mercoledì 30 giugno 2010

Lodo Alfano, si estende scudo premier "Sospensione per tutti i processi"


In arrivo dal Pdl modifiche per il Lodo Alfano. Nel parere sul Lodo che la commissione Giustizia del Senato sta per dare alla commissione Affari Costituzionali di Palazzo Madama, c'è anche la proposta di estendere ulteriormente lo scudo per il premier, prevedendo che la sospensione possa valere anche per i processi cominciati prima dell'assunzione della carica. Estensione di cui dovrebbero godere anche i ministri e che, nel testo attuale, vale solo per il presidente della Repubblica.

A stretto giro arriva la reazione dell'opposizione. "La decisione è davvero sconcertante - afferma il capogruppo del Pd in Commissione Giustizia della Camera, Donatella Ferranti - e dimostra, qualora ce ne fosse stato bisogno, che non si tratta di un provvedimento con nobili intenzioni. Ripeto, è tutto molto sconcertante, si fa scempio della giustizia".

Per Filippo Berselli, presidente della commissione Giustizia "un diverso trattamento tra il capo dello Stato e il presidente del Consiglio non sarebbe giusto. Così la proposta è di uniformare il trattamento riservato al presidente della Repubblica anche al premier e ai ministri". "Questa formulazione, per un errore di chi ha formulato il testo - sottolinea Berselli - non era stata estesa al presidente del Consiglio e ai ministri. Nel parere che stiamo per presentare in Prima Commissione cerchiamo di ovviare a questa disparità di trattamento".

Della modifica si è parlato anche questa sera nella Consulta della giustizia del Pdl. Durante la riunione, alcuni senatori avrebbero annunciato il parere che il presidente Berselli dovrebbe presentare domani alla Commissione Affari Costituzionali. Se il parere della Commissione Giustizia verrà accolto, lo scudo per il premier e per i ministri si potrebbe estendere ulteriormente e la sospensione scatterebbe anche per quei processi cominciati prima dell'assunzione dell'incarico. "Poi proponiamo di introdurre anche altre modifiche - conclude Berselli - come quella che riguarda la sostituzione del termine 'procedimento' con 'processo'. Ma tutti gli altri rilievi sono più che altro di carattere tecnico".

(30 giugno 2010)

L'anello di congiunzione tra i boss e il Cavaliere


di GIUSEPPE D'AVANZO

UNA sentenza ripete per la seconda volta, in appello, una verità tragica: Marcello Dell'Utri, l'uomo che ha accompagnato passo dopo passo, curva dopo curva, tutt'intera l'avventura imprenditoriale di Silvio Berlusconi è stato un amico dei mafiosi, l'anello di un sistema criminale, il facilitatore a Milano degli affari e delle pretese delle "famiglie" di Palermo, prima del 1980. Dei Corleonesi, almeno fino al 1992 quando cadono Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Se sarà confermata dal giudizio della Cassazione, è una "verità" tragica perché ricorda quanto le fortune del Cavaliere abbiano incrociato e si siano sovrapposte agli interessi mafiosi e rammenta come - ancora oggi - possa essere vigoroso il potere di ricatto di Cosa Nostra su chi governa, sui soci di Berlusconi, forse sullo stesso capo del governo. È stupefacente, alla luce di queste osservazioni, il vivamaria che minimizza, ridimensiona, sdrammatizza l'esito della sentenza di Palermo. Come naufraghi al legno, ci si aggrappa - uno per tutti, lo spudorato Minzolini retribuito con pubblico denaro - alla riduzione della pena di due anni. Dai nove del primo grado ai sette anni di oggi, contro gli undici chiesti dall'accusa in appello. La decisione della corte conclude infatti che "dal 1992 ad oggi, il fatto (il soccorso offerto da Dell'Utri a Cosa Nostra) non sussiste". Prima di affrontare ciò che la sentenza esclude, è un obbligo esaminare ciò che i giudici confermano.

Per farlo, è utile riproporre, liberato dal groviglio di gerundi, il capo di imputazione che la sentenza approva e punisce. Sono parole così chiare e aspre che saranno accantonate per prime dal dibattito pubblico e dai ministri del culto di Arcore.

Dunque, si legge nel capo di imputazione: Marcello dell'Utri ha "concorso nelle attività dell'associazione di tipo mafioso denominata "Cosa Nostra", nonché nel perseguimento degli scopi della stessa. Mette a disposizione dell'associazione l'influenza e il potere della sua posizione di esponente del mondo finanziario e imprenditoriale, nonché le relazioni intessute nel corso della sua attività. Partecipa in questo modo al mantenimento, al rafforzamento e all'espansione dell'associazione. Così ad esempio, partecipa personalmente a incontri con esponenti anche di vertice di Cosa Nostra, nel corso dei quali vengono discusse condotte funzionali agli interessi dell'organizzazione. Intrattiene rapporti continuativi con l'associazione per delinquere tramite numerosi esponenti di rilievo del sodalizio criminale, tra i quali Stefano Bontate, Girolamo Teresi, Ignazio Pullarà, Giovanbattista Pullarà, Vittorio Mangano, Gaetano Cinà, Giuseppe Di Napoli, Pietro Di Napoli, Raffaele Ganci, Salvatore Riina. Provvede a ricoverare latitanti appartenenti alla detta organizzazione. Pone a disposizione dei suddetti esponenti di Cosa Nostra le conoscenze acquisite presso il sistema economico italiano e siciliano. Rafforza la potenzialità criminale dell'organizzazione in quanto, tra l'altro, determina nei capi di Cosa Nostra la consapevolezza della responsabilità di Dell'Utri a porre in essere (in varie forme e modi, anche mediati) condotte volte a influenzare - a vantaggio dell'associazione - individui operanti nel mondo istituzionale, imprenditoriale e finanziario. Reato commesso in Palermo (luogo di costituzione e centro operativo di Cosa Nostra), Milano e altre località, da epoca imprecisata sino al 28.9.1992".

Di questo parliamo. Di un uomo che, a disposizione della mafia, è stato l'"intermediario" fra Cosa Nostra e il gruppo di Silvio Berlusconi. La ricostruzione che la corte approva e condivide è precisa. Marcello Dell'Utri media e risolve, di volta in volta, i conflitti nati tra le ambizioni di Cosa Nostra e la disponibilità di Berlusconi. Anzi, proprio il suo compito di "artefice delle soluzioni" gli permette di occupare un ruolo decisivo alla destra del Capo. Il ruolo di Dell'Utri va scorto e compreso nella relazione tra le pressioni scaricate dai mafiosi su Berlusconi e le mediazioni e gli incontri organizzati da Dell'Utri. Il patron di Fininvest, negli anni Settanta, è minacciato di sequestro (si tenta di rapire a mo' di dimostrazione un suo ospite). Gli piazzano una bomba in via Rovani nel 1975 e ancora nel 1986. Negli anni Novanta tocca alla Standa subire in Sicilia, a Catania, un rosario di attentati. Ora alla sequela di pressioni, minacce, intimidazioni, che la mafia scatena per condizionare il Cavaliere, entrare in contatto con lui, "spremerlo", bisogna sovrapporre il lavorio d'ambasciatore di Dell'Utri se si vuole valutarne il ruolo. Organizza l'incontro tra Berlusconi e i "mammasantissima" Stefano Bontate e Mimmo Teresi per "rassicurarlo" dal pericolo dei sequestri. Fa assumere Vittorio Mangano ad Arcore, come fattore, per cementare "un accordo di convivenza con Cosa Nostra". Cerca di capire che cosa accade e che cosa si nasconde dietro l'attentato a via Rovani. Incontra, nel 1990, i capimafia catanesi e, soprattutto, Nitto Santapola, della combriccola il più pericoloso, per risolvere i problemi degli attentati alla Standa (dopo quell'incontro, non ci saranno più bombe). Sono fatti che oggi, dopo la sentenza di Palermo, devono dirsi documentati (il giudizio della Cassazione è soltanto di legittimità). Il quadro probatorio avrebbe potuto essere più dettagliato e significativo se Silvio Berlusconi ("vittima di quelle minacce, di quelle intimidazioni, di quelle pressioni") non si fosse avvalso della facoltà di non rispondere rifiutando il suo contributo di verità per chiarire - per dire - l'assunzione e l'allontanamento di Vittorio Mangano da Arcore; i suoi rapporti con Dell'Utri; gli anomali movimenti di denaro nelle casse della holding del gruppo Fininvest in coincidenza con la volontà delle famiglie di Palermo di investire a Milano.

Questa narrazione ha superato ora il vaglio del giudizio di appello (definitivo per il merito dei fatti) e legittima una prima conclusione: la sentenza di Palermo non dice soltanto di Dell'Utri, racconta anche di Berlusconi perché conferma quella sorta di "assicurazione" con la mafia che il Cavaliere sottoscrive ingaggiando e promuovendo il suo ex-segretario personale e compagno di studi. Non c'è dubbio che, con questo risultato, Berlusconi paga in Italia e nel mondo un prezzo molto imbarazzante al suo passato. Un onere non giudiziario, ma un costo decisivo, politico e d'immagine. Perché se si assemblano le tessere raccolte in questi anni emerge con sempre maggiore nitidezza, e nonostante l'ostinatissima distruzione della macchina giudiziaria, quali sono il fondo, le leve, le pratiche e i comprimari del successo di Silvio Berlusconi, dove Dell'Utri è soltanto un tassello, una delle concatenazioni oscure della sua fortuna, la più disonorevole forse, ma non la sola. Il puzzle è questo. Il Cesare di Arcore ha corrotto un testimone (Mills) che lo salva da una condanna, anzi da due (prescritto). Ha comprato un giudice (Metta) e la sentenza che gli hanno portato in dote la Mondadori (prescritto). Ha finanziato illecitamente il Psi di Bettino Craxi che gli ha scritto i televisivi decreti leggi ad personam (prescritto). Ha falsificato per 1500 miliardi i bilanci della Fininvest (prescritto). Ha manipolato i bilanci sui diritti-tv tra il 1988 e il 1992 (prescritto). Già potrebbe bastare e invece, alla sua sinistra, agisce (ancora oggi) un avvocato (Previti) condannato per la corruzione dei giudici e, alla sua destra, (ancora oggi) c'è un uomo (Dell'Utri) a disposizione degli interessi mafiosi. Questo è il triste tableau che accompagna Silvio Berlusconi e il malcostume e gli illegalismi che lo circondano - da Scajola a Lunardi, da Bertolaso a Brancher - non ne sono che un ragionato riflesso.

I corifei possono anche strepitare e manipolare i fatti. La scena - tragica per il Paese - non può essere temperata o adulterata dalla riduzione della condanna di Dell'Utri di due anni né dalla conclusione della corte di Palermo di considerare l'insussistenza del concorso in associazione mafiosa "dal 1992 in poi". Bisognerà attendere le motivazioni per valutare questa decisione che colora di nero la silhouette del "Berlusconi imprenditore" liberando da ogni dubbio e responsabilità (sembra) il "Berlusconi politico". La contraddizione non può far felice il capo del governo. L'imprenditore passerà alla storia come il boss di una banda di criminali. Il politico dovrà guardarsi da un'incoerenza giudiziaria che stimolerà - più che deprimere - le inchieste sulla trattativa tra Stato e Mafia, avviata con le stragi del 1992 e accompagnata dalle bombe del 1993.

(30 giugno 2010)

Alla Camera il 29 luglio, Fini: "Irragionevole" Bersani: "Daremo battaglia contro arroganza"


Il disegno di legge sulle intercettazioni arriverà in aula alla Camera il prossimo 29 luglio, dopo l'esame della manovra economica. Lo ha deciso la conferenza dei capogruppo di Montecitorio, con il parere contrario delle opposizioni. E a quanto pare anche del presidente di Montecitorio: dopo la riunione, Gianfranco Fini avrebbe detto che calendarizzare a fine luglio di ddl "è irragionevole", visto che il voto finale è probabile che finisca comunque a settembre, considerato che alla Camera probabilmente ci saranno modifiche. Per la terza carica dello Stato mettere in calendario quel testo a fine luglio "è solo un puntiglio". La coalizione di governo ritiene invece che questa calendarizzazione permetta di approvare il testo prima della pausa estiva, e da Bossi arriva l'ok ad un'approvazione rapida. Intanto Antonio Di Pietro annuncia una mozione congiunta di tutte le opposizioni per chiedere di accantonare il ddl.

Approvazione entro l'estate, insorge l'opposizione. "Un ulteriore gesto di arroganza che sfida la coscienza civile di questo paese", dice il segretario del Pd, Pierluigi Bersani. "Saranno giornate molto calde nelle quali combatteremo con tutto l'impegno e nelle quali chiediamo gesti di coerenza a chi nella maggioranza ha sollevato fondate obiezioni a norme che vanno contro la legalità e le liberta". Anche secondo Massimo D'Alema "è sbagliato accelerare: le forzature in una materia come questa sono dannose". Dall'Udc Michele Vietti lancia un appello al Pdl: "Farne una questione di puntiglio significa far spegnere la voglia di dialogare anche in chi quella voglia ha sempre dimostrato di averla".

Di Pietro: "Mozione unitaria delle opposizioni". Lascia l'aula della Commissione giustizia, dove si è svolta l'audizione del procuratore antimafia Pietro Grasso, Antonio Di Pietro ha annunciato una mozione congiunta dei tre capigruppo dell'opposizione "per chiedere di accantonare il ddl intercettazioni e rivederlo integralmente". Secondo Di Pietro, infatti, "Grasso lo ha demolito completamente. Così com'è - tuona il leader Idv - questo ddl è criminogeno". L'Italia dei Valori, dice Di Pietro, è pronta al referendum.

Il Pdl respinge le accuse e attacca Fini. "Nessuna prova di forza ed è assolutamente improprio parlare di forzature", sostiene il capogruppo del Pdl Fabrizio Cicchitto. "Quel testo - aggiunge - è stato 14 mesi alla Camera, poi parecchi mesi al senato e ora torna in terza lettura e in commissione si stanno facendo pure le audizioni. Andare a chiuderne l'esame entro la prima settimana di agosto è nell'ordine delle cose".

E a proposito della presa di posizione di Fini arriva anche un durissimo attacco del vicepagruppo Osvaldo Napoli, secondo il quale il presidente della Camera con il suo atteggiamento "di lotta e di governo degrada il ruolo istituzionale che ricopre".

Bossi: "Ok all'approvazione entro l'estate". La Lega è d'accordo con chi vuole chiudere prima della pausa delle camere il ddl intercettazioni. Interpellato a Montecitorio, Umberto Bossi si limita a dire: "Per la lega va bene chiudere prima dell'estate".

Le proteste di Fnsi e Anm. Intanto la Fnsi, al di là dela manifestazione di domani a Roma conferma lo sciopero dell'informazione per il 9 luglio prossimo. Secondo il segretario Franco Siddi quella della maggioranza è un "atto di forza" contro la libertà di stampa. Il presidente dell'Anm Luca Palamara boccia senza appello il ddl sulle intercettazioni e, al termine dell'audizione in Commissione giustizia alla Camera, sottolinea che questo testo "è inemendabile" e che "mette in ginocchio l'attività investigativa e la lotta alla criminalità".

(30 giugno 2010)

Berlusconi teme l'affondo finale "Ora proveranno a colpire pure me"


"Assolvono Tartaglia, uno che ha provato ad ammazzarmi, e condannano Marcello solo per aver conosciuto 30 anni fa delle persone che poi si sarebbero scoperte vicine alla mafia. Questa è la magistratura giacobina che ci ritroviamo". Il premier si trova nella suite dell'hotel Tivoli di San Paolo quando dall'Italia gli giunge la notizia della condanna di Dell'Utri. I contatti con Roma sono limitati, filtrati dal portavoce Bonaiuti, ma qualcuno che assicura di averci parlato descrive un Berlusconi "molto preoccupato" per quella che ritiene essere "l'ennesima sentenza politica" di una magistratura ostile al governo. Non a caso, la sera prima, si era premurato di rispolverare - a beneficio del gotha degli imprenditori italiani in Brasile - quella definizione di "metastasi" per i pm "politicizzati". Un'uscita preventiva in vista della sentenza di ieri, da cui tuttavia il Cavaliere si tiene ben lontano: non vuole parlare di Dell'Utri, non intende farsi trascinare nella mischia. Così, al suo rientro in albergo dopo il pranzo con il presidente Lula, si tiene alla larga dai taccuini e si rifugia di corsa nella sua stanza protetto dalla scorta e dallo staff. "Avete già fatto troppi danni ieri", sibila ai giornalisti.

E tuttavia Berlusconi, a differenza di molti nel Pdl, non ritiene affatto sventata quella "manovra politica" che attribuisce alla magistratura per scardinare il governo. È convinto che il processo a Dell'Utri sia soltanto un pezzo del domino, ma sa che altre procure - Firenze , Palermo e Caltanissetta - hanno ancora in cottura inchieste potenzialmente devastanti per la sua immagine e per il futuro della maggioranza. La guardia resta alta, nella convinzione che "ci riproveranno". E torna quindi ad affacciarsi, nei ragionamenti di queste ore tra gli uomini che si occupano di giustizia per il premier, la vecchia idea di rimettere mano al reato di concorso esterno in associazione mafiosa. "Un reato che nel codice penale nemmeno esiste", spiegano, "inventato" dai magistrati e usato per "colpire" gli avversari politici. Lo strumento potrebbe essere una leggina ad hoc, per limitarne al massimo l'applicabilità e così sventare anche i nuovi possibili colpi delle procure.

Per ora, nel Pdl si gioisce per lo scampato pericolo, visto che la condanna per Dell'Utri avrebbe anche potuto riscrivere la storia della genesi di Forza Italia. "Diciamolo chiaramente - afferma Daniele Capezzone - dalla sentenza esce distrutta tutta la tesi di Ingroia che indicava in Marcello Dell'Utri il costruttore di un nuovo soggetto politico in accordo con la mafia". "Non a caso - aggiunge Fabrizio Cicchitto - il più deluso è il procuratore Gatto, visto che la Corte ha smontato l'idea di una sostanziale identità di interessi tra "l'entità" Forza Italia e i boss". Sono considerazioni positive, di chi si sforza di vedere il bicchiere mezzo pieno, ma rischiano di apparire consolatorie visto che una condanna c'è stata e pure molto pesante. Un amico personale di Dell'Utri - Amedeo Laboccetta -, dopo aver sentito tre volte al telefono "Marcello", confessa infatti il suo sconforto per "una sentenza cerchiobottista". "I magistrati - si sfoga - potevano chiudere la vicenda se solo avessero voluto e invece si sono comportati come Don Abbondio. D'altronde la pressione politica e quella mediatica era fortissima, tutti volevano una condanna. Almeno ora è chiaro che Berlusconi con la mafia non c'entra nulla: la manovra per far saltare il governo è fallita".

Non è questa però l'impressione del Cavaliere. Con i suoi uomini più in vista sotto inchiesta - da Verdini a Dell'Utri, da Brancher a Bertolaso - il premier resta convinto che i magistrati abbiamo messo nel mirino chi gli sta intorno per arrivare a lui. "La magistratura politicizzata - ha spiegato due sera fa agli italiani di San Paolo - è una spina nel fianco della nostra civiltà attuale. Ma io ho giurato che non mi farò da parte finché non l'avrò riformata". Quasi una "missione", a cui darà nuovo impulso al suo rientro a Roma dopo la lunga trasferta all'estero (prima il G8 in Canada, poi il Brasile e oggi Panama), pronto a rovesciare il tavolo se i finiani dovessero mettersi di traverso.

(30 giugno 2010)

Il principe Carlo d'Inghilterra condanna Galileo


PIERO BIANUCCI

Il principe Carlo d’Inghilterra (foto), 62 anni, eterno erede al trono della mamma, la regina Elisabetta, ha perso un’altra buona occasione per tacere. Intervenendo al Centro per gli Studi Islamici di Oxford (di Oxford!) sulla questione ecologica – tema che gli è particolarmente caro, insieme con la medicina omeopatica e la botanica sentimentale, quella che nutre le piante con parole d’amore sussurrate – il principe del Galles ha spiegato che il problema ambientale nasce “da una crisi interiore e profonda dell’anima” della quale è responsabile Galileo Galilei, portatore di un “pensiero meccanicistacolpevole di aver prodotto il materialismo e quindi il consumismo.

La frase eretica di Galileo individuata dal Principe questa volta non riguarda il moto della Terra su se stessa e intorno al Sole ma più in generale l’aver affermato che “non c’è nulla in natura se non quantità e movimento”.

Dunque Galileo al principe ereditario fa ancora paura. E con lui la scienza che Galileo rappresenta, cioè la Ragione, il metodo di ricerca fondato sull’osservazione e sull’esperimento ripetibile (da anglicani, cattolici e islamici). Ma l’Inghilterra non era la patria dell’empirismo? E poi di Darwin e di tanti scienziati che hanno reso possibile la modernità, allungato e migliorato la qualità della vita?

A dispetto di Carlo d’Inghiterra, quei materialisti degli astronomi insistono testardamente con le loro misure prive di anima. Su “Nature” del 17 giugno un folto gruppo di ricercatori ha presentato un risultato non di grande rilievo in sé ma straordinario per la finezza e difficoltà tecnica dell’osservazione compiuta. Il fenomeno in questione, avvenuto il 9 ottobre dell’anno scorso, è l’occultazione di una stella da parte del piccolo oggetto KBO 55636 appartenente alla Fascia di Kuiper, dove si aggirano, aldilà dell’orbita di Nettuno, migliaia se non milioni di corpi ghiacciati di piccole e medie dimensioni. Rilevando i tempi di occultazione con 21 telescopi di 18 diversi Osservatori tra loro distanti sulla Terra fino a 5920 chilometri, gli astronomi sono riusciti a stabilire che il raggio di questo minuscolo asteroide misura 143 chilometri, con un errore stimato di 5 chilometri in più o in meno. Impresa davvero eccezionale se si ricorda che KBO 55636 dista da noi circa diecimila volte più della Luna.

Per chiudere, una notizia da casa nostra. Da qualche giorno è online l’archivio dell’astronomia italiana. Se siete interessati alla storia della nostra scienza del cielo, segnatevi l’indirizzo indirizzo Internet www.archivistorici.inaf.it Troverete in questo sito una grande quantità di interessanti documenti su tre secoli di osservazioni astronomiche fatte in negli Osservatori italiani che furono già universitari e che ora fanno capo all’Inaf, l’Istituto nazionale di astrofisica. Gli archivi, oltre a molti libri, accolgono documenti, per la maggior parte manoscritti, che testimoniamo i rapporti degli astronomi con la comunità scientifica, il potere politico e la società civile del loro tempo. E’ il punto di arrivo di un lungo percorso. Fin dal 1980 gli Osservatori astronomici italiani si sono posti il problema del riordino, della classificazione e dell’adeguata conservazione dei propri archivi storici. Un interesse diffuso per la storia della scienza aveva infatti messo in rilievo, in quegli anni, la necessità di disporre di fonti fino ad allora semisconosciute ma potenzialmente di grande interesse: dati fotografici ieri considerati non rilevanti, oggi possono, per esempio, diventare preziosissimi alla luce di nuovi dati raccolti con gli strumenti nel frattempo diventati disponibili. Il primo Osservatorio a valorizzare il suo archivio fu, a partire dal 1983, quello di Brera a Milano, seguito da Torino, Bologna e Arcetri. Si sono poi aggiunti Padova, Cagliari, Capodimonte, Catania, Palermo, Roma, Trieste e Teramo.

I poteri forti come alibi


I Poteri Forti hanno smesso finalmente di interferire col basilico della Riviera? Il silenzio della Cia (non l’Intelligence: la Confederazione Italiana Agricoltori), che diede la tessera di socio onorario al governatore genovese «come apprezzamento per le iniziative assunte a difesa del pesto e del basilico liguri» contro l’Europa «suddita dei Poteri Forti», rassicura. Almeno su quel fronte, forse, non si avvistano complotti.

Per il resto, dicono gli archivi di questi mesi, siamo immersi negli intrighi.

Quando Roberto Calderoli accusa generici Poteri Forti («non sono così ben definiti da poterli nominare per nome e cognome…») di essere «impegnati in una manovra nella quale il Corriere della Sera sta ricoprendo una parte di spicco», non solo sopravvaluta forse quei poteri che spesso sono divisi e qualche volta impotenti. Ma arriva in coda a centinaia di denunce così allarmate e contrastanti da commentarsi da sole.

Sostiene ad esempio il verde Angelo Bonelli che no, mica è vero che questi complottaroli ce l’hanno con Berlusconi perché «vedono un governo che tocca i loro privilegi» (tesi del ministro bergamasco) ma anzi «è evidente che dietro il federalismo demaniale si nasconde la più grande speculazione immobiliare della storia» per «fare la fortuna dei Poteri Forti». E se Renato Brunetta si lagna che «questo governo con la riforma della scuola e della giustizia ha contro i Poteri Forti» Nicola Mancino sentenzia l’opposto: «I Poteri Forti sono tanti. E l'autonomia e l'indipendenza della magistratura sono indebolite dalle interferenze di questi poteri». Di qua Stefania Craxi vede nell’inchiesta di Trani «la prova della congiura della magistratura politicizzata» proprio «come nel 1992, con magistrati e Poteri Forti a menare le danze», di là Luigi De Magistris ribatte che «vogliono rendere i magistrati vassalli del grande feudatario Berlusconi e dei Poteri Forti che non tollerano il controllo della legalità ».

Antonio Di Pietro è indagato per la gestione dei rimborsi elettorali? Spiega che «l’Idv è da mesi target di un bombardamento politico e mediatico da parte dei Poteri Forti». Guido Bertolaso non si dimette? Paolo Ferrero si chiede se non sia «coperto dai veri Poteri Forti». L’Economist propone ironico di separare il Sud dall’Italia associandolo alla Grecia in uno Stato denominato «Bordello»? Raffaele Lombardo ribatte che il magazine è «espressione dei Poteri Forti della globalizzazione ». Finché il neofascista Roberto Fiore, cui non garba che Roma destini 13 milioni al museo della Shoah, strilla che perfino questo è «un omaggio ai Poteri Forti ».

Ma da che razza di parte stanno, questi Poteri Forti? Capiamoci: i Poteri Forti non sono invenzioni cervellotiche come i Savi di Sion dei fantomatici Protocolli. Certo che esistono centri di potere economico, finanziario, massonico, lobbista… Da noi come ovunque. E che cerchino di pesare negli affari del Paese lo diamo per scontato. Ma non è ridicolo pensare che Craxi e D’Alema, Prodi e Berlusconi, per citarne quattro che si sono lagnati, avessero ogni volta «tutti» i Poteri Forti contro, fossero a destra o fossero a sinistra? Ha scritto Ernesto Galli della Loggia che «poche cose come la polemica contro i "Poteri Forti" rivelano la pochezza intellettuale e insieme il primitivismo ideologico di chi se ne fa autore ». Esatto. Di più: rivelano l’incapacità della politica di fare, sul serio, politica.

Gian Antonio Stella

30 giugno 2010

Pisanu: «Dietro le stragi intreccio tra politica e apparati deviati»


«È ragionevole ipotizzare che nella stagione dei grandi delitti e delle stragi si sia verificata una convergenza di interessi tra Cosa Nostra, altre organizzazioni criminali, logge massoniche segrete, pezzi deviati delle istituzioni, mondo degli affari e della politica». È l'analisi sviluppata dal presidente della commissione parlamentare Antimafia Beppe Pisanu nella sua relazione su «I grandi delitti e le stragi di mafia '92-'93», illustrata mercoledì all'organismo di inchiesta che dirige.

DEMOCRAZIA IN PERICOLO - Alle spalle delle stragi - afferma Pisanu - si mosse «un groviglio tra mafia, politica, grandi affari, gruppi eversivi e pezzi deviati dello Stato. La spaventosa sequenza del '92-'93 ubbidì a una strategia di stampo mafioso e terroristico, ma produsse effetti divergenti». Da un lato ci fu il senso di «smarrimento politico-istituzionale che fece temere al presidente del Consiglio di allora l'imminenza di un colpo di Stato». Dall'altro determinò «un tale innalzamento delle misure repressive che indusse Cosa Nostra a rivedere le proprie scelte e prendere la strada dell'inabissamento. Nello spazio di questa divergenza si aggroviglia quell'intreccio che più volte abbiamo visto riemergere dalle viscere del Paese». Pisanu indica quindi l'orizzonte del dibattito in commissione: «Di fronte a eventi terribili si giustappongono senza mai fondersi tre verità, quella giudiziaria, quella politica e quella storica, che si basano su metodi di ricerca e su fonti diverse con la conseguenza di dare luogo a risultati parziali e insoddisfacenti. La verità politica interessa tutti noi per cercare di spiegare ai nostri elettori quale pericolo ha corso la democrazia in quel biennio e come si è riuscito a evitarlo».

DUE TRATTATIVE - Quindi ha ricostruito dettagliatamente i passaggi degli "omicidi eccellenti" e delle stragi a partire da quella mancata dell'Addaura, dicendo che ormai vi sono notizie «abbastanza chiare» su due trattative: «Quella tra Mori e Ciancimino, che forse fu la deviazione di un'audace attività investigativa, e quella tra Bellini-Gioè-Brusca-Riina, da cui nacque l'idea di aggredire il patrimonio artistico dello Stato». Citando Falcone, Pisanu ha sostenuto che «non esistono "terzi livelli" di alcun genere capaci di influenzare o addirittura determinare gli indirizzi di Cosa Nostra», e quindi «ipotizzare l'esistenza di centrali del crimine, burattinai e grandi vecchi che dall'alto dettano l'agenda o tirano le fila della mafia, significa peccare di rozzezza intellettuale». Ma dalla storia di quegli anni e dalle esperienze di personaggi politici e giudiziari di prim'ordine, se emerge «l'estraneità del governo alla trattativa» con la mafia, non si può escludere che «qualcosa del genere ci fu e Cosa Nostra la accompagnò con inaudite ostentazioni di forza». Sulla strage di via D'Amelio e sugli sviluppi successivi - ipotizza Pisanu - «la trattativa ebbe un impatto rilevante».

INTERVENTI ESTERNI - «Anche la semplice narrazione dei fatti induce a ritenere che vi furono interventi esterni alla mafia nella programmazione ed esecuzione delle stragi - si legge ancora nella relazione -. Fin dall'agosto del '93 un rapporto della Dia aveva intravisto e descritto un'aggregazione di tipo orizzontale, in cui rientravano, oltre alla mafia, talune logge massoniche di Palermo e Trapani, gruppi eversivi di destra, funzionari infedeli dello Stato e amministratori corrotti. Sulla stessa linea, pur restringendo il campo, il procuratore di Caltanissetta Lari ha sostenuto recentemente che Cosa Nostra non è stata eterodiretta da entità altre, ma che al tavolo delle decisioni si siano trovati, accanto ai mafiosi, soggetti deviati dell'apparato istituzionale che hanno tradito lo Stato con lo scopo di destabilizzare il Paese mettendo a disposizione un know-how strategico e militare». A luglio lo stesso procuratore - spiega Pisanu - aveva anticipato che, dopo le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza, «le investigazioni hanno lasciato la pista puramente mafiosa e puntano a scoprire un patto fra i boss di Cosa Nostra e servizi segreti». «Probabilmente - conclude l'ex ministro dell'Interno - Provenzano fu insieme a Ciancimino tra i protagonisti di trattative del genere, mentre Riina ne fu, almeno in parte, la posta. Trattative complesse e a tutt'oggi oscure, nelle quali entrarono a vario titolo, per convergenza di interessi, soggetti diversi, ma tutti dotati di un concreto potere contrattuale da mettere sul piatto. Altrimenti Cosa Nostra li avrebbe rifiutati».

MAFIA E POLITICA - Pisanu ha osservato che l'elemento probabilmente sottostante al confronto mafia-Stato era l'abolizione dell'articolo 41 bis (carcere duro) e il «ridimensionamento di tutte le attività di prevenzione e repressione». A riscontro cita una «singolare corrispondenza di date che si verifica, a partire dal maggio del '93, tra le stragi sul territorio continentale e la scadenza di tre blocchi di 41 bis emessi nell'anno precedente». «Cosa Nostra - prosegue - ha forse rinunciato all'idea di confrontarsi da pari a pari con lo Stato, ma non ha certo rinunciato alla politica. Bloccato il braccio militare, ha certamente curato le sue relazioni, i suoi affari, il suo potere. Ma dagli anni '90 a oggi ha perduto quasi tutti i suoi maggiori esponenti, mentre in Sicilia è cresciuta grandemente un'opposizione sociale alla mafia che ha i suoi eroi e i suoi obiettivi civili e procede decisamente accanto alla magistratura e alle forze dell'ordine».

«NARRACCI FORSE INDAGATO» - In particolare nel capitolo dedicato alla strage di via D'Amelio, Pisanu scrive che «le prime indagini avrebbero subito rilevanti forzature anche ad opera di funzionari della polizia legati ai servizi segreti. Ora è legittimo chiedersi se tali forzature nacquero dall'ansia degli investigatori di dare una risposta appagante all'opinione pubblica sconvolta o se invece nacquero da un deliberato proposito di depistaggio. Sulla scena, comunque, riappaiono le ombre dei servizi segreti. Prima fra tutte, quella del dottor Lorenzo Narracci a quanto pare indagato a Caltanissetta». Sempre riferendosi all'ex funzionario del Sisde e collaboratore di Bruno Contrada e tuttora in servizio all'Aisi (Agenzia informazioni e sicurezza interna), Pisanu scrive ancora: «Spatuzza lo ha vagamente riconosciuto in fotografia come persona esterna a Cosa Nostra; mentre Massimo Ciancimino, testimone piuttosto discusso, lo ha indicato come accompagnatore del misterioso signor Franco o Carlo», che secondo il figlio dell'ex sindaco di Palermo avrebbe seguito il padre nel corso della «trattativa». La Procura di Caltanissetta non commenta la notizia dell'iscrizione di Narracci nel registro degli indagati, ma fonti giudiziarie citate dall'agenzia Ansa la confermano. L'indiscrezione era stata anticipata il 27 maggio da alcuni organi di stampa che tuttavia non avevano fatto il nome di Narracci.

GRASSO: SERVONO PROVE - «Le teorie sono belle ma nei processi abbiamo bisogno delle prove giudiziarie. Le prove costruite su tante fonti non hanno mai consentito di costruire la prova penale individualizzante in grado di accertare responsabilità». Così il procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso ha risposto ai cronisti che gli chiedevano un commento sulla relazione di Pisanu, al termine della sua audizione sul ddl intercettazioni alla commissione Giustizia della Camera. L'ex ministro ha replicato di aver «chiarito, fin dalle prime battute della mia relazione, che di fronte a vicende drammatiche e complesse come quelle dei grandi delitti e delle stragi di mafia del 1992-'93, ci sono tre verità diverse, difficili da contemperare: quella giudiziaria, quella politica e quella storica. Come è facile capire, la mia relazione è soltanto politica e non ha la benché minima pretesa di stabilire verità giudiziarie».

Redazione online

30 giugno 2010

Brancher: mandatelo a casa

PERQUISIZIONI INCAUTE

LE CREDENZIALI GIUSTE

VATICANO, È CODICE ROSSO DOPO LA DECISIONE AMERICANA


Di fronte a un crollo inedito e inaudito di credibilità, il Papa blocca il dibattito anche sulle responsabilità passate

di Marco Politi

Sull’orlo del vulcano la Santa Sede sceglie la tattica dello “stare a vedere” dopo il pronunciamento della Corte Suprema Usa e si prepara al catenaccio. In Vaticano si spera che non si arriverà ad una citazione dinanzi ad un tribunale americano del cardinale Segretario di Stato Bertone, del decano del collegio cardinalizio Sodano se non dello stesso Benedetto XVI. La decisione della Corte Suprema di “non decidere” sull’immunità della Santa Sede nei processi di pedofilia (come richiesto dalla stessa amministrazione Obama) apre però la strada ad una situazione molto pericolosa per il Vaticano. Il giudice dell’Oregon può ora andare avanti nell’accertare le specifiche responsabilità degli organi centrali vaticani per quanto riguarda i trasferimenti omertosi del prete-predatore Andrew Ronan (morto nel 1992), spostato via via dalle autorità ecclesiastiche dall’Irlanda a Chicago e infine a Portland, dove continuò ad abusare. Jeff Anderson, l’avvocato principe dei processi per pedofilia negli Usa, preannuncia una richiesta di audizione di Bertone e Sodano. Oltretevere tenteranno a quel punto di chiedere nuovamente l’immunità, augurandosi che la Corte Suprema decida di riconoscere la non processabilità di esponenti di un governo straniero. Ma ciò che sfugge ai prelati vaticani nel giorno di festa del 29 giugno, in cui si esalta l’autorità suprema del papato, è che in Occidente è in corso un gigantesco smottamento di immagine e di prestigio della Chiesa cattolica, non più vista e riverita come potere sovranazionale superiore alle leggi statali.

Gli eventi di questi giorni sono il segno di un passaggio d’epoca. Per sedici secoli, dai tempi dell’Impero romano sotto Costantino, Teodosio II e Giustiniano, la Chiesa si è costruita passo dopo passo un’immunità strutturata a sistema, per cui clero e vescovi mai sottostavano alla giustizia civile. Per cui clero e vescovi erano quasi sempre intoccabili. Per cui la gerarchia ecclesiastica non doveva “rendere conto” a nessuno dei suoi affari interni. I processi negli Stati Uniti degli anni scorsi e le condanne di risarcimento milionario inflitte alle diocesi per i casi di occultamento della pedofilia hanno fatto breccia in questo sistema, le commissioni d’inchiesta statali come in Irlanda lo hanno scosso, la valanga di eventi accaduti nelle ultime ore lo sta frantumando. La Corte Suprema americana non ha ritenuto di concedere automaticamente l’immunità, la giustizia belga (seppure con un’azione spettacolare probabilmente inutile, perché i vescovi belgi avrebbero consegnato egualmente i loro computer e risposto ad interrogatori anche senza il sequestro di nove ore dell’intera conferenza episcopale) ha messo alla gogna la leadership ecclesiastica di una nazione, infine il comunicato vaticano su Propaganda Fide – nel riconoscere gli “errori” della congregazione – sono la testimonianza che il vento è cambiato.

Di colpo la Chiesa cattolica è trascinata dal suo empireo, dal suo essere un “potere al di sopra dei poteri terreni”, ed è obbligata a misurarsi con l’opinione pubblica, con le richieste di rendiconto dei mass media, con le citazioni dinanzi alle magistrature statali. Le prime risposte di papa Ratzinger non sembrano essere all’altezza della nuova sfida. Il coro dei cortigiani, ecclesiastici e non, è già partito esaltando la sua svolta riformatrice, ma la situazione è più complessa. Benedetto XVI sulla piaga di pedofilia ha avuto un grande sussulto morale, improntato a rigore, facendo mea culpa nella Lettera agli Irlandesi, ponendo al centro la sorte delle vittime, esortando alla consegna dei preti colpevoli alla giustizia civile. Ma ora che l’aggravarsi della crisi richiede una risposta di “politica ecclesiastica” il Papa appare esitante. L’operazione-pulizia in Italia – terra che sottosta direttamente alle direttive papali – non è nemmeno partita. La Cei non fornisce risposte sui cento casi di preti abusatori già acclarati e non apre un’inchiesta nazionale per scoprire le vittime non ascoltate.

Di più: lunedì Benedetto XVI ha tappato la bocca al cardinale Schoenborn, che aveva sollevato la questione delle responsabilità del cardinal Sodano, Segretario di Stato durante il pontificato di Giovanni Paolo II, nel bloccare un’indagine del Sant’Uffizio – allora diretto da Ratzinger – sul cardinale pedofilo austriaco Groer e sul fondatore pedofilo e concubino dei Legionari di Cristo, Marciel Macial. In un comunicato vaticano fuori dall’ordinario Schoenborn è stato costretto a scusarsi per le “interpretazioni date alle sue espressioni”. Con durezza è stato dichiarato che “nella Chiesa, quando si tratta di accuse contro un cardinale, la competenza spetta unicamente al Papa”. Gli altri possono solo fare opera di “consulenza”. E’ un bavaglio al dibattito tra i massimi esponenti della Chiesa proprio nell’ora in cui ce ne sarebbe maggiormente bisogno. Perché Schoenborn non ha sbagliato. Le inchieste su Groer e Macial furono davvero bloccate. Il Fatto è in possesso di una lettera privata di Groer del 1998 in cui il cardinale ammette che la dichiarazione pubblica – con cui non fornì spiegazioni prima di dimettersi – gli fu “sottoposta” alla firma con l’impegno di un “santo silenzio, di un segreto (da osservare)”. E solo dal Vaticano poteva venire l’imposizione al porporato pedofilo di un testo da sottoscrivere sotto obbligo di silenzio. Il bavaglio a Schoenborn vuole bloccare le rivelazioni sugli anni ‘80 e ‘90. La missione del Papa, ha dichiarato ieri Benedetto XVI in San Pietro, è “garanzia di libertà per la Chiesa” nei confronti dei “poteri locali, nazionali o sovranazionali” e di salvaguardia della tradizione cattolica da “errori concernenti la fede e la morale”. Una rocciosa esaltazione del primato papale. E tuttavia, questa sarebbe l’ora di un consulto di Benedetto XVI con il collegio cardinalizio invece dell’isolamento nella riaffermazione del potere supremo. Senza l’apertura di un dibattito trasparente e collettivo sugli errori del passato e le scelte del futuro, la crisi della Chiesa è destinata ad aggravarsi.

IL GIORNO DEL FEDERALISMO


Dopo oltre un anno il governo oggi presenta i conti Tremonti potrebbe usarli per fare subito altri tagli

di Stefano Feltri

Destini incrociati: l’approvazione della manovra finanziaria (per ora da 24 miliardi) e l’introduzione del federalismo fiscale si intrecciano in un modo imprevisto. E comincia a circolare il sospetto che, alla fine, parte dei tagli necessari per risanare il bilancio verranno affidati al federalismo, che i leghisti non possono non votare con entusiasmo.

“C’è spazio per delle modifiche alla manovra”, ha detto ieri sera il leader leghista Umberto Bossi prima di incontrare il ministro dell’Economia Giulio Tremonti. La manovra, di fatto, sta già cambiando: i 2500 emendamenti depositati non produrranno grandi effetti, quello che conta sono le 11 proposte di modifica avanzate ieri sera dal relatore di maggioranza in Commissione bilancio, Antonio Azzollini (Pdl) che riassumono la volontà politica del governo, e quindi quasi certamente saranno recepiti dal maxi-emendamento in aula sul quale ci sarà la fiducia (e quindi il Parlamento non potrà modificare nulla). La seduta si è svolta nella notte, ma gli interventi annunciati in serata riguardavano la cancellazione dell’aumento della soglia che dà diritto alla pensione di invalidità (resterà il 75 per cento) e l’aumento dell’età pensionabile per le donne nel pubblico impiego, la soglia per la pensione di vecchiaia salirà a 65 anni, analoga a quella degli uomini. “Quest’ultimo intervento valeva poco, circa 40 milioni di euro, rivedere i tagli alla scuola è più delicato perché più costoso”, spiega Paolo Giaretta, senatore del Pd che è relatore di minoranza della manovra.

IL SALDO. Tutto dentro la Finanziaria sembra ancora oggetto di contrattazione, incluso l’unico elemento finora intoccabile: il saldo finale da 24 miliardi. Ci si è messo prima lo stesso ministero del Tesoro a confermare le previsioni di Bankitalia, ammettendo che la correzione del bilancio avrà un effetto negativo sulla crescita: mancheranno all’appello 8 miliardi di Pil tra il 2010 e il 2012. Poi l’impegno (solo politico e non vincolante) del G20 canadese, dove i leader mondiali si sono impegnati a dimezzare i deficit di bilancio entro il 2013. E visto che le stime di crescita del governo sulla base delle quali sono calcolati gli obiettivi della manovra sono ancora molto ottimistiche, è quasi certo che serviranno almeno altri 8 miliardi subito e forse un’altra quindicina nei prossimi due anni. Oppure l’Italia non riuscirà a portare il rapporto tra deficit e Pil al 2,7 nel 2012, finendo quindi nel mirino dei mercati finanziari che, come dimostrano i crolli di tutte le Borse ieri, non sono affatto tranquilli.

CASSE FEDERALI. Quindi c’è poco da negoziare: i tagli servono. E anche il federalismo fiscale può tornare utile per queste ragioni. Oggi Tremonti presenterà al Consiglio dei ministri la relazione sul federalismo fiscale, che dovrebbe rappresentare il primo vero passo avanti dopo un anno di stallo (la legge delega numero 42 è del maggio 2009): quanto costa, come funziona, cosa cambierà. Nelle anticipazione che il Tesoro ha fatto circolare nei giorni scorsi veniva enfatizzato che il federalismo farà risparmiare almeno 10 miliardi di euro. Resta un mistero il come. “Non credo che il governo possa permettersi politicamente di chiedere altri tagli, ma dubito anche che i risparmi di spesa ci siano subito. Sono possibili solo quando il federalismo andrà a regime”, dice il senatore Giaretta del Pd. Eppure è sempre più chiaro come Tremonti stia provando ad usare il federalismo come supplemento alla manovra: l’introduzione del criterio dei costi standard al posto della spesa storica (lo Stato decide i trasferimenti in base ai servizi che gli enti locali erogano, non in base a quanto hanno speso in passato per erogarli) permetterà fin da subito di distinguere i buoni dai cattivi. Al momento, i tagli “orizzontali” della manovra colpiscono senza distinguere tra Regioni virtuose e quelle con il bilancio fuori controllo. La Lombardia, per esempio, ha ridotto dell’11,4 per cento la spesa tra il 2006 e il 2008 eppure adesso viene chiamata a un sacrificio di altri 1,4 miliardi (e per questo il suo governatore Roberto Formigoni è tra i più battaglieri). Così come il Veneto che, nonostante le economie di spesa, deve rinunciare a 640 milioni: un taglio che, come ha ribadito il governatore Luca Zaia, metterebbe in ginocchio la Regione. Nello stesso periodo la spesa del Lazio aumentava del 56 per cento, quella del Molise del 66.

Per fortuna c’è il federalismo: chiarire chi sono i più virtuosi permetterà a Tremonti di modulare gli interventi, di trovare il modo di premiare – o almeno compensare in parte – le Regioni più virtuose (che sono anche di centrodestra) e scaricare – almeno sulla carta – il peso del risanamento sugli altri. E già questa notte se ne sarebbe parlato in Commissione bilancio: l’idea è appunto di confermare il saldo finale dei tagli alle Regioni, ma negoziare sui tempi, premiando chi è più in regola spalmando il dimagrimento su più tempo.

SOLDI VERI. Gli enti locali, in attesa di capire come finirà hanno messo le mani avanti. Per ora tutti smentiscono di voler usare il federalismo demaniale (l’unica parte della legge delega che si è concretizzata) per vendere spiagge o montagne che sono state trasferite dallo Stato alle Regioni. Però lasciano capire di poterlo fare, in casi estremi. “Decideremo il destino dei beni demaniali assieme agli enti locali. La via da seguire è quella della valorizzazione, non della vendita ai privati”, ha detto ieri il governatore Ugo Cappellacci. E altri soldi possono arrivare dalla service tax che, inserita nel federalismo, consentirebbe ai Comuni di aumentare le imposte. La cosa meno chiara, in tutto questo, è il ruolo del nuovo ministro al Federalismo Aldo Brancher. “È un affare chiuso, però è stato fatto un grosso errore nell’affidargli le deleghe del federalismo”, ha detto Bossi ieri.

Modello L’Aquila per 11 nuovi penitenziari milioni di euro nelle mani di Bertolaso


PIANO CARCERI, PROCEDURA STRAORDINARIA PER LA GARA

di Chiara Paolin

Come battesimo, un’intercettazione che ha già fatto storia. Fabio De Santis, provveditore alle Opere pubbliche in Toscana e soggetto attuatore del G8 alla Maddalena: “Gira la voce che sarà affidata alla Protezione civile la gestione del piano edilizio per la costruzione di nuove carceri ... senti, reggiamo duro... , cioè ... questa voce gira ... hai capito ? Lì ci vuole una ribellione feroce”. Maria Pia Pallavicini, dirigente al ministero delle Infrastrutture, risponde: “Assolutamente.. ma dove l’hai sentita ’sta cosa? Certo però, sai, bisogna essere spalleggiati dal ministro ..., da soggetti che caldeggiano questo. Perché io posso fare tutto quello che è in mio potere, ma è molto limitato”.

Correva l’ottobre 2009, la cricca Balducci lavorava alla grande mentre la concorrenza interna (leggi De Santis) cercava un modo per addentare l’osso del Piano carceri. Anzi, la polpa: undici nuovi penitenziari e venti padiglioni da costruire in gran fretta. “Seguiremo il modello de L’Aquila” disse subito Guido Bertolaso, che tramite apposita ordinanza (3861/10) lo scorso marzo ha organizzato al meglio la pratica individuando la figura di un Commissario delegato sotto il cappello di un Comitato di sorveglianza di cui fanno parte, oltre al ministro della giustizia Angelino Alfano, lo stesso Bertolaso e Altero Matteoli, responsabile delle Infrastrutture. Certo i due sono entrambi indagati per gli appalti gestiti dalla Protezione civile, ma saranno proprio loro a dover garantire il corretto andamento delle gare, da tenersi con procedura straordinaria e riservata.

Recita infatti l’ordinanza: “Il Commissario delegato può avvalersi del Dipartimento della Protezione civile per la progettazione, la scelta del contraente, la direzione dei lavori e la vigilanza degli interventi”. Il Commissario prescelto è Franco Ionta, capo del Dipartimento Penitenziario: a sua disposizione ci sono 611 milioni di euro. Lui veramente aveva presentato un conto ben più salato per mettere finalmente in ordine uno dei settori più malandati della pubblica amministrazione: 1,6 miliardi. Ma s’è dovuto accontentare.

Una vera prova del fuoco in un contesto a dir poco esplosivo. Per i 68mila detenuti oggi in Italia ci sono a disposizione solo 44mila posti, e le nuove strutture ne garantiranno altri 9mila: già così i conti non tornano. Ieri il principale sindacato di polizia penitenziaria, il Sappe, ha reagito all’annuncio della fase ormai operativa del piano denunciando lo stato di illegalità in cui versano ormai tutte le Regioni italiane: “I detenuti presenti sono esattamente 68.026, il record nella storia del Paese – sottolinea Donato Capece, segretario generale – e vogliamo essere ricevuti dal ministro Alfano per capire esattamente cosa stia succedendo”.

Eugenio Sarno, rappresentante Uil, snocciola invece tutti i dati dell’emergenza: “Dalle piante organiche mancano 5mila poliziotti, 58 dirigenti, 609 educatori, 530 assistenti sociali, 337 contabili, 109 collaboratori e 328 tecnici. Addirittura abbiamo 45 istituti penitenziari (sul totale di 230) senza un direttore titolare. Sentiamo vaghe promesse di inserire 2mila nuovi addetti, ma mentre ci si avvia a costruire cattedrali nel deserto non c’è nemmeno un euro sicuro a disposizione degli operatori. Com’è possibile?”.

Aggiunge il segretario del sindacato agenti di custodia Osapp, Leo Beneduci: “Per la media mensile di 600-700 nuovi ingressi in carcere, nel 2011/2012 di detenuti ce ne dovrebbero essere almeno 12mila in più. Per far funzionare 20 nuovi padiglioni detentivi occorrono almeno 800 agenti, più altri 2.200 per la funzionalità iniziale di undici istituti. Quindi almeno 3mila agenti che non ci sono e non ci saranno”.

Dove sta il trucco? Semplice. I nuovi padiglioni seguiranno lo schema cosiddetto ‘a croce’. Secondo l’architetto Cesare Burdese, che da oltre trent’anni si occupa di edilizia penitenziaria, si tratta “di uno schema ottocentesco, come denuncia lo stesso Piano carceri. Si tratta della tipica soluzione utilizzata quando mancano le risorse umane: le celle si affacciano su un unico corridoio, sottoposte a un controllo visivo centralizzato che permette, con pochi agenti al centro, di sorvegliare i detenuti”. Ai quali comunque non resterà molto da fare se non restare buoni in cella visto che parte dei 611 milioni verranno sottratti alla Cassa Ammende, cioè al fondo per le attività di formazione e recupero dei carcerati. Per loro, per i 57 che hanno tentato di suicidarsi quest’anno, per i 32 che ci sono riusciti (ieri un ragazzo di 37 anni a Giarre, vicino Catania), per i 23 agenti che hanno fatto la stessa scelta negli ultimi tre anni (con un’incidenza del 180 per cento in più rispetto agli altri corpi di polizia), il Piano carceri non ha altro da aggiungere.

“Non è Andreotti, condanna confermata”


di Sandra Amurri

La seconda sezione penale della Corte d’Appello di Palermo presieduta da Claudio Dall’Acqua ha confermato la sentenza di condanna di primo grado ma ha assolto Dell’Utri dal reato di concorso esterno in associazione mafiosa per le condotte contestategli commesse in epoca successiva al 1992, perché il fatto non sussiste. La pena è stata ridotta da 9 a 7 anni.

Dottor Ingroia lei che in primo grado ha sostenuto la pubblica accusa assieme al Pm Gozzo come valuta questa sentenza?

Intanto occorre sottrarsi al gioco di interpretare il pensiero della Corte e attendere la motivazione per capire la ragione per cui i giudici hanno ritenuto che dal 1992 Dell’Utri abbia troncato i rapporti con Cosa Nostra. Voglio dire mentre nel processo Andreotti esisteva un evento, l’omicidio Mattarella, che i giudici hanno interpretato come troncante, in questo caso non esiste alcun episodio, dunque, a maggior ragione occorre attendere la motivazione per capire quale tipo di ragionamento è stato fatto. Ma al di là di questo esprimo soddisfazione in quanto la condanna è stata confermata. La riduzione della pena è un dato fisiologico in appello.

Soddisfatte sia accusa che difesa. Strano no?

Infatti mi resta molto difficile comprendere come ci si possa sentire soddisfatti per una condanna a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa.

Allora, è esatto dire: condanna confermata, pena ridotta.

Sì. A Dell’Utri veniva contestato di essere stato riferimento costante per Cosa Nostra fino al 1996. L’Appello ha confermato che lo è stato fino al 1992. Sono stati assolti, dunque, quattro anni. Resta che è stato riferimento costante della mafia fino al 1992. Considerato che la Corte non si è dimostrata favorevole all’accusa, voglio dire nel senso che non era certamente appiattita sulla tesi del Pubblico Ministero visto che ha rigettato la vicenda Palazzolo, che ha tenuto fuori le indagini di Reggio Calabria, Ciancimino ecc…considero la sentenza di condanna doppiamente soddisfacente per me come per tutta la Procura di Palermo, ovviamente. Una sentenza che conferma nella sostanza quella di primo grado mentre è stata diminuita la pena detentiva.

Mentre è stato assolto per le stragi del ‘93 e per la presunta trattativa tra Stato e Cosa Nostra.

Deve essere chiaro che Dell’Utri non è mai stato imputato né per le stragi del ’93 né per la trattativa di cui come è noto le circostanze più significative vengono riferite da Ciancimino che la Corte ha ritenuto di non sentire.

Quindi non è giusto dire che la Corte abbia ritenuto Spatuzza non attendibile?

Non credo anche perché come è noto la Corte aveva deciso di non acquisire i riscontri alle dichiarazioni di Spatuzza mentre aveva acquisito solo le dichiarazioni dei fratelli Graviano che come è ovvio da mafiosi non potevano certamente confermare quelle di un collaboratore di giustizia qual è Spatuzza.

L’assunzione del boss Vittorio Mangano - un eroe per dell’Utri - come stalliere ad Arcore sancita durante una riunione nella sede della Edilnord tra lo stesso Dell’Utri, Berlusconi i boss Bontade e Teresi è rimasto un caposaldo della condanna in appello. Questo vuol dire che il collaboratore Francesco Di Carlo, che ha raccontato di essere stato presente all’incontro, è stato ritenuto credibile?

Esattamente. Così come è stato confermato che Mangano non è un eroe.

Visto che i fatti per i quali Dell’Utri è stato condannato risalgano al 1992, secondo lei esiste il pericolo prescrizione?

Credo proprio di no. Il reato si prescrive dopo 22 anni da quando è stato commesso dunque dovremmo arrivare al 2014 e mi sembra impensabile che non si abbia una sentenza definitiva prima di quella data. Sempre che con una legge ad personam non accorcino la prescrizione per i reati di mafia.

BONTADE, TERESI, CINÀ LE CATTIVE COMPAGNIE DI UN COMPLICE “A TEMPO”


Fino al 1992 Dell’Utri intrattenne rapporti con altri “eroi”, componenti di Cosa Nostra

di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza

C’è la storia dello stalliere mafioso palermitano, “eroico” per omertà, sbarcato ad Arcore a metà degli anni ‘70, simbolo vivente della protezione accordata a Berlusconi da Cosa Nostra. In quegli anni la mafia progettava sequestri nel giardino di Arcore (il barone D’Angerio, lo stesso Berlusconi, e quello di uno dei figli del futuro premier) per indurre il facoltoso imprenditore a “coprirsi” con un’“autorevole” tutela. E c’è la storia delle “antenne”, con gli assegni di 200 milioni annotati nel libro mastro della cosca di San Lorenzo in coincidenza con l’avvio dell’avventura televisiva, in quegli anni di etere selvaggio, in cambio sempre di tranquilla protezione. Ci sono gli attentati alla Standa di Catania e le estorsioni trapanesi all’imprenditore Vincenzo Garraffa, attraverso il mafioso Vincenzo Virga. Altro che “interventi per motivi umanitari”, o reato di amicizia. L’uomo che si è pentito di aver fondato Forza Italia e che ha ammesso di essere entrato in politica per salvarsi dal processo, non ce l’ha fatta: il giovane patron della Bacigalupo, cacciatore di talenti calcistici e poi di pubblicità, il raffinato bibliofilo che prendeva il caffè con boss del calibro di Vittorio Mangano e Gaetano Cinà, che conversava cordialmente con Mimmo Teresi e Stefano Bontade, che lavorava con Filippo Alberto Rapisarda, che pranzava con Antonino Calderone, che presenziava alle nozze di Jimmy Fauci, che sponsorizzava i provini al Milan del figlio di un favoreggiatore di mafiosi di Palermo, non è la vittima di sfortunati episodi occasionali, come hanno tentato di sostenere i suoi difensori, ma il consapevole fiancheggiatore di Cosa Nostra che negli anni, con un permanente contributo, ha concorso a rafforzare l’organizzazione criminale, condividendone gli obiettivi e le violente modalità di sopraffazione. Questo è, per i giudici d’appello, Marcello Dell’Utri. È il factotum di Berlusconi che ha curato la “messa a posto” con la mafia, attraverso il versamento di denaro, ottenendo la protezione per le antenne in Sicilia, e lo ha fatto – non dalla posizione di vittima, come sostengono i legali – ma perché complice dei boss. È il consigliori siciliano che, seduto allo stesso tavolo del ricevimento nuziale di Fauci, si è “messo a disposizione” di Franco Di Carlo, latitante di Altofonte, su suggerimento di Mimmo Teresi, fornendogli il suo numero di telefono per le sue esigenze a Milano. È il premuroso manager che ha spedito il boss Virga dal presidente della Pallacanestro Trapani, per “convincerlo” a pagare una tangente in nero a Publitalia, concordata in precedenza. Lo ha fatto seguendo metodi e criteri mafiosi, e anche per difendere gli interessi del suo capo.

Questo fino al ‘92. Poi il buio. Nel verdetto d’appello di Palermo, la foto dell’amico dei mafiosi si dissolve nell’anno delle stragi siciliane e scompare il suo ruolo politico. Come Andreotti è stato riconosciuto interlocutore dei boss fino all’82, la sentenza Dell’Utri restituisce l’istantanea di un fiancheggiatore “a tempo”, che scompare dal palcoscenico stragista nell’anno del ribaltone politico, sganciando il suo ruolo ingombrante dall’avventura del partito-azienda, del quale egli è uno dei fondatori. La corte d’appello di Palermo dimentica del tutto l’esito dell’inchiesta dei pm di Firenze che, indagando su “Autore 1” e “Autore 2”, alias Berlusconi e Dell’Utri (sospettati e poi pro-sciolti dall’accusa di essere i mandanti occulti delle stragi), avevano raggiunto una certezza: e cioè quella che “la natura e la durata del rapporto” tra il leader di Forza Italia, il suo braccio destro e i capimafia, nel periodo delle bombe, “non ha mai cessato di dimensionarsi, almeno in parte, sulle esigenze di Cosa Nostra”. Su questo, almeno, alla fine l’ha spuntata Dell’Utri: sono “minchiate” le accuse rilanciate da Gaspare Spatuzza, che il senatore liquida come “Spatuzza-tura”, e da Massimo Ciancimino, da lui definito “cretino, pazzo e mitomane”.

Ora la sentenza “bifronte” della Corte d’Appello apre due scenari diversi. L’assoluzione parziale di Dell’Utri, che dal ‘92 in poi per i giudici non ha più colpevoli frequentazioni mafiose, sembra allinearsi con la decisione del Viminale di negare la protezione a Spatuzza e incombe sul prosieguo delle indagini. Il verdetto che oggi ci consegna il volto ambiguo di un senatore-fiancheggiatore mafioso “a tempo”, è un punto interrogativo per i magistrati inquirenti che a Palermo, Caltanissetta e Firenze stanno cercando di ricostruire un pezzo di storia del Paese. Ma contestualmente la condanna parziale dello stesso Dell’Utri, per il periodo precedente, pesa sulla vicenda politica italiana, chiamata a gestire il fardello ingombrante dell’uomo simbolo dell’origine di Forza Italia, ora seduto a Palazzo Madama con una doppia patente di filo-mafiosità.

La palla giudiziaria passa alla Cassazione. Nell’attesa, Dell’Utri non trova di meglio che ribadire per l’ennesima volta come Mangano sia “un eroe”, per il suo ostinato silenzio alle domande dei pm sui rapporti con Berlusconi. E si vanta di aver suggerito in prima persona al premier di avvalersi della facoltà di non rispondere, in primo grado. Ora, però, il concetto di eroismo aziendale, fondato sull’omertà e sulle coperture reciproche, rischia di trasferirsi dallo stalliere allo stesso Dell’Utri. “Silvio non capisce che deve ringraziarmi – confidò il fondatore di Forza Italia a Ezio Cartotto, nel marzo del ’94 – se dovessi aprire bocca io...”.