sfuggire ai suoi giudici - né politica né amministrazione, cioè governo. E tuttavia resta una differenza notevole, fortissima, tra il Berlusconi Premier e il Berlusconi campaigner, tra l'uomo di governo e la macchina elettorale. Quella macchina ancora una volta ha funzionato, tra vittimismi, accuse, attacchi, promesse, denunce, spostando a Roma i voti dalla lista Pdl che non c'era alla Polverini, come un alchimista. E anche questa è politica, quando riesce a convincere il Paese, e a riacchiapparlo nelle urne dopo averlo in parte perduto.

L'indebolimento a cui stiamo assistendo da un anno, dunque, non è tanto della leadership che ha una sua forza materiale e sta in qualche modo nella pancia del Paese, in un rapporto tra leader e popolo fatto di protezione reciproca, con il Capo che comanda ma chiede aiuto, quando ne ha bisogno perché si sente assediato dai disastri autofabbricati. L'indebolimento è della proposta politica e della sua capacità di guida, con il nucleo fondante di Forza Italia che ricorda la vecchia Dc declinante, negli anni in cui doveva cedere quote sempre più rilevanti di potere agli alleati con la convinzione di poter conservare il comando. Soltanto che qui la parabola non è ideologica ma biologica, nel senso che la politica e le sue scelte sono una variabile della biografia del leader, non dei valori di un partito o dei bisogni del Paese.

Sei regioni a destra, di cui quattro riconquistate, il segno del comando sul Nord, sono la cifra del successo di Berlusconi. Sotto questo risultato si allarga però la realtà di un declino che ha portato il Pdl al 26,7 per cento contro il 32,3 delle europee del 2009, il 33,3 delle politiche 2008 e il 31,4 delle regionali 2005, dove l'esito fu disastroso. E' la crepa che abbiamo segnalato un anno fa, alle elezioni europee, quando il Cavaliere ruzzolò dieci punti sotto le previsioni trionfalistiche della vigilia, grazie ai suoi scandali personali, quindi politici. Quella crepa dunque lavora, dopo un anno passato dal Premier ad inseguire un guaio dietro l'altro, con abusi di potere, forzature e prepotenze. Anzi, la crepa si allarga, tanto che senza l'energia politica - ma privata - della Lega, la consunzione di Berlusconi sarebbe evidente a tutti.

Paradossalmente, dunque, il Paese è contendibile, dopo un quindicennio di sovranità berlusconiana. Questo è un dato di fatto di grande importanza, confermato dal voto. Nelle 13 regioni dove si è votato, il fragile bipolarismo italiano vede il Pdl al 26,7, il Pd al 26,1, seguiti dalla Lega al 12,28, da Di Pietro al 7,2, da Casini al 5,5 per cento. Il Paese è contendibile, ma questo Pd non è oggi in grado di contenderlo. Ecco il problema. Bersani, che è arrivato da poco alla guida del partito, può contare le sette regioni conquistate contro le sei del Polo, per concludere che il Pd è tornato in gara. Ma non si può pensare di governare un Paese se si è esclusi dal Nord, se si precipita al 28 per cento nel Nordest e se si pensa di parlare ancora al Nordovest dai gloriosi cancelli di Mirafiori: senza sapere che nel nuovo piano Fiat tra pochissimi anni dietro quei cancelli ci saranno appena 2500 persone, perché il mercato del lavoro è cambiato, come la fisionomia di Torino, come la natura stessa del Piemonte, dove in tutta la provincia la Lega, urlando, ha sostituito il mormorio governativo della Democrazia cristiana: e il trapianto è riuscito.

L'astensione che penalizza il Cavaliere (ma non i partiti identitari, come la Lega e il movimento di Di Pietro) precipita anche addosso al Pd. Il che significa, molto semplicemente, che il principale partito d'opposizione non intercetta il malcontento dell'elettorato di maggioranza, e in più produce in proprio ragioni d'insoddisfazione. Dunque non funziona né l'opposizione, né la proposta di alternativa. D'altra parte il Pd si è esercitato principalmente, in questi mesi, nella costruzione di un "meccano" di alleanze, come se la politica fosse riassumibile dalla sola aritmetica, e come se l'identità e la natura di un partito non fossero più importanti di qualsiasi tattica. Gli elettori non sanno se il Pd è un partito laico, in un Paese in cui la Chiesa si muove come un soggetto politico; non sanno se è una forza di opposizione, con tutte le offerte di dialogo che alcuni suoi uomini specializzati rivolgono quotidianamente al Cavaliere, qualunque cosa accada; non sanno nemmeno se è di sinistra, in un Paese in cui la destra - e destra al cubo - mostra il suo vero volto in ogni scelta politica, istituzionale o sociale.

In più, c'è un problema di selezione delle élite, di politica dei quadri, di scelta dei candidati. Che senso ha candidare Loiero in Calabria, per poi fermarsi al 32 per cento? E che senso ha la guerra a Vendola, governatore uscente maledetto dal partito pochi mesi fa senza una ragione logica, e oggi salutato come il vincitore delle regionali da chi lo ha combattuto? La realtà è che il Pd ha un senso se è un partito nuovo non solo dal punto di vista delle eredità novecentesche, ma anche nella forma, nel metodo e nel carattere: un partito forte ma disarmato, nuovo in quanto scalabile, aperto perché contendibile, attento alle risorse, ai talenti e alle disponibilità democratiche che esistono in mezzo alla sua gente, senza che i dirigenti lo sappiano. Come esiste, tra gli elettori di sinistra e anche tra coloro che - sbagliando - si sono astenuti, un orizzonte italiano diverso da quello immobile e unico del berlusconismo. Un Paese che non è "anti", come viene raccontato dai cantori di comodo: è semplicemente diverso, perché conserva l'idea di una moderna democrazia costituzionale, di uno Stato di diritto, della legalità, della libertà, dell'uguaglianza. Un'Italia che per queste ragioni si oppone a Berlusconi, e chiede piena rappresentanza.

Rappresentare fino in fondo quest'Italia significa acquistare autonomia culturale e politica, indispensabili in questa nuova fase in cui le fanfare unificate dei regi telegiornali proclamano già l'avvio del "dialogo" per le riforme, che cominceranno proprio con la giustizia. Un'autonomia che consentirà di approfondire le contraddizioni dentro la destra (come la sconfitta di Brunetta e Castelli, o le dimissioni di Fitto da ministro), di vigilare sulla manomorta della Lega sulle banche attraverso le fondazioni, sui problemi che nasceranno dall'incrocio maldestro del nuovo federalismo col vecchio statalismo che non si lascia smontare.

C'è parecchio lavoro da fare, nell'interesse del Paese, per evitare che l'avventura berlusconiana si compia al Quirinale. Non ultimo, cercare un leader che possa sfidare il Cavaliere e vincere, come avvenne con Prodi: e cercarlo in libertà, anche fuori dai percorsi obbligati di età, di appartenenza e di nomenklatura. Forse, anche a sinistra è arrivata l'ora di un Papa straniero.

(30 marzo 2010)

PUNTI DI VISTA


“Attenti, tra un anno avremo 100mila iscritti”


Il “Movimento 5 stelle” e il successo alle Regionali

di Peter Gomez

Beppe Grillo cosa è successo in Piemonte? Dicono che avete fatto perdere al centrosinistra la regione. “Guardi, la verità è un’altra: Mercedes Bresso ci ha tolto un sacco di voti”. Se si volesse trattare il Movimento 5 Stelle come una sorta di fenomeno pop, nato al seguito di un comico famoso, si potrebbe chiudere l’intervista qui. Con una battuta. Ma la realtà è un’altra. E va ben oltre i risultati elettorali che hanno sancito expot dei ragazzi di Grillo in Emilia Romagna, Lombardia, Veneto e Piemonte, con percentuali che variano tra il 3 e il 7 per cento. Perché ormai da anni, mentre tutti li accusavano di anti-politica, decine di migliaia di giovani in Italia facevano politica. Grazie alla Rete e radunati nei meetup (un milione e mezzo di iscritti) discutevano di problemi del territorio, di termo-valorizzatori, di biomasse, di economia e sviluppo. Organizzavano incontri con esperti e premi Nobel, mettevano in calendario dibattiti e conferenze.

Tutto bello, Grillo, però la morale è che Berlusconi, lo psiconano, ora può sostenere di aver vinto. E Bersani dice che il vostro è stato un cupio dissolvi...

“Con Bersani non parlo, è un dipendente. Io parlo solo con D'Alema. E poi il loro gioco è proprio quello dei bari. Fanno come le squadre di calcio, si vendono le partite prima”.

Vuol dire che il risultato delle Regionali era stato deciso a tavolino?

“Registro ciò che vedo. Funziona così: io ti metto Loriero in Calabria - e so già che non prendo un voto - se mi dai un pezzo di Veneto. Io metto De Luca in Campania, se tu mi dai qualcosa d’altro. Solo che nel Lazio, con la storia della lista della Polverini, gli è andata male. Ma candidare in Lombardia una salma come Penati vuol dire sapere già che si perde. Queste sono spartizioni che la gente ha capito. Ecco perché si astiene”.

E se invece quella del Pd fosse solo stupidità?

“Se lo è, è ancora peggio. Se fosse così non avrebbero nemmeno il diritto di gestire un condominio”.

Però il Pd ha ancora milioni di voti. Ai loro elettori cosa dice?.

“Guardi, questa estate, quando avevo fatto la provocazione di candidarmi a segretario del partito, avevo detto: prendetevi il nostro programma, non potete avere lo stesso del Pdl. Prendete il nostro programma sull'acqua pubblica, sul wi-fi gratuito, sui trasporti, sul cemento zero. Lì dentro c’era tutto: dalle leggi, proposte, con centinaia di migliaia di firme sul ritorno al voto di preferenza, sino all’ineleggibilità dopo due legislature, all’abolizione della legge Gasparri e all’informazione e al Parlamento pulito. Così alle primarie non mi hanno fatto partecipare. E sa perché?.”

No.

“Del loro elettorato non si fidano. D’Alema dovrebbe per una volta uscire allo scoperto e fare la prova canotto...”

Canotto? Io credevo che andasse in barca a vela...

“No, lui e gli altri devono usare il canotto, se davvero hanno consenso. Radunino una folla e poi prendano un canotto e si facciano trasportare dalla gente. Loro devono fidarsi del loro elettorato. Io l’ho fatto due volte, durante la campagna per le Regionali, e garantisco che è davvero un atto di fiducia mettersi in mano alla gente”.

Potrebbe anche essere populismo. I bagni di folla piacciono soprattutto a Berlusconi...

“Non mi pare proprio. Perché il percorso che ci ha portato al successo di oggi è cominciato dal basso. Non dall’alto. È democrazia partecipativa partita dai social network. Dai risultati delle primarie che consegnammo a Romano Prodi. Il quale non comprese assolutamente che cosa erano. Eppure si trattava della sintesi di otto mesi di dibattito tra 800.000 persone. Una discussione a cui avevano partecipato premi nobel e idraulici, elettricisti e ingegneri dell’energia, su temi come la salute, i trasporti, la borsa, la Telecom. Ci eravamo messi d’accordo su otto punti. Ma visto che non ci hanno nemmeno preso in considerazione vuol dire che anche a lui interessavano solo i comitati di affari”.

O forse era semplicemente troppo vecchio per capire...

“Il fatto è che, anche se non se ne sono accorti, tutto sta cambiando. Ma oggi, a parte le nostre liste, l’unica nota vera è la Lega che è un movimento basato sul territorio. Eppure tra un anno noi, grazie al Web avremo più di 100.000 iscritti al Movimento e tutti allora ci dovranno considerare. Anche i tg, di cui peraltro ci importa molto poco. Anche se, visto il digital divide, adesso può succedere che in Campania, dove c’è forse il più bel meetup d’Italia con 4000 iscritti, ci siano delle difficoltà a farci conoscere”.

Diceva della Lega. Grillo ma non è che anche lei e il suo movimento state diventando federalisti?

“Non è una questione di ideologie. I nostri eletti sono laici e rispondono solo ai social network. Sono dei terminali dei social network. Nelle regioni si prendono decisioni importanti: si decide sulla salute, sull’acqua, sulla vita della gente. Ma i cittadini non sanno nulla. I nostri consiglieri saranno così dei terminali per svelare che cosa succede e per portare nelle regioni dei progetti elaborati dalla rete”

Progetti?

“Ne abbiamo migliaia e molti li abbiamo proposti e attuati nei piccoli comuni dove siamo già presenti. Abbiamo, per esempio, fatto risparmiare migliaia di euro alle amministrazioni passando alla luce fredda, alla raccolta differenziata spinta o riaprendo le piccole centrali elettriche. Se nel mondo ci sono cose che funzionano bisogna copiarle”.

E il federalismo?

“Come per tutto il resto sarà la rete a doverlo discutere. Io ho provato a leggere quello proposto dalla Lega, non si capisce niente. Ma se loro saranno furbi e cercheranno di illustrarlo in maniera comprensibile, si potrà iniziare un dibattito. Perché, per esempio, il federalismo sulla scuola non funziona. Esiste in Svizzera ma lì oggi tentano di uniformare il servizio scolastico. Lo stesso vale probabilmente per la sanità. Molto va ripensato, ma il servizio sanitario nazionale resta interessante”.

Intanto però la Lega è alleata di Berlusconi che controlla tv, informazione e vuole controllare pure la giustizia...

“Ma lui non ha vinto le elezioni. Lo psiconano è scomparso. E lo ha capito. Perché lo si può considerare come si vuole, ma non è stupido. Sa che il Pdl non c’è più, come non c’è più il Pd. Ormai è un anziano di 75 anni con attorno una serie di scarafaggi che si stanno preparando a sostituirlo. Perché qui non è più un problema di destra o di sinistra. Di Berlusconi o non di Berlusconi. Noi siamo un Paese economicamente fallito e tra pochi mesi, purtroppo, sarà chiaro a tutti”.

Padania, tra Lega e Pdl sono già venti di guerra


Federalismo & poltrone La Russa: scordatevi Milano

di Gianni Barbacetto

“Il Pdl ha vinto la battaglia più insidiosa: quella tutta interna al centrodestra, visto che qui la sinistra non è pervenuta”. Così Ignazio La Russa esulta per i risultati elettorali del nord. Ma così ammette anche che, in terra di Padania, ormai la guerra è con la Lega. La “battaglia più insidiosa” non è infatti finita con la chiusura delle urne. Anzi, il bello deve ancora venire. Le dichiarazioni ufficiali sono diplomatiche, sono cauti sia i leghisti, sia gli uomini del Pdl. Nel partito di Umberto Bossi prevalgono, per ora, i festeggiamenti per le due regioni conquistate, il Veneto di Luca Zaia (con sorpasso del Pdl) e il Piemonte di Roberto Cota (sudato), e per l’ottimo risultato in Lombardia (Lega al 26,3 per cento, quattro-cinque punti in più rispetto a Europee e Politiche).

Nel Pdl, d’altra parte, è tutto un affannarsi a dire che la vittoria di Silvio Berlusconi è piena e senza ombre e la coalizione resta salda e affiatata. Ma la realtà è diversa. E gli umori, i propositi, i sussurri dei leghisti – che si trattengono a stento – annunciano le prossime battaglie. Per accelerare l’attuazione del federalismo fiscale, ma anche per conquistare assessorati e poltrone, poi, chissà, il sindaco di Milano e i cda delle fondazioni bancarie... La Lega si prepara a far pesare il suo successo.

Nei prossimi mesi – fanno capire gli uomini di Bossi – ne vedremo delle belle.

Gianfranco Fini mette le mani avanti: “Non dovrà essere la Lega a dettare l’agenda della politica”. Eppure gli uomini del Carroccio si sentono i veri vincitori delle elezioni e si preparano a dare battaglia proprio nella regione del nord dove non hanno piazzato un loro governatore.

Anche in Lombardia il Pdl, malgrado i roboanti proclami di Roberto Formigoni, ha perso voti. In percentuale (almeno un paio di punti rispetto al 2008 e al 2009) e in voti assoluti (visto l’altissimo astensionismo di questa tornata elettorale, in cui altri 580 mila cittadini lombardi si sono aggiunti al primo partito in regione, quello di chi non vota).

Formigoni e la sua formidabile macchina di potere e di consenso hanno frenato la crisi del berlusconismo, ma non ci sono riusciti del tutto.

La Lega, invece, è andata avanti, ha guadagnato in percentuale e in voti. E da domani metterà Formigoni davanti a un semplice problemino matematico: poiché i consiglieri regionali del Carroccio in Lombardia saranno 20, quelli del Pdl 29 e quelli delle opposizioni 31, il governatore non riuscirà a far passare neppure la più insignificante delle delibere senza il pieno consenso dei leghisti.

Gli uomini di Bossi oggi esibiscono grandi sorrisi, ma stanno già affilando i coltelli. Perché vogliono insediare, accanto a Formigoni, un vicepresidente “che questa volta non sarà solo decorativo”, dice chiaro a Radio Padania il diretto interessato, Andrea Gibelli. Perché devono subito trovare un posto ai leghisti non eletti (da Giulio De Capitani, ex presidente del consiglio regionale, a Massimo Zanello, ex assessore alla cultura, da Luciano Bresciani, medico personale del Senatur, a Monica Rizzi, tolta dalle liste di Brescia perché non facesse ombra al figlio di Bossi, Renzo “la Trota”).

Formigoni ha a disposizione quattro poltrone per i sottosegretari e 16 per gli assessori: la Lega sta già preparando la sua lista della spesa.

Poi c’è la superpoltrona di sindaco di Milano. Bossi in persona ha detto che potrebbe farci un pensierino. La Russa gli risponde secco: “Ma no, lo sa anche lui. La Lega a Milano ha il 14 per cento: nonostante la disponibilità del tutto teorica di Bossi a fare il sindaco, Milano non è in discussione”. Non la pensano così i leghisti, che in discussione metteranno tutto e di più. Basta guardare che cosa è successo a Venezia: Renato Brunetta è stato battuto da Giorgio Orsoni, sindaco della città al primo turno. Il ministro protesta: “Non mi hanno votato quelli della Lega, hanno poca cultura di coalizione”. In effetti sull’operazione c’è la firma: in Laguna il Carroccio incassa il 19 per cento alle Regionali, dove si votava Zaia, e solo l’11 alle Comunali, dove evidentemente Brunetta ai leghisti non è piaciuto. La Russa fa finta di niente. Dice che il sorpasso in Veneto era previsto e che “un grande partito come il Pdl deve essere a volte particolarmente generoso... Ecco perché sono certo che il rapporto con la Lega migliorerà ancora”. Staremo a vedere. Ma se in Piemonte e Veneto Bossi ha già avuto quello che voleva, un governatore “padano”, in Lombardia lo scontro sarà anche più aspro. Davide Boni, l’uomo delle poltrone, è già pronto, con il suo fazzoletto verde in tasca, ad affrontare Formigoni. Per chiedere posti, assessorati, cariche. Più in generale, per condizionare le politiche sociali, la gestione dell’immigrazione e dei processi d’integrazione, le politiche sulla sanità, sull’assistenza, sulla scuola. Il conflitto sarà inevitabile, perché in Lombardia non c’è il berlusconismo liquido di altre parti d’Italia, ma l’occupazione concreta del potere e della società da parte del sistema ciellin-formigoniano. Poi ci sarà la contesa per le banche. Gli enti locali (occupati al nord da Pdl e Lega) dovranno nominare una bella fetta dei consigli delle fondazioni bancarie: Crt (Unicredit) e Compagnia Sanpaolo (Intesa) in Piemonte; Cariplo (Intesa) in Lombardia; Cariverona e Cassamarca (Unicredit) in Veneto. Infine, ma non ultima, c’è la politica che si combatterà a Roma e nel paese nelle prossime settimane. Berlusconi, archiviata la tornata elettorale, tornerà a mettere sul tavolo le cose che gli stanno a cuore davvero, la giustizia, la legge sulle intercettazioni, gli strappi agli equilibri costituzionali. Fino a che punto Bossi lo seguirà?

“Sinistra da processare Il ‘disco rotto’ di B. vince da 15 anni”


di Wanda Marra

“Ci vorrebbero una specie di Stati generali dell’opposizione. Per ammettere la sconfitta e cercare un modo per uscirne. Un luogo in cui la nomenklatura di sinistra venisse messa sotto processo e rispondesse sul perché non è riuscita a trovare nessuna strategia vincente in 15 anni, se non quella di Prodi”. Barbara Spinelli, una delle più autorevoli giornaliste e commentatrici italiane, il giorno dopo quella che appare un’indubbia vittoria di Berlusconi e della Lega lo dice chiaro e tondo. Per ripartire, per uscire dall’angolo in cui è finita l’opposizione, si deve ricominciare da qui. Dal riconoscere di aver perso.

Come si spiega questo risultato?

Ancora una volta è stata la forza della campagna e del tipo di discorso che ha fatto Berlusconi a far spostare l’ago della bilancia. Lui si è speso moltissimo. Il secondo elemento è la Lega, un partito con radici forti nel territorio, che rappresenta una parte dell’Italia che non ha il senso dello Stato, al di là dei propri interessi.

Quella di ieri è stata l’ennesima mattina, da qualche anno a questa parte, in cui l’Italia di centrosinistra si è svegliata chiedendosi il perché di una indubbia batosta. Ma non sarà che c’è una difficoltà di leggere e capire la realtà?

Questo è assolutamente il problema dell’opposizione. E ogni volta va peggio. L’errore principale è sottovalutare la forza di Berlusconi. Veltroni non osava nemmeno nominarlo. Bersani ha continuato a definirlo un disco rotto. Ma ripetere con forza sempre lo stesso slogan è esattamente la forza di Berlusconi. Lui ha fatto la campagna elettorale sulla persecuzione da parte dei media e delle intercettazioni illegali. E l’opposizione per smarcarsi ha parlato di tutto tranne di questo, mettendo l’accento sulle questioni e i problemi veri, di cui però il Cavaliere non parla. Paradossalmente così ha accettato l’agenda del premier, senza inchiodarlo, cosa che fa peraltro da 15 anni. E poi lui resta l’unico ad aver capito fino in fondo la forza della manipolazione della realtà da parte della televisione.

Non crede che ci sia anche un problema nel modo di fare politica del centrosinistra?

Certamente, bisognerebbe trovare coalizioni molto allargate, un po’ come ha fatto Vendola. Ma si tratta di un’operazione di lungo respiro. Bisognerebbe cominciare dal territorio.

A proposito di territorio. Quanto ha pesato la questione morale, a cominciare da Marrazzo per finire a Delbono?

L’idiozia della sinistra è senza fondo. In una situazione come quella italiana non ti vai a buttare come Marrazzo in giochi pericolosi. E ciò è vergognoso non tanto per ciò che lui ha fatto, ma perché la vita privata di un personaggio pubblico in questo momento ha un peso particolare. Ci poteva pensare.

Che cosa ha determinato la sconfitta dell’opposizione nel Lazio?

In parte ha pesato appunto l’eredità di Marrazzo. E’ poi è stato molto forte l’intervento della Chiesa e della Cei, un invito chiaro a non votare né Bonino né Bresso.

La Bresso ha detto che ha perso per colpa dei grillini. È d’accordo?

È chiaro che è stata anche colpa loro, ma se lei avesse avuto una vera ambizione integratrice come Vendola al sud, forse molti avrebbero votato per lei.

Ma come interpreta il successo dei grillini?

È il voto di molti scontenti di sinistra, che però sono contro questo regime attuale. Spero che un giorno tutti questi movimenti si riuniscano e insieme alle forze più tradizionali diano vita a uno schieramento che ha l’obiettivo di abbattere l’avversario e non di dargli solo fastidio.

L’ipotesi che si comincia a fare di Vendola come leader dell’opposizione la convincerebbe?

Io spero che Vendola sarà il prossimo leader della sinistra perché ha il linguaggio giusto, chiaro, aggressivo, e non allusivo. Non mi importa capire se Berlusconi è un disco rotto, ma voglio sapere perché è pericoloso. Io penso che Vendola abbia la statura di un leader di governo: il governatore di una Regione non è che non sia niente.

Bersani ha detto che non si può parlare di vittoria, ma neanche di sconfitta, che è dimezzata la distanza dal centrodestra, e che il Pd ha guadagnato un punto rispetto alle Europee. Ma dopo aver perso 4 regioni come Calabria, Campania, Lazio e Piemonte non sarebbe stato meglio ammettere la sconfitta?

Sì, e sono 15 anni che abbiamo questo problema.

E Di Pietro?

Ha scommesso sulla coalizione con il Pd e non so se questo gli sia stato utile. Non so se abbia perso o vinto. Ma non lo vedo come la forza egemone. È meglio Vendola. Che è più astuto nell’aggregare le forze.

Tornando alla maggioranza. Il Pdl è molto calato. Questo che peso avrà all’interno del centrodestra?

Alla lunga il Pdl si indebolisce ma non so se dobbiamo essere così contenti di avere una Lega tanto forte in un paese dove l’immigrazione è una realtà sempre più importante. La perdita del Pdl sarà pochissimo rispetto al trionfalismo nei prossimi mesi e anni.

“Vedo nero, nerissimo Ma il giocattolo del capo si è sfasciato”


di Beatrice Borromeo

“È andata malissimo. Sono depresso. Mi sento una specie di Abatino Galiani: vedo tutto nero, noir, noir”. Parole pesanti per chi conosce il professor Giovanni Sartori, politologo ed editorialista del Corriere della Sera, che di solito si limita a esorcizzare con l’ironia anche le situazioni più gravi.

Professore, è nata la Padania.

Sì, e questo divide il paese: ora al nord faranno il federalismo fiscale e il Pdl diventa un partito meridionale. Si sgretola il giocattolo di Berlusconi.

Cioè l’alleanza con Fini e Bossi?

Certo, perché al nord prevale la Lega e il presidio di Berlusconi si confina al sud. Questo implica un partito molto clientelare e condizionato dalle varie mafie. Il Pdl è un partito di plastica, di cartapesta. Regge perché gli uomini di Berlusconi devono tutti il posto a lui. Soltanto al centro rimane qualche isola rossa resistente.

Quindi secondo lei Berlusconi, personalmente, ha perso nonostante il buon risultato elettorale?

Sì, e io l’avevo previsto. Il problema di Berlusconi non sono i voti, ma la distribuzione del potere sul territorio. Il Pdl è incentrato solo su Berlusconi che concede tutto a tutti perché a lui interessa soltanto preservare il suo potere.

La Lega è l’unico partito radicato che non si affida solo al carisma del leader. Il Pd dovrebbe ispirarsi a questo modello?

La Lega rappresenta interessi concreti, quelli della piccola borghesia, di un elettorato del nord che vuole tenersi i soldi. Al sud il discorso è diverso: i soldi non si producono, si rubano e si spendono per mantenere le clientele.

Quindi la sinistra non si radica perché non rappresenta più nessuno?

Al nord il centrosinistra ha commesso un grave errore a parlare di “immigrazione facile”, perché poi succede che l’operaio disoccupato vota Lega. Pensa al suo interesse. C’è una crisi economica globale che mette in pericolo l’occupazione e il lavoro, in particolare in Italia. La sinistra non lo capisce, non usa alcuna lungimiranza proprio su temi e problemi riguardo cui doveva essere ghiotta e propositiva. Invece nulla.

Salva almeno Di Pietro o Nichi Vendola, l’unica opposizione che non è stata sconfitta?

Io non ho nessuna stima per Di Pietro, demagogo di sinistra. E la vittoria di Vendola è un problema per Bersani, perché tira il partito a sinistra. L’idea del Pd riformista era invece di cercare voti al centro.

Perché il Pd perde? Qual è il problema?

Tra gli altri, c’è che sono stupidi: Bersani chiede il ritorno al Mattarellum per avere un centrino-ino-ino che a malapena passa la soglia di sbarramento. Il segretario del Pd si preoccupa di questo e non di una legge elettorale come il Porcellum che lo stritola. È chiaro che l’unione Bossi-Berlusconi si prepara a vincere le prossime elezioni, e con la vittoria otterrà automaticamente il 55 per cento dei seggi. Ma di questo Bersani non si preoccupa.

La sinistra ha cancellato dall’agenda anche la legge sul conflitto di interessi.

Quello è stato il bacio della morte. Tutto è cominciato dalla rinuncia a quella legge.

Secondo lei il segretario Bersani è in bilico dopo questo voto?

Per adesso non vedo di molto meglio in giro. E poi non ha subito una sconfitta indecorosa. È andata male ma, poveraccio, neanche per colpa sua. Questo partito soffre l’eredità dell’ultimo governo Prodi.

E degli ultimi scandali : Delbono a Bologna, Marrazzo nel Lazio.

Gli scandali più che altro hanno generato disincanto. Siamo un Paese marcio nel midollo e chi vota Berlusconi non si è fatto molto influenzare: quell’elettorato segue una tivù sotto controllo quindi – a parte i lettori del Fatto e di qualche altro giornale ancora libero di parlare – il cittadino dice: “E vabbè”. Non ha anticorpi, non è reattivo.

Cosa può fare un cittadino onesto che vuole contribuire, sperare ?

E’ abbastanza impotente. Finché ci sono Berlusconi, il suo sistema di potere e il controllo dei media, non vedo nessuna speranza.

Però è cresciuta l’astensione: una protesta contro questo sistema?

Era astensione equidistribuita, non ha colpito solo il centrodestra ma anche il Pd. È disaffezione, antipolitica, disgusto e indifferenza della politica tutta.

Anche le nostre elezioni, come quelle americane di mid-term, sono un giudizio sull’operato del governo più che un voto locale?

Berlusconi ha impostato la campagna elettorale su di lui e quindi il risultato si può solo leggere come una conferma del governo.

Quanto ha influito l’opposizione della Cei alle candidate abortiste, Bonino e Bresso?

Si potrebbe frenare questo eccesso di invasione ecclesiastica della politica, perché l’elettorato cattolico duro e puro non supera il 4per cento. Ma sia il governo che il centrosinistra si arrendono subito, senza combattere, a una Chiesa che è tornata alla riscossa.

Nessun cambiamento in vista?

Oggi no, lo escludo. Comunque ci siete voi sulle barricate, io sto nelle retro

In poche parole, un’altra Caporetto


di Marco Travaglio P>

Mentre il Pdl di Menomalechesilvioc’è perde 8,5 punti in un anno e tocca il minimo storico, la Lega lo asfalta al nord e Fini può rivendicare i successi in Lazio e Calabria con i suoi Polverini e Scopelliti, soltanto il vertice del Pd poteva trasformare la débâcle berlusconiana in una Caporetto del centrosinistra (fra l’altro, scambiata per una vittoria).

Bersani, cioè D’Alema e i suoi boys (almeno quelli rimasti a piede libero), ce l’han messa tutta per perdere le elezioni più facili degli ultimi anni e, alla fine, possono dirsi soddisfatti.

In Piemonte hanno candidato una signora arrogante e altezzosa, bypassando le primarie previste dallo statuto del Pd per evitare di dar lustro al più popolare Chiamparino e riuscendo nell’impresa di consegnare il Piemonte a tale Cota da Novara per solennizzare degnamente il 150° dell’Unità d’Italia.

A Roma, la città del Papa, hanno subìto la candidatura dell’antipapista Bonino per mancanza di meglio (il meglio ce l’avevano, Zingaretti, ma l’hanno nascosto alla Provincia per evitare che, alla tenera età di 45 anni, prendesse troppo piede), poi l’han pure lasciata sola per tutta la campagna elettorale.

In Campania, calpestando un’altra volta lo statuto, hanno sciorinato un signore che ha più processi che capelli in testa perché comunque era “un candidato forte”: infatti.

In Calabria han ricicciato un giovin virgulto come Agazio Loiero, che quando ha perso come tutti prevedevano si è pure detto incredulo, quando gli sarebbe bastato guardarsi allo specchio.

Non contenti, questi professionisti del fiasco, questi perditori da Oscar le hanno provate tutte per fumarsi anche la Puglia, candidando un certo Boccia che perderebbe anche contro un paracarro, ma alla fine hanno dovuto arrendersi agli elettori inferociti e concedere le primarie, vinte immancabilmente dal candidato sbagliato, cioè giusto.

Hanno inseguito il mitico “centro” dell’Udc, praticamente un centrino da tavola all’uncinetto, perché “guai a perdere il voto moderato”. Infatti gli elettori sono corsi a votare quanto di meno moderato si possa immaginare: oltre a Vendola, i tre partiti che parlano chiaro e si fanno capire, cioè Lega, Cinque Stelle e Di Pietro.

Altri, quasi uno su due, sono rimasti a casa o han votato bianco/nullo, curiosamente poco arrapati dai pigolii del “maggior partito dell’opposizione” e dal suo leader, quello che “vado al Festival di Sanremo per stare con la gente” e “in altre parole, un’altra Italia”. Se, col peggiore governo della storia dell’umanità, l’astensionismo penalizza più l’opposizione che la maggioranza, un motivo ci dovrà pur essere. L’aveva già individuato Nanni Moretti nel lontano febbraio 2002, quando in piazza Navona urlò davanti al Politburo centrosinistro “con questi dirigenti non vinceremo mai”.

Sono gli stessi che sfilano in tutti i salotti televisivi, spiegando che la Lega vince perché “radicata nel territorio” (lo dicono dal 1988, mentre si radicano nelle terrazze romane o si occupano di casi urgentissimi come la morte di Pasolini) e alzando il ditino contro Grillo, che “ci ha fatto perdere” e “non l’avevamo calcolato”. Sono tre anni che Beppe riempie le piazze e li sfida su rifiuti zero, differenziata, no agli inceneritori e ai Tav mortiferi, energie rinnovabili, rete, acqua pubblica, liste pulite, e loro lo trattano da fascista qualunquista giustizialista.

Bastava annettersi qualcuna delle sua battaglie, sganciandosi dal partito Calce & Martello e dando un’occhiata a Obama, e lui nemmeno avrebbe presentato le liste.

Bastava candidare gente seria e normale, fuori dal solito lombrosario, come a Venezia dove il professor Orsoni è riuscito addirittura a rimpicciolire Brunetta.

Ma quelli niente, encefalogramma piatto.

Come dice Carlo Cipolla, diversamente dal mascalzone che danneggia gli altri per favorire se stesso, lo stupido danneggia sia gli altri sia se stesso. Ecco, ci siamo capiti. Ce n’è abbastanza per accompagnarli, con le buone o con le cattive, alle loro case (di riposo). Escano con le mani alzate e si arrendano. I loro elettori, ormai eroici ai limiti del martirio, gliene saranno eternamente grati.

EFFETTIVAMENTE!


martedì 30 marzo 2010

QUAL E' IL CAVALIERE?


DUE MAGISTRATI PER RIFARSI UN’IMMAGINE


Perché i pm Russo e Chinnici sono entrati nella Giunta siciliana

di Sandra Amurri

Era il 23 maggio 2008 quando dalle pagine dell’Unità chi scrive commentò la notizia della nomina di assessore alla Sanità della Giunta Lombardo del pm antimafia Massimo Russo. Non un nome qualunque della Procura di Palermo, bensì un allievo di Paolo Borsellino, presidente della Fondazione che porta il suo nome, il magistrato che dava la caccia al latitante Matteo Messina Denaro, che si era battuto a favore del rinvio a giudizio per concorso esterno in associazione mafiosa di Totò Cuffaro, che era stato presidente dell’Anm palermitana. Una nomina che portava con sé il concreto dubbio che Lombardo l’avesse utilizzata come strumento per ricostruirsi una verginità politica e “giudiziaria”. Oggi Lombardo è indagato per concorso esterno in associazione mafiosa con il fratello Angelo, parlamentare e il deputato dell’Udc Fagone, mentre la voce che i magistrati potrebbero chiedere per lui l’arresto non smette di tacere. E le conversazioni intercettate dai Ros pubblicate da Repubblica confermerebbero che Lombardo si era costruito grazie a Massimo Russo, e all’assessore alle Autonomie locali e alla Funzione pubblica Caterina Chinnici (figlia di Rocco Chinnici, capo dell’ufficio istruzione di Palermo, ucciso dalla mafia con un’autobomba nel 1983 e magistrato lei stessa), l’immagine di un presidente che voleva ripulire la sanità e governare camminando nella legalità “Raffaele ha fatto una minchiata a fare questi magistrati assessori. Perché questi, anche se lui è convinto che lo faranno, non potranno proteggerlo”, commentava il boss Vincenzo Aiello con i suoi picciotti. Come dire: dubbi solidi. Ai tempi su Lombardo era stato aperto un fascicolo in quanto, nei tabulati trovati sul suo computer quando era presidente della Provincia di Catania, c’era una lista puntuale e rigorosa di tutte le raccomandazioni fatte, dei concorsi manipolati, delle gare d’appalto, l’elenco dei giurati del concorso di abilitazione per dottori commercialisti e l’elenco dei raccomandati (tutti passati), degli appalti e altro ancora. Poi di quel fascicolo non se ne seppe più nulla. Ma restava l’incognita che a svolgere il ruolo di assessore alla Sanità della Giunta Cuffaro fosse stato proprio un uomo di Lombardo. Stiamo parlando di una regione che aveva sottoscritto il più alto numero di convenzioni con laboratori di analisi, cliniche private, pari a tutte le convenzioni stipulate dalle regioni italiane. Per fare qualche esempio: la Lombardia, ne aveva stipulate 120, l’Emilia 80 e la Sicilia 1900. Da allora di acqua sotto i ponti ne è passata. Si è consumata la rottura tra Cuffaro e Lombardo, che ha stretto un patto con Micciché per costruire la Lega del Sud. Ma Lombardo non ha mai convinto fino in fondo. Per tutti ha continuato ad essere quello che aveva gestito la sanità come luogo di occupazione politico-familistica, sistemando cognati, parenti e suoi fidati nei posti chiave. Seppure, a differenza di Cuffaro, il suo è sempre stato un metodo poco rumoroso ma più scientifico. Massimo Russo, in ogni caso, allora motivò la sua scelta così: “Ho rifiutato la candidatura alla Camera. E mi chiedo: ma si può sempre dire di no rischiando di perdere il diritto di critica?”. Domanda alla quale rispose Claudio Fava, oggi segretario di Sel, con il titolo del celebre romanzo di Giorgio Boatti Preferirei di no. Spiegando che in Sicilia più che altrove l’applicazione della proprietà transitiva in politica porta con sé rischi e pericoli. “Non a caso la vita di Falcone e di Borsellino fu costellata da molti “no” a chi avrebbe voluto loro tagliare le unghie, depositandoli come soprammobili in qualche angolo oscuro della politica” concluse Fava. E quando Falcone accettò di diventare direttore degli Affari penali lo fece solo perché da Roma avrebbe potuto intraprendere una nuova forma di strategia di lotta alla mafia, che a Palermo gli veniva impedita. L’articolo scritto nel 2008 si concludeva così: “Non resta, dunque che sperare e augurare a Massimo Russo, che per combattere la mafia ha rischiato anche la vita come testimonia la scorta che lo accompagna giorno e notte, che da assessore alla Sanità della Giunta Lombardo riesca a modificare quell’idea di sanità fin qui sperimentata”. Sicuramente Massimo Russo non ha abbassato la testa e non ha svenduto la sua integrità per una poltrona. Ma appare chiaro che quello con la mafia è un abbraccio che solo la morte può interrompere, come dicevano Falcone e Borsellino. E che dire “no” spesso è una garanzia per non lavare le mani altrui. Il portavoce dell’Idv, l’onorevole Leoluca Orlando chiama in causa Russo: “Se la notizia dell’indagine sul presidente della Regione Sicilia dovesse essere confermata, sarebbe del tutto inopportuna la permanenza in Giunta di magistrati con funzione di assessori”. Ma anche Salvino Caputo, componente della Commissione regionale antimafia, chiede a Russo e Chinnici di essere coerenti e dimettersi. Massimo Russo però risponde: “Non provo alcun imbarazzo per una fuga di notizie su un rapporto che deve essere ancora valutato dalla magistratura. Che invitiamo a fare in fretta per verificare la fondatezza delle accuse”. Ma soprattutto, l’assessore alla Sanità ha detto: “La nostra azione amministrativa ha evidentemente toccato nervi scoperti. Se verranno alla luce fatti che accertassero la responsabilità di Lombardo considererei conclusa questa mia esperienza. Ma allo stato i fatti sono altri. Così continueremo a lavorare al processo di rinnovamento intrapreso nell’esclusivo interesse di questa terra”.

La Lega parla milanese B. non trascina più


Formigoni vince altissimo astensionismo

di Gianni Barbacetto

Alle prime proiezioni dei risultati elettorali, ieri, il leghista Andrea Gibelli, futuro numero uno del Carroccio in Regione Lombardia, aveva avvertito: “Abbiamo acceso il fuoco sotto la polenta”. Da servire a Ignazio La Russa, come accompagnamento all’asino: perché il ministro della Difesa aveva promesso di mangiarsi un asino vivo, in caso di sorpasso del Pdl da parte della Lega. Il sorpasso alla fine non c’è stato e l’asino è salvo. Ma la polenta è servita comunque a festeggiare l’ottimo risultato del partito di Umberto Bossi: attorno al 26-27 per cento, con il Pdl tra il 31 e il 32.

In Lombardia, Roberto Formigoni sapeva di non avere molto da temere: ha confermato il suo consenso e si attesta (a spoglio non ancora concluso) attorno al 56 per cento. La formidabile macchina di potere della sua area ciellina ha tenuto bene. E si è sommata all’avanzata leghista. Eppure perfino qui, nella Lombardia dove il risultato era sicuro ancor prima di giocare la partita, si vedono i segni della crisi di Silvio Berlusconi e del suo sistema. Li evidenzia nettamente l’astensionismo, fortissimo. I votanti sono stati il 64,7 per cento, erano il 73 per cento alle scorse Regionali, nel 2005. Il primo partito della più ricca regione d’Italia è dunque il partito dei non votanti, cresciuto più dell’8 per cento.

Un astensionismo in parte di centrodestra: segnala che Silvio non incanta più, non convince, non riesce a far andare a votare una parte dei suoi sostenitori d’un tempo. La Lega compensa: era sotto il 16 per cento alle scorse Regionali, ora guadagna una decina di punti e incassa un successo straordinario. Tanto che il grande capo, alla prima conferenza stampa nella sede milanese di via Bellerio, a risultati ancora parziali, lancia la sua candidatura a sindaco di Milano. Un primo segnale di guerra dentro il centrodestra. I leader del Pdl si mostrano sorridenti, celebrano la vittoria, ma il loro stomaco è accartocciato, come se avessero mangiato il povero asino evocato da La Russa. I conti, comunque, li faranno più avanti, con Andrea Gibelli che si prepara a diventare il vicepresidente della Regione, un numero due fortissimo di un Formigoni che ha tenuto, ha evitato al Pdl una flessione, ma non riuscirà a evitare, nelle prossime settimane, la resa dei conti tra ex Forza Italia ed ex An, ma soprattutto tra ala ciellina e ala “laica” (quella guidata dal presidente della Provincia di Milano Guido Podestà) che sarà accusata di aver indebolito il partito, permettendo così che la Lega occupasse gli spazi lasciati liberi a destra.

A sinistra, Filippo Penati si mostra soddisfatto. Si attesta attorno al 33 per cento (a dati ancora parziali) e segnala che a Milano ha avuto risultati anche migliori. Da dentro il suo partito, il Pd, arrivano però commenti velenosi: nel 2005, lo sconosciuto e tanto vituperato (allora) candidato dell’Unione, Riccardo Sarfatti, aveva conquistato il 43 per cento. Dieci punti in più di Penati, oggi braccio destro del segretario del Pd Pier Luigi Bersani. E anche a Milano non è avvenuto il miracolo che Penati sognava: battere Formigoni almeno in città, per poi diventare il prossimo candidato sindaco del centrosinistra. L’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro gioisce del buon risultato ottenuto dentro la coalizione di centrosinistra. Vola sopra il 6 per cento, con un Pd che fatica a raggiungere il 23. Qualcosa gli ha tolto, nel suo stesso bacino elettorale, la lista Cinquestelle, ispirata al movimento di Beppe Grillo, il quale, nel silenzio di giornali e tv, ha riempito piazza del Duomo alla fine della campagna elettorale, come non sarebbe riuscito a fare alcun leader di partito. In Lombardia la lista Cinquestelle schierava un candidato assolutamente sconosciuto, Vito Crimi, eppure ha sfiorato la soglia fatidica del 3 per cento, quella che permette di portare eletti dentro il consiglio regionale. Si è fermata invece decisamente sotto quella soglia, attorno al 2, la Federazione della sinistra (con Rifondazione comunista e Pcdi), che aveva espresso il candidato presidente Vittorio Agnoletto. È la fine, anche in Lombardia, di un pezzo di storia e di un pezzo di sinistra, che, già uscita dalle aule parlamentari, esce ora anche dal consiglio regionale.

L’Udc, rappresentata dalla faccia paciosa di Savino Pezzotta, ha raccolto un risultato tra il 4 e il 5 per cento. Alle sue spalle, il vecchio democristiano Luigi Baruffi, che subito dichiara: entriamo in consiglio regionale, dove faremo sì opposizione, ma ben diversa da altre opposizioni: costruttiva e pronta a sostenere Formigoni sui temi della famiglia e della politica sanitaria.

PANTANO PD. L’IDV: SIAMO LA MOGLIE COL MATTARELLO


di Caterina Perniconi

“Matematicamente abbiamo vinto” è la frase che ieri risuonava continuamente nei corridoi del Partito Democratico. Il segretario, Pierluigi Bersani, non parla anche se per tutto il giorno fa trapelare ottimismo sui dati in arrivo dal Piemonte, meno su quelli del Lazio. “Abbiamo invertito il trend negativo delle politiche e delle europee – ha dichiarato la presidente del Pd Rosy Bindi – la maggioranza delle regioni è del centrosinistra e questo è già un risultato positivo”. Ma di certo il Pd non può fare un bilancio di queste elezioni solo con la calcolatrice.

Le disfatte di Calabria e Campania, guidate precedentemente dal centrosinistra, sono note fin dal primo pomeriggio.

Agazio Loiero, candidato del Pd in Calabria, non va oltre il 30%, e non sarebbero bastati i 9 punti raccolti dall’Idv con Filippo Callipo per vincere la regione, conquistata da Giuseppe Scopelliti col 61%. Una debacle sulla quale c’è da riflettere, soprattutto per la bagarre creata nella scelta del candidato, che ha scoraggiato molti elettori. “Ho vinto in ogni caso la mia battaglia – ha dichiarato Callipo – per me non fa alcuna differenza che abbia vinto Scopelliti. Sarebbe stato lo stesso, infatti, anche se avesse prevalso Loiero. Sono due personaggi sui quali il mio giudizio è negativo”.

In Campania pochi credevano ad un dopo-Bassolino guidato dal centrosinistra. E la previsione è stata rispettata. L’ex socialista Stefano Caldoro, ha raggiunto il 53,4 % dei voti, lasciando indietro Vincenzo De Luca. Mentre Rifondazione comunista, che candidava simbolicamente Paolo Ferrero in polemica con la scelta del Pd, ha ottenuto solo l’1,3 %. Neanche la vittoria di Nichi Vendola appartiene ad una decisione convinta dei democratici, ma a quella del popolo delle primarie.

Da oggi, quindi, c’è da cominciare a ragionare sul futuro, sulle alleanze e i candidati che funzionano.

Lo sa bene Antonio Di Pietro, che festeggia senza bisogno della matematica. Non solo per l’exploit di Callipo, ma perché i dati dell’Idv sono in crescita in tutt’Italia, rispetto sia alle elezioni regionali del 2005, che alle politiche del 2008, tra l’8 e il 9 % di media. Quando arriva in sala stampa, allestita per l’occasione nella sede nazionale del partito alle 19, Di Pietro si accerta che i giornalisti abbiano ottenuto i viveri per resistere fino a quell’ora in sua attesa, e chiede subito “pari dignità” al Pd, forte del suo risultato: “Adesso dobbiamo confrontarci sulle cose da fare per creare un’alternativa al governo Berlusconi – dichiara il leader dell’Idv – il Pd ha perso molto tempo per flirtare con l’Udc, ora deve tornare ad un matrimonio con una moglie ostica che sa usare il mattarello come è l’Idv”. Scelta che anche Rosy Bindi non disdegna: “L’Udc lo lasciamo volentieri, abbiamo visto che anche al nord vinciamo senza”. Di Pietro, dopo aver confutato la solidità dei suoi voti, si è impegnato a “rafforzare la coalizione” prevedendo che alla fine non farà la moglie ostica, ma il “marito capofamiglia”. Un ruolo che Pierluigi Bersani non cederà facilmente all’ex pm: “Bersani – ha continuato Di Pietro – deve però occuparsi in prima persona di alcune situazioni regionali del partito, e limitare il potere dei notabili locali”.

Eppure il colpaccio di queste elezioni l’ha fatto il comico genovese Beppe Grillo: il suo “Movimento a 5 stelle”, rappresentante la politica antipartitica, ha superato lo scoglio del 3 %, arrivando addirittura al 7 in Emilia Romagna. Nelle regioni dove sono state presentate le liste i candidati hanno raccolto ripettivamente il 2,3 % in Lombardia, il 2,6 in Piemonte, il 7 in Emilia Romagna, l’1,6 in Campania e, soprattutto, un 3,4 % con Davide Bono in Piemonte, che rischia di pregiudicare il risultato della regione. Grillo ancora non si capacita e non vuol sentir parlare di “guastafeste”. Per Di Pietro “una sconfitta del centrosinistra non può essere imputata agli amici di Beppe Grillo perché loro rappresentano il fronte della protesta pura che noi cercheremo di coinvolgere nel buon governo”.