Fino al 1992 Dell’Utri intrattenne rapporti con altri “eroi”, componenti di Cosa Nostra
di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza
C’è la storia dello stalliere mafioso palermitano, “eroico” per omertà, sbarcato ad Arcore a metà degli anni ‘70, simbolo vivente della protezione accordata a Berlusconi da Cosa Nostra. In quegli anni la mafia progettava sequestri nel giardino di Arcore (il barone D’Angerio, lo stesso Berlusconi, e quello di uno dei figli del futuro premier) per indurre il facoltoso imprenditore a “coprirsi” con un’“autorevole” tutela. E c’è la storia delle “antenne”, con gli assegni di 200 milioni annotati nel libro mastro della cosca di San Lorenzo in coincidenza con l’avvio dell’avventura televisiva, in quegli anni di etere selvaggio, in cambio sempre di tranquilla protezione. Ci sono gli attentati alla Standa di Catania e le estorsioni trapanesi all’imprenditore Vincenzo Garraffa, attraverso il mafioso Vincenzo Virga. Altro che “interventi per motivi umanitari”, o reato di amicizia. L’uomo che si è pentito di aver fondato Forza Italia e che ha ammesso di essere entrato in politica per salvarsi dal processo, non ce l’ha fatta: il giovane patron della Bacigalupo, cacciatore di talenti calcistici e poi di pubblicità, il raffinato bibliofilo che prendeva il caffè con boss del calibro di Vittorio Mangano e Gaetano Cinà, che conversava cordialmente con Mimmo Teresi e Stefano Bontade, che lavorava con Filippo Alberto Rapisarda, che pranzava con Antonino Calderone, che presenziava alle nozze di Jimmy Fauci, che sponsorizzava i provini al Milan del figlio di un favoreggiatore di mafiosi di Palermo, non è la vittima di sfortunati episodi occasionali, come hanno tentato di sostenere i suoi difensori, ma il consapevole fiancheggiatore di Cosa Nostra che negli anni, con un permanente contributo, ha concorso a rafforzare l’organizzazione criminale, condividendone gli obiettivi e le violente modalità di sopraffazione. Questo è, per i giudici d’appello, Marcello Dell’Utri. È il factotum di Berlusconi che ha curato la “messa a posto” con la mafia, attraverso il versamento di denaro, ottenendo la protezione per le antenne in Sicilia, e lo ha fatto – non dalla posizione di vittima, come sostengono i legali – ma perché complice dei boss. È il consigliori siciliano che, seduto allo stesso tavolo del ricevimento nuziale di Fauci, si è “messo a disposizione” di Franco Di Carlo, latitante di Altofonte, su suggerimento di Mimmo Teresi, fornendogli il suo numero di telefono per le sue esigenze a Milano. È il premuroso manager che ha spedito il boss Virga dal presidente della Pallacanestro Trapani, per “convincerlo” a pagare una tangente in nero a Publitalia, concordata in precedenza. Lo ha fatto seguendo metodi e criteri mafiosi, e anche per difendere gli interessi del suo capo.
Questo fino al ‘92. Poi il buio. Nel verdetto d’appello di Palermo, la foto dell’amico dei mafiosi si dissolve nell’anno delle stragi siciliane e scompare il suo ruolo politico. Come Andreotti è stato riconosciuto interlocutore dei boss fino all’82, la sentenza Dell’Utri restituisce l’istantanea di un fiancheggiatore “a tempo”, che scompare dal palcoscenico stragista nell’anno del ribaltone politico, sganciando il suo ruolo ingombrante dall’avventura del partito-azienda, del quale egli è uno dei fondatori. La corte d’appello di Palermo dimentica del tutto l’esito dell’inchiesta dei pm di Firenze che, indagando su “Autore 1” e “Autore 2”, alias Berlusconi e Dell’Utri (sospettati e poi pro-sciolti dall’accusa di essere i mandanti occulti delle stragi), avevano raggiunto una certezza: e cioè quella che “la natura e la durata del rapporto” tra il leader di Forza Italia, il suo braccio destro e i capimafia, nel periodo delle bombe, “non ha mai cessato di dimensionarsi, almeno in parte, sulle esigenze di Cosa Nostra”. Su questo, almeno, alla fine l’ha spuntata Dell’Utri: sono “minchiate” le accuse rilanciate da Gaspare Spatuzza, che il senatore liquida come “Spatuzza-tura”, e da Massimo Ciancimino, da lui definito “cretino, pazzo e mitomane”.
Ora la sentenza “bifronte” della Corte d’Appello apre due scenari diversi. L’assoluzione parziale di Dell’Utri, che dal ‘92 in poi per i giudici non ha più colpevoli frequentazioni mafiose, sembra allinearsi con la decisione del Viminale di negare la protezione a Spatuzza e incombe sul prosieguo delle indagini. Il verdetto che oggi ci consegna il volto ambiguo di un senatore-fiancheggiatore mafioso “a tempo”, è un punto interrogativo per i magistrati inquirenti che a Palermo, Caltanissetta e Firenze stanno cercando di ricostruire un pezzo di storia del Paese. Ma contestualmente la condanna parziale dello stesso Dell’Utri, per il periodo precedente, pesa sulla vicenda politica italiana, chiamata a gestire il fardello ingombrante dell’uomo simbolo dell’origine di Forza Italia, ora seduto a Palazzo Madama con una doppia patente di filo-mafiosità.
La palla giudiziaria passa alla Cassazione. Nell’attesa, Dell’Utri non trova di meglio che ribadire per l’ennesima volta come Mangano sia “un eroe”, per il suo ostinato silenzio alle domande dei pm sui rapporti con Berlusconi. E si vanta di aver suggerito in prima persona al premier di avvalersi della facoltà di non rispondere, in primo grado. Ora, però, il concetto di eroismo aziendale, fondato sull’omertà e sulle coperture reciproche, rischia di trasferirsi dallo stalliere allo stesso Dell’Utri. “Silvio non capisce che deve ringraziarmi – confidò il fondatore di Forza Italia a Ezio Cartotto, nel marzo del ’94 – se dovessi aprire bocca io...”.
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