giovedì 25 febbraio 2010

UN ANONIMO IGNORANTE


Trascrivo il contenuto una e-mail pervenutami da un anonimo irrintracciabile:
"Salve dott. Morsello, leggo quotidianamente il suo blog e mi chiedevo come mai, una persona laureata in giurisprudenza, che ha lavorato per anni per lo Stato e che fa politica attiva per l'Italia dei Valori, un partito che fa della legalità il suo cavallo di battaglia, violi quotidianamente la legge. Vengo subito al dunque. In Italia (che io sappia, mi correga se sbaglio) vige il Diritto di Corta Citazione

(http://it.wikipedia.org/wiki/Diritto_di_corta_citazione). Per quanto riguarda la riproduzione e/o la citazione di testi giornalistici la si può riassumere nei seguenti punti: 1)L?opera giornalistica che abbia il requisito della creatività è tutelata dall?art. 1 della Legge sul Diritto d?Autore. Il quotidiano (ovvero il periodico) è considerato pacificamente opera ?collettiva?, in merito alla quale valgono le seguenti considerazioni. In base al combinato disposto degli artt. 7 e 38, Legge sul Diritto d?Autore l?editore deve essere considerato l?autore dell?opera. 2) l?opera deve essere stata resa lecitamente accessibile al pubblico; 3) la citazione deve avere carattere di mero esempio a supporto di una tesi e non deve avere come scopo l?illustrazione dell?opera citata; 4) la citazione non deve presentare dimensioni tali da consentire di supplire all?acquisto dell?opera; 5) la citazione non deve pregiudicare la normale utilizzazione economica dell?opera e arrecare un danno ingiustificato agli interessi legittimi dell?autore. Per essere lecite, altresì, le citazioni devono essere contenute nella misura richiesta dallo scopo che le giustifica e devono essere corredate dalla menzione della fonte e del nome dell?autore. Ora, visto che lei quotidianamente copia ed incolla per intero (con immagini annesse) articoli da giornali a pagamento (Il Fatto Quotidiano) o da edizioni online (L'Espresso, Repubblica) senza alcunchè di suo (per esempio un commento che stimoli la discussione) viola quotidianamente la legge e commette un reato. Credo infatti che finchè una legge o una normativa sia in vigore, indipendentemente dal fatto che sia giusta o meno, vada rispettata. In questo caso poi l'obiettivo è quello di difendere il lavoro altrui (quello dei giornalisti) e quindi quello che lei fa quotidianamente oltre a non essere legalmente permetto non è neanche moralmente accettabile. Il suo blog con credo abbia migliaia di visite al giorno quindi non apporterà danni economici significativi a nessuno, ma pensi se tutti si arrogassero il diritto di copiare ed incollare articoli di giornale in modo sistematico sui loro blog. Nessuno o quasi li acquisterebbe più e nessuno li leggerebbe più nelle loro edizioni online cliccando sulla pubblicità. Il sistema in Italia è già in profonda crisi e atti del genere non fanno altro che apportare danno non tanto agli editori ma ai poveri giornalisti che fanno il loro dovere di cronaca e non delle mere "marchette". Se vorrà mi risponda pure sul suo blog. Cordialmente, Anonimo del '9"

Per puro scrupolo ho chiesto delucidazioni ad una persona molto più esperta di me, il dr. Roberto Ormanni.

Questo è lo scambio di messaggi:

"Caro Roberto,

leggi per cortesia cosa mi è pervenuto.

mi sono informato e non è possibile identificare la mail di provenienza se non tramite l'I.P.

inoltre, la persona usa la tastiera internazionale, prova ne è che l'apostrofo viene tradotto nel punto interrogativo.

se poi si prova a rispondergli, il messaggio torna a mè stesso mentre quello destinato all'anonimo interlocutore dopo un po' di tempo il sistema informa che non è stato possibile consegnarlo.

il messaggio proviene da un p.c. collegato con una rete interna, tipo intranet.

mi ha molto incuriosito.

un caro saluto.

luigi

Hai ragione, è curioso. Naturalmente non è un giornalista e neppure qualcuno che lavora nel settore (non avrebbe citato espressamente Wikipedia come fonte ma al massimo l'avrebbe adoperata per dire le stesse cose senza citarla).

Deve essere una specie di pazzo.

Se ti va di divertirti, puoi anche inserire nel blog l'email, specificando che è stata inviata da un sistema cosiddetto "anonimizzante". Un sistema, peraltro, che si avvale di provider collocati in Paesi esteri con i quali non vi sono trattati di cooperazione giudiziaria, in quanto secondo il nostro diritto i sistemi anonimizzanti (ossia che rendono anonimi i mittenti a meno che non si svolga un'indagine di polizia internazionale per individuare il mittente attraverso l'IP passando per il server straniero) sono vietati. Naturalmente si vendono, in rete, anche software che rendono anonimi i sistemi ordinari di posta, ma anche questi sono vietati. Il fatto che i produttori o i venditori di tali software vengano perseguiti soltanto occasionalmente non elimina il divieto.

Per quanto riguarda il merito della questione sollevata da mister Anonimo, esso è del tutto infondato e frutto di un'ignoranza delle cose e delle norme abissali.

Gli articoli ripresi sul blog, questo o qualunque altro, appartengono a quella categoria di articoli che gli editori rendono disponibili a tutti, integralmente, attraverso l'accesso libero sui propri siti on line. Resta fermo l'obbligo per chi li riprende di citare la fonte. Obbligo che proviene, oltre che dalle norme di settore, anche da quelle che regolano le pubblicazioni in generale, anche quelle on line. Ciò in quanto uno scritto anonimo, guarda un po', sottrae il suo autore ad eventuali responsabilità penali e civili.

Ove gli editori non volessero la riproduzione integrale, lo preciserebbero e al termine degli articoli vi sarebbe la postilla "riproduzione riservata". Una precisazione che talvolta mister Anonimo, sol che sapesse leggere invece di limitarsi a guardare le figure, potrebbe trovare in calce ad alcuni articoli di stampa. In quel caso la riproduzione integrale è vietata.

Ciò, inoltre, non danneggia nemmeno gli editori, come invece Anonimo afferma, dimostrandosi deficiente (nel senso etimologico, naturalmente: colui che deficita di alcune conoscenze).

Trattandosi infatti di articoli che l'editore stesso mette a disposizione, gratis, del pubblico indifferenziato attraverso il sito on line della pubblicazione, evidentemente egli ritiene che non siano quelli gli elementi caratterizzanti per la vendita del prodotto editoriale.

Altrimenti, se fossero vere le deficitarie osservazioni del deficiente Anonimo, basterebe il sito di un giornale a vanificare le vendite del medesimo.

Ciò che invece un blog, e qualunque altra pubblicazione, non può fare è scaricare le pagine composte in PDF, che pure sono presenti sul sito di un giornale, e caricarle così come sono. Per non parlare del caso in cui l'accesso al giornale in PDF è riservato agli abbonati.

La stessa questione si pose relativamente alla possibilità offerta dalla tecnologia di duplicare, prima su musicassetta e oggi su CD DVD, opere musicali o di spettacolo. Non potendo impedire che ciò avvenga, si è previsto che una quota del prezzo del supporto vergine da masterizzare venga destinata alla Siae, la società degli autori ed editori, a titolo di diritto forfettario sulla duplicazione dell'opera. Una soluzione accettabile che però, a rigore, è ingiusta laddove quel supporto vergine, acquistato dal cittadino, venga utilizzato non già per la duplicazione di un'opera dell'ingegno bensì, ad esempio, per conservare le foto della propria famiglia. Anche in questo caso, di fatto, verranno pagati indirettamente i diritti alla Siae.

Infine meraviglia che chi tenta di dare, a sproposito, lezioni di legalità, ricorra ad uno strumento illegale, come la posta anonima.

NATURALMENTE SE VUOI PUOI INSERIRE LA MIA RISPOSTA

Intercettare a patto di razionalizzare


25/2/2010

LUCA RICOLFI

Ci risiamo. Ogni volta che, sui giornali o in tv, escono spezzoni di intercettazioni scottanti, il riflesso condizionato è sempre quello: la politica dissotterra uno dei molti disegni di legge per «limitare» le intercettazioni, i magistrati e una parte dell’opinione pubblica si ribellano, i giornalisti entrano in fibrillazione perché temono di perdere uno degli ingredienti più croccanti del loro lavoro.

A rigore, il problema è semplicemente insolubile. Nessuna disciplina delle intercettazioni, infatti, può tutelare, contemporaneamente, i tre diritti che sono in gioco: quello alla privacy, quello alla sicurezza, quello all'informazione. Si tratta dunque di scegliere, o meglio di trovare un compromesso il più ragionevole possibile fra i tre diritti.

Prima di scegliere, tuttavia, varrebbe forse la pena fare i conti con alcuni dati di fatto. La storia recente delle intercettazioni, innanzitutto. Nel 2001 i bersagli intercettati erano 32.000, da allora il loro numero è aumentato sempre, a un ritmo medio del 23% all’anno. Così in 7 anni, dal 2001 al 2008, sono più che quadruplicati. Forse le intercettazioni sono davvero troppe, a meno di pensare che le esigenze investigative siano anch'esse più che quadruplicate in soli 7 anni. Un secondo dato su cui riflettere è la distribuzione territoriale delle intercettazioni. Comunque la si misuri, la densità delle intercettazioni ha una enorme variabilità territoriale: come è possibile che in un distretto di corte d'appello il rapporto fra bersagli intercettati e procedimenti penali sia 15 volte più alto che in un altro? Possibile che le esigenze investigative siano così diverse da un posto all'altro?

C'è infine l'atteggiamento dell'opinione pubblica. Due sere fa, a Ballarò, Nando Pagnoncelli (presidente della società di sondaggi Ipsos), ha presentato dei risultati molto chiari: la maggioranza degli italiani non vuole che si limiti il potere dei magistrati di ricorrere alle intercettazioni, ma nello stesso tempo è favorevole a limitare la pubblicazione delle intercettazioni sui giornali. A quanto pare gli italiani danno molta importanza alla sicurezza (le intercettazioni non si toccano perché servono a scoprire i colpevoli) ma, quanto alla privacy, pensano che il mezzo più efficace per tutelare la privacy stessa non sia ridurre le intercettazioni, bensì mettere dei paletti alla pubblicazione del loro contenuto sui giornali, in particolare quando coinvolgono persone che non c’entrano.

Tenuto conto di tutto ciò, mi sentirei di proporre una semplice soluzione. La politica si astiene dal modificare i criteri di autorizzazione (tipi di reati, gravità degli indizi) e lascia le cose esattamente come stanno quanto alla definizione del quando si può intercettare e quando no. Nello stesso tempo, però, la politica si prende il diritto di riportare gradualmente il numero totale delle intercettazioni a un livello più ragionevole di quello di oggi (per esempio al livello del 2005, in cui i bersagli intercettati erano poco più di 100 mila, contro i quasi 140 mila attuali).

Come? È semplice: fissando uno stock di intercettazioni nazionale, e affidando al Consiglio superiore della magistratura o a un organismo indipendente il compito di ripartire tale stock fra i 29 distretti giudiziari, in funzione del numero e del tipo di reati tipici di ciascuno di essi. Questa semplice misura, come qualsiasi misura di «razionamento», avrebbe automaticamente effetti di razionalizzazione, perché, in presenza di uno stock limitato di bersagli intercettabili, le procure avrebbero tutto l’interesse a non mettere a repentaglio il proprio potenziale investigativo futuro con autorizzazioni concesse in casi in cui non sono strettamente necessarie. In questo modo la politica garantirebbe ai cittadini una maggiore privacy, grazie alla possibilità di fissare un tetto al numero annuo di intercettazioni. La magistratura, a sua volta, vedrebbe pienamente tutelata la propria autonomia perché manterrebbe il pieno controllo sulla allocazione territoriale della «risorsa scarsa» intercettazioni.

E noi cittadini?

Quanto a noi, forse potremmo prendere sul serio il parere della maggioranza degli italiani, chiaramente espresso nel sondaggio Ipsos. Che la politica metta i bastoni fra le ruote delle procure, restringendo i casi in cui si può intercettare, non ci va, tanto più dopo tutto il marcio che è emerso in queste ultime settimane. Però un po' di prudenza sui giornali non ci dispiacerebbe affatto, e non ci sembrerebbe di per sé una limitazione del nostro sacrosanto diritto di essere informati. I processi sui quotidiani e in tv, condotti con spezzoni di frasi e arditi teoremi di innumerevoli tenenti Colombo improvvisati, non sono vera informazione - scrupolosa, onesta, leale - ma rumore giudiziario, polverone mediatico, inquinamento delle nostre menti.

Certo, vogliamo essere informati, leggere le intercettazioni, capire che cosa è successo, ma non in questo modo, che distrugge la vita di tante persone senza dare a noi nessuna certezza, né politica, né giudiziaria, né umana. Insomma, vogliamo sapere, anche nei dettagli, ma possiamo aspettare un po’. Se una legge votata dal Parlamento dirà che i giornali possono pubblicare quello che vogliono, ma solo dopo una certa fase del procedimento penale (ad esempio l'inizio del dibattimento), ce ne faremo una ragione. L'importante è apprendere la verità, tutta la verità (compresi i testi delle intercettazioni, purché non coinvolgano soggetti estranei al processo), in un tempo ragionevole. Sapere prima, o meglio illudersi di sapere prima, non soddisfa il nostro diritto a essere informati, ma solo la nostra impazienza.

Processo Mills, la Cassazione


"Condanna annullata, il reato è prescritto"

"Il reato di corruzione in atti giudiziari a carico dell'avvocato Mills è prescritto. la decisione della Corte di Cassazione arriva dopo circa quattro ore di camera di consiglio e dopo che lo stesso procuratore generale aveva chiesto appunto la prescrizione. Il reato, in sostanza è stato consumato (tanto che la stessa corte ha condannato Mills a risarcire alla presidenza del Consiglio 250mila euro per il danno di immagine) ma la condanna non può essere comminata. L'avvocato inglese era stato condannato a 4 anni dal tribunale di Milano in un processo in cui è stata stralciata la poisizione di Silvio Berlusconi che, secondo l'accusa avrebbe corrotto il legale inglese per fargli dire il falso.

"Le Sezioni Unite della Cassazione hanno annullato senza rinvio per estinzione del reato la condanna a 4 anni e sei mesi di reclusione per l' avvocato David Mills, accusato di corruzione in atti giudiziari, fatte salve le stauizioni civili a favore della Presidenza del Consiglio, così come stabilito dalla Corte di Appello di Milano il 27 ottobre 2009". Questo il dispositivo della sentenza letto in aula dal presidente Torquato Gemelli. In pratica vengono accolte le richieste del Pg Gianfranco Ciani, "Non vi sono i presupposti per il proscioglimento nel merito di David Mills", aveva detto nella sua arringa. In pratica, si confermerebbe, secondo il pg, la responsabilità dell'avvocato inglese nel reato di corruzione in atti giudiziari che sarebbe, però, prescritto.

L'estinzione del reato ci sarebbe perché l'atto di corruzione va fatto risalire non al febbraio 2000 ma al novembre 1999. Da allora andrebbe conteggiato il periodo di dieci anni, dopo il quale il reato va in prescrizione. Il termine, perciò, sarebbe già scaduto. "Non sembra essere in dubbio - ha spiegato il procuratore - che il reato corruttivo è avvenuto con la comunicazione da parte di emissari di Bernasconi nei confronti di Mills della disponibilità della somma". Quella comunicazione, ha precisato Ciani, avvenne l'11 novembre 1999. La sentenza di appello, invece, aveva individuato come momento dell'atto corruttivo il febbraio 2000, quando circa 600mila euro in titoli furono effettivamente versati sul conto di Mills per il tramite del finanziere Bernasconi.

Dal processo è stata stralciata, per effetto del lodo Alfano, la posizione del premier: il procedimento nei suoi confronti è ripreso dopo la bocciatura da parte della Corte Costituzionale della legge che prevedeva uno 'scudo' dai processi penali per le quattro più alte cariche dello Stato, e la prossima udienza è prevista per sabato prossimo. La sentenza odierna della Cassazione non potrà che avere conseguenze sul processo che riprenderà tra due giorni a Milano a carico di Berlusconi.

"Tuttavia il processo di Berlusconi - fanno notare fonti della difesa di Mills - è stato sospeso per un anno, quindi per lui, la prescrizione maturerebbe il prossimo novembre, se venisse accolta la tesi sostenuta dalla procura della Suprema Corte". In pratica, il processo a Berlusconi potrebbe andare avanti per un altro anno ma difficilmente eviterà di finire in prescrizione.

(25 febbraio 2010)


I 5 Blues Brothers “lobby nel mondo”

DI GIROLAMO, DE GREGORIO E GLI ALTRI: POLITICA E BUSINESS

di Enrico Fierro

Cinque uomini su un manifesto. Abbigliamento da Blues Brothers, neri come le “jene”, un po' ridicoli come i “Soprano's”. Sono gli italiani nel mondo: Basilio Giordano, Amato Berardi, Juan Esteban Caselli, Nicola Di Girolamo e in mezzo lui: Sergio De Gregorio, la mente della fondazione-partito. Una sigla politica? Un impero economico? Una potentissima lobby? Di tutto un po'. Basta dare una occhiata agli archivi della camera di commercio di Napoli, patria di De Gregorio, e perdersi in un arcipelago di sigle, tutte targate “Italiani nel mondo”: reti televisive, servizi immobiliari, editrice, Channel, socio sempre De Gregorio e sua moglie Maria Di Palma. La passione per le tv e l'editoria ha creato qualche problema a De Gregorio per una storia di contributi statali alle tv private che nel 2008 vide coinvolto Giovanni Lucianelli, all'epoca suo capoufficio stampa. Storie e problemi che non hanno mai fatto arretrare di un millimetro l'ex giornalsita d'assalto che ebbe il suo momento di gloria nel 1995. Allora, “molto causalmente”, De Gregorio scoprì a bordo della nave da crociera “Monterey” Tommaso Buscetta. Scoppiò il finimondo. Per rallegrare don Masino il futuro leader di “Italiani nel mondo” amava esibirsi nella celebre “Guapparia”. Altra musica, invece, 14 anni dopo, quando all'Auditorium della Conciliazione a Roma, De Gregorio e i suoi “blues brothers” presentano a Roma “Italiani nel mondo”. “Un movimento rivolto a tutti gli italiani che credono nella bandiera, nella lingua, nella cultura e nella Patria”, dice il fondatore. Si commuove anche Susanna Petruni, la “farfallina” del Tg1 che quella sera fa da madrina d'onore. Sergio De Gregorio tiene molto ai suoi meeting. Quando tre anni prima, nel 2006, presenta il movimento a Palermo la sala dell'Hotel Parco dei Principi è gremita. Sono venuti anche da New York ad applaudire e a portare la promessa di soldi. C'è la principessa Josephine Borghese e Maria Pia Dell'Utri, la ex moglie del fratello gemello di Marcello. Fratelli d'Italia sparsi per il mondo, la vera forza di De Gregorio. Lui sì un vero emigrante. Non ha girato continenti, ma partiti. Ex socialista craxiano, poi affascinato dalla Dc di Rotondi, simpatizzante di Forza Italia, infine senatore grazie a Di Pietro, prima di ritornare nelle braccia di Berlusconi. E qualche guaio giudiziario. Quello brutto a Reggio Calabria, dove la procura antimafia lo imputa di concorso esterno in associazione mafiosa per aver favorito la cosca Ficara nell'acquisto di una caserma dismessa. Scoppiano polemiche, il senatore grida al complotto. Il 27 maggio dell'anno scorso un decreto di archiviazione lo scagiona da ogni accusa. Ora De Gregorio è pronto per lanciare il suo movimento e farlo confluire nel Pdl di Berlusconi. I suoi uomini di punta sono quelli del manifesto in nero.

Nicola Paolo Di Girolamo, il politico di riferimento del clan Arena di Isola Capo Rizzuto. Nelle carte dell'inchiesta che ha coinvolto i vertici di “Fastweb” c'è un particolare che racconta il legame del senatore con i vertici della 'ndrangheta crotonese.

Franco Pugliese, il riciclatore della cosca Arena, è un appassionato di barche di lusso, per 200mila euro compra uno yacht “Franck One” da una ditta di Trapani, il senatore lo aiuta ad intestarlo alla “Adv & Partners”, una società romana. Amato Berardi è stato eletto negli Usa, presidente del “Niapac” - National american committee -, è responsabile di un fondo in grado di gestire 60 miliardi di dollari. “Se necessario – promise nella kermesse palermitana – interverremo per la costruzione del Ponte sullo Stretto”.

Sulla testa di Basilio Giordano – calabrese emigrato a Montreal “perché mi innamorai di mia moglie” - pende un ricorso del primo dei non eletti.

Juan Esteban Caselli è stato eletto nella circoscriszione latino-americana. Tanti voti in Argentina, dove conta di candidarsi alle elezioni presidenziali del 2011, tantissimi in Venezuela. C'è una contestazione sulle schede che lo hanno portato in Parlamento, stessa calligrafia, stesso inchiostro, sospetti e una inchiesta aperta. Perché in Venezuela all'epoca delle elezioni si mise all'opera Aldo Micciché, un faccendiere calabrese da anni riparato nel paese sudamericano che in Italia dovrebbe scontare 25 anni di galera. Amico stretto di Dell'Utri, alla vigilia delle elezioni i due si parlano spesso, come accerta una inchiesta della Dda di Reggio Calabria. “Presto si vota e ci dobbiamo preparare” , dice Micciché. “Lo misi in contatto con Barbara Contini che si occupava del voto degli italiani all'estero”, la replica del senatore. Il 26 marzo 2007 Micchiché è in prima fila alla presentazione dei candidati del Pdl a Caracas.

IL CLAN DEGLI ONOREVOLI


È il nostro Parlamento ma sembra la Chicago di Al Capone: tutti gli uomini mandati da Cosa Nostra per “fare il lavoro”

di Peter Gomez

Guardi il Parlamento e pensi al consiglio comunale di Chicago. Quello degli anni Venti, in cui Al Capone teneva il sindaco William “Big Bill” Hale Thompson jr e tutti gli altri a libro paga. E, almeno nei film, apostrofava i pochi poliziotti onesti urlando “Sei tutto chiacchiere e distintivo”. Il caso di Nicola Di Girolamo, il senatore Pdl che si faceva fotografare abbracciato ai boss e si metteva sull’attenti quando gli dicevano “tu sei uno schiavo e conti quanto un portiere”, è infatti tutt’altro che isolato. Tra i nominati a Montecitorio e Palazzo Madama, gli uomini (e le donne) risultati in rapporti con le cosche sono tanti. Troppi. Anche perché farsi votare dalla mafia non è reato. Frequentare i capi-bastone nemmeno. E così, mentre la Confidustria espelle non solo i collusi, ma persino chi paga il pizzo (persone che, codice alla mano, non commettono un reato, ma lo subiscono), i partiti imbarcano allegramente di tutto. Anche chi potrebbe aver fatto promesse che oggi non può, o non vuole, più rispettare.

Quale sia la situazione lo racconta bene la faccia di Salvatore Cintola, 69 anni, uomo forte dell’Udc siciliano dopo che pure in secondo grado Totò Cuffaro ha incassato una condanna (sette anni) per favoreggiamento mafioso. Pier Ferdinando Casini lo ha fatto entrare al Senato (come Cuffaro) sebbene Giovanni Brusca, il boss che uccise il giudice Falcone, lo considerasse un suo “amico personale”. Quattro archiviazioni in altrettante indagini per fatti di mafia, una campagna elettorale per le Regionali del 2006 (17.028 preferenze) condotta ad Altofonte - stando alle intercettazioni - dagli uomini d’onore e persino una breve militanza in Sicilia Libera, il movimento politico fondato per volontà del boss Luchino Bagarella, non sono bastate per sbarrargli le porte. Anche perché, se si dice di no al vecchio Cintola, si finisce per dire no pure al giovane deputato Saverio Romano. Anche lui ha la sua bella archiviazione alle spalle (concorso esterno). Ma nel palmares può fregiarsi del titolo di candidato Udc più votato alle ultime Europee (110.403 preferenze nelle isole). Per questo, anche se di fronte a testimoni anni fa pronunciò una frase minacciosa che pare tratta dalla sceneggiatura del Padrino (“Francesco mi vota perché siamo della stessa famigghia” disse rivolgendosi al pentito Francesco Campanella), Romano fa carriera. È membro della commissione Finanze, il segretario Lorenzo Cesa, lo ha nominato commissario dell’Udc a Catania, mentre Massimo Ciancimino, il figlio di Don Vito, lo ha incluso con Cintola, Cuffaro, e il presidente della commissione Affari costituzionali del Senato, Carlo Vizzini, nell’elenco dei parlamentari a cui sarebbero finiti soldi provenienti dal tesoro di suo padre. Così Romano è oggi indagato come gli altri per corruzione aggravata dal favoreggiamento a Cosa Nostra. E se mai finirà alla sbarra qualcuno in Parlamento, c’è da giurarlo, dirà: “È giustizia ad orologeria”.

Ma la verità è un’altra. I rapporti di forza tra la mafia e la politica stanno cambiando. Il dialogo tra i due poteri e sempre meno paritario. Nel 2000, quando una microcamera immortala l’attuale senatore del Pd, Mirello Crisafulli, mentre discute di appalti con il boss di Enna, Raffaele Bevilacqua (appena uscito di galera), negli investigatori della polizia resta ancora il dubbio su chi sia a comandare. “Fatti i cazzi tuoi” dice infatti chiaro Crisafulli (poi archiviato), al mafioso. In altri dialoghi, invece, il rapporto sembra invertirsi.

A bordo della sua Mercedes nera Simone Castello (un ex iscritto al Pci-Pds diventato un colonnello di Bernardo Provenzano) ascolta così il capo del clan di Villabate, Nino Mandalà (nel 1998 membro del direttivo provinciale di Forza Italia), mentre sostiene di aver “fatto piangere”, l’ex ministro Enrico La Loggia. “Gli ho detto: Enrico tu sai chi sono e da dove vengo e che cosa ero con tuo padre. Io sono mafioso come tuo padre. Ora lui non c’è più, ma lo posso sempre dire io che tuo padre era mafioso” racconta Mandalà al compare aggiungendo che La Loggia, in lacrime, si sarebbe messo a implorare: “Tu mi rovini, tu mi rovini”.

In questo caso la minaccia (smentita da La Loggia, che però ammette l’incontro) è quella di svelare legami inconfessabili. Un po’ quello che sta accadendo in questi mesi con Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi che, secondo molti osservatori, starebbero subendo una sorta di ricatto. Dell’Utri, dicono i giudici, ha stretto un patto con i clan. Un patto non rispettato o solo in parte. E così adesso, visto che è difficile organizzare un attentato ai suoi danni (nel 2003 Dell’Utri e una serie di avvocati parlamentari erano stati inclusi dal Sisde in un elenco di personaggi politici che la mafia voleva ammazzare perché di fatto considerati traditori), la vendetta potrebbe passare attraverso le rivelazioni nei tribunali. Fantascienza? Mica tanto. Perché, almeno nel caso di Dell’Utri, ogni volta (o quasi) che intercetti un telefono di un presunto uomo delle cosche, corri il rischio di ascoltare la sua voce. È successo nell’indagine su Di Girolamo. Ed è accaduto due anni fa, poco prima delle elezioni, con gli affiliati del clan Piromalli. Il loro referente Aldo Micciché chiamava il senatore in ufficio dal Venezuela, mentre a uno dei ragazzi della ‘Ndrina Dell’Utri affida il compito di aprire un circolo del Buon governo a Gioia Tauro.

Ovvio che tanta disponibilità al dialogo (Dell’Utri si è giustificato dicendo che lui “parla con tutti”) anche se non dovesse nascondere accordi illeciti, espone quantomeno al rischio di pericolosi equivoci. Se alla Camera entra una bella ragazza di Bagheria, priva di esperienza politica, come Gabriella Giammanco (Pdl), e poi si scopre che suo zio, Michelangelo Alfano, è un boss condannato in via definitiva, è chiaro come qualcuno nelle famiglie di rispetto possa pensare (sbagliando) di trovarsi di fronte a una sorta di messaggio. E se nel governo siede ancora un sottosegretario, Nicola Cosentino, con parenti acquisti detenuti al 41-bis e una richiesta di arresto per Camorra che pende sulla sua testa, è inevitabile che gli uomini di panza considerino il premier un loro amico. Un politico come tutti quelli con cui i patti sono stati siglati con certezza. E ai quali, parafrasando Al Capone, si può sempre gridare, in caso di cocente delusione: “Sei solo chiacchiere e distintivo”.

Viva Craxi, abbasso i corrotti


di Marco Travaglio

Dice Napolitano, a chi gli domanda delle nuove tangenti: “Chiedete ad altri”. Lui infatti un mese fa giustificava quelle vecchie, scrivendo alla vedova Craxi che il marito esule fu “trattato con una durezza senza eguali”, e ora commemora Pertini.

Dice Schifani, con rispetto parlando, che “i partiti si devono imporre rigore nella selezione della classe dirigente, a volte non candidando chi è condannato non in via definitiva”. Lui infatti, un mese fa in Senato, beatificava Craxi, condannato in via definitiva per corruzione e morto latitante, chiamandolo “vittima sacrificale”.

Dicono Brunetta e Sacconi che ha torto Montezemolo quando per la nuova corruzione accusa la politica, perché loro sono impegnatissimi a combatterla: infatti un mese fa, per combatterla meglio, stavano sulla tomba del corrotto Craxi.

Dicono Fini e Berlusconi, una volta tanto all’unisono: “Non c’è una nuova Tangentopoli”. Perché, anche se ci fosse, cambierebbe qualcosa?

Non era un complotto delle toghe rosse manovrate dalla Cia, l’inchiesta su Tangentopoli?

Non erano dei martiri perseguitati politici, i condannati per Tangentopoli?

Non sedevano tutti in prima fila al Senato alla canonizzazione di San Bottino, i pregiudicati Forlani, De Michelis e De Lorenzo?

Si dice che bisogna aspettare le condanne definitive: ma, anche se arrivassero, cambierebbe qualcosa?

Craxi non era un condannato definitivo?

Come può una classe politica, fino alle più alte cariche dello Stato, avere la credibilità di parlare di corruzione se un mese fa era allineata e coperta a beatificare uno dei simboli della corruzione?

Come può sperare che all’estero la prendano sul serio?

La stampa internazionale, dall’Economist a Le Monde, un mese fa ci prendeva in giro come un paese di smemorati e di cialtroni. Ora che dalla santificazione dei corrotti si passa, ovviamente a parole, alle leggi anticorruzione, seguiteranno a considerarci la patria di Pulcinella.

Bossi vuol fare piazza pulita dei condannati: ma se lo ricorda di essere pure lui un condannato per la maxi-tangente Enimont?

La Russa dice che “il limite sta nel rinvio a giudizio: al di sotto non c’è problema, al di sopra ci sarà un invito a non candidarsi”: ma se lo ricorda che il capo del suo partito, tale Banana, è stato rinviato a giudizio per corruzione di Mills e per frode fiscale, appropriazione indebita e falso in bilancio sui fondi neri Mediaset?

Il sagace Gasparri, a proposito del sen. Di Girolamo, dice che “nessuno è intoccabile”: e allora perché il suo partito, meno di due anni fa, votò contro l’arresto del sen. Di Girolamo accusato di 7 capi d’imputazione per aver truccato le carte della sua elezione fra gl’italiani all’estero mentre risiedeva in Italia (presso una nota cosca della ‘Ndrangheta)?

E perché la giunta per le elezioni del Senato trovò il modo di non espellere neppure il senatore abusivo? Chi era il capogruppo del Pdl al Senato? Per caso, Gasparri ha mai sentito parlare di Gasparri?

Piercasinando parla come Grillo al V-Day: “Basta con i ladri”. Forse scherza. Chi ha fatto nominare segretario Udc Lorenzo Cesa, arrestato nel ’93 perché incassava le tangenti per conto del ministro Prandini e reo confesso in un memorabile verbale che inizia con le parole “ho deciso di vuotare il sacco”? Chi ha portato in Parlamento Giuseppe Drago, già presidente della regione Sicilia, dopo che era stato condannato in primo grado per peculato per avere svaligiato la cassa dei fondi riservati del governatore asportando 230 milioni di lire? Un certo Casini. Per caso, Casini ha mai sentito parlare di Casini?

Angelino Jolie, poveretto, dice restando serio che “Berlusconi ha posto l’onestà come precondizione della politica… perché, da uomo ricco, non ha bisogno di prendere mazzette e dunque è insospettabile di tangenti”. Infatti le tangenti non le prendeva: le pagava.

Ma forse è questa la formidabile legge anticorruzione che ha in serbo l’onorevole Angelino: chi prende tangenti, in galera; chi le paga, a Palazzo Chigi.

Lesa Maestà catodica Ma le critiche sono ancora lecite?


di Paolo Flores d’Arcais

Michele Santoro ha totalmente ragione. Poiché mi sono permesso una critica e un suggerimento alla sua “gestione” degli ospiti di Annozero, dove alcuni invitati tolgono ad altri il diritto alla parola con interruzioni ininterrotte, insulti ululanti e sovrapposizione di voce, Michele Santoro ha decretato che sono “un membro perfetto dell’Agcom” (non ho idea di cosa sia, ma è certamente una cosa brutta) e “un apologeta del Berlusconi-pensiero sul ‘pollaio’”.

Ben mi sta.

Ho commesso il delitto di lesa Maestà catodica (ormai anzi al plasma), ho dimenticato che un conduttore di programma televisivo è come lo zar autocrate di tutte le Russie, solo lui conosce cosa sia il bene del suo popolo, e chi si azzarda a qualcosa che ecceda l’umile supplica è ipso facto un malvagio (in questo caso un apologeta del Berlusconi-pensiero).

Non provo neppure a scusarmi, il delitto di lesa Maestà è per definizione e da secoli inescusabile in terra, come inespiabile è in cielo quello contro lo Spirito. Del resto, per una buona confessione, come ci hanno insegnato al catechismo, non basta la contrizione per la colpa commessa, è necessario anche il “fermo proposito” di non peccare più, e io credo che invece mi capiterà ancora di inciampare nel temerario pensiero che tutte le Maestà, e financo i conduttori televisivi, siano esseri umani fallibili e limitati come noi, polvere che tornerà polvere, e dunque scambiarsi critiche e suggerimenti sia la normalità di una civile esistenza.

Perché il problema esiste, anche se Michele Santoro prende cappello al solo menzionarlo: un ospite che impedisce a un altro ospite di argomentare, sovrapponendo la sua voce, le sue interruzioni sguaiate, i suoi insulti bercianti, realizza lavoro di censura che spesso sconfina in un vero e proprio manganello e olio di ricino mediatico.

Cose che accadono sempre più spesso, e sempre in una sola direzione, con “personaggi” ormai perfettamente addestrati al ringhiare e ragliare che imbavaglia l’opinione altrui e comunque schiaccia sul nascere ogni possibilità di controversia “ad armi pari”.

Suggerire di far qualcosa perché il confronto anche il più aspro avvenga invece sempre per argomentazione razionale e nel rispetto delle “modeste verità di fatto” (in mancanza del quale rispetto, scriveva Hannah Arendt, il totalitarismo è già in marcia) non mi sembra un bizzarro chiedere la luna, ma l’abc della democrazia liberale. E forse anche della buona televisione.

Michele Santoro ha il merito di fare dell’ottima televisione, con inchieste giornalistiche esemplari. E tanto più il suo lavoro è meritorio in quanto, nel deserto informativo dell’Impero berlusconiano, senza Gabanelli, Iacona e Santoro gli italiani che non leggono un quotidiano (nove su dieci) nulla verrebbero a sapere del groviglio di cloache sulle quali poggia lo sbrilluccichio di cartapesta dell’Italia raccontata minzolinescamente, groviglio che sta portando rapidamente allo smottamento definitivo del paese. Proprio perché ha saputo innovare e fare scuola sul giornalismo d’inchiesta, però, Michele Santoro potrebbe riflettere se non valga la pena inventare e sperimentare inedite modalità di “gestione” degli ospiti, che realizzino davvero e per tutti il diritto all’argomentazione. E che magari avrebbero il plauso di milioni di cittadini telespettatori. E che in un vicino domani potrebbero a loro volta essere considerate esemplari.

Michele Santoro non accresce invece i suoi già cospicui meriti o la sua autorevolezza, se reagisce alle critiche e ai suggerimenti con l’albagia e gli anatemi di un Bruno Vespa qualsiasi.

p.s.

Michele Santoro ha iniziato la sua risposta a Marco Travaglio scrivendo che “siamo diversi e con diverse opinioni su molte cose: legalità, moralità, libertà e televisione”. Trascuro la televisione, metto tra parentesi le libertà e la moralità, sul cui significato esistono discussioni che riempiono biblioteche, ma la legalità? Incuriosisce davvero in cosa possa consistere tale differenza, visto che la “opinione” di Marco in proposito è semplicemente e limpidamente quella standard di quanti si riconoscono nei valori della Costituzione repubblicana. E’ davvero e solo una curiosità, sinceramente e senza secondi fini.

Talk-show über alles





di Furio Colombo

Santoro, tante volte giustamente difeso in nome della libertà del suo lavoro e del suo programma, pensa che questa difesa sia una dichiarazione di sacralità, una sorta d’inchino collettivo.

Questa persuasione divide il mondo (o almeno la sua audience) in credenti e miscredenti. I miscredenti gli sono antipatici anche se hanno fatto la fortuna di Annozero. Per esempio Marco Travaglio, a cui Santoro sembra dedicare la classica frase delle aziende di Confindustria al bravo manager improvvisamente licenziato: “Mio caro, nessuno è indispensabile”. È una frase da Luiss nei giorni peggiori, ma a Santoro piace. E infatti nella sua lettera un po’ padronale così si rivolge – imprudentemente – a Travaglio, la persona che gli spettatori di Annozero, il giovedì sera aspettano di più. In questa lettera però il condottiero di Annozero non può perdonare la mancanza di adorazione neppure a chi, come Paolo Flores d’Arcais, ha riempito piazze e numeri di Micro-Mega in difesa di Santoro e della sua televisione. E a me dedica la frase che segue e che un po’ sfida il buon senso, un po’ la comune conoscenza dei fatti, un po’ il pubblico stesso di Annozero: “Un apologeta del Berlusconi-pensiero sul ‘pollaio’. Proprio come Furio Colombo e le sue invettive contro i talk-show”. Noto, con tristezza l’uso della parola “invettiva” in luogo della parola “critica”, un’involontaria concessione al linguaggio pacato di Bondi. Continua Santoro: “D’Arcais e Colombo sono convinti che debba regnare l’ordine del discorso (scritto) che, ovviamente per loro, non è quello del telegiornale di Minzolini ma quello di Report, celebratissimo esempio di trasmissione basata sul principio d’identità e non contraddizione”.

L’argomento è utile per capire.

Contrappone chiarezza e contraddittorio, come se si trattasse di una scelta (o l’una o l’altro) tra incompatibili opposti e illustra i principi a cui Santoro (ma anche gli altri conduttori di talk-show) ispira il suo lavoro che sente come “insostituibile” e unico.

Sulla qualità non c’è discussione.

Persino Porta a Porta è un programma tecnicamente molto buono. E se si potessero doppiare gli interventi, come nei film americani, si avrebbe un buon programma.

Quanto a Ballarò colpisce la felicità giovane e orgogliosa del conduttore Floris per il suo programma. Passeggia nell’etere di RaiTre con lo stesso gusto vincitore con cui si porta in giro in città la prima bella ragazza conquistata nella vita, esibita con un silenzioso e infantile “vedete? È mia!”.

Ormai bisogna valutare l’insieme di questi programmi perché l’oltraggio di non considerarli la fine del mondo dell’informazione politica li ha fortemente legati.

Esempio: martedì sera (23 febbraio) Floris a Ballarò ha dato al suo programma una copertina alla copertina del bravissimo comico Crozza. Il protagonista era Roberto Natale (Federazione della stampa) invitato in modo un po’ perentorio a dire come sarà povera la televisione e il mondo quando Ballarò e i suoi fratelli saranno sospesi per insufficienza di rappresentanza politica. Al suo Ballarò, Roberto Natale se l’è cavata bene. Ha suggerito “grandi temi importanti per tutti senza invitare i politici”. Buona idea, non per far felice la Commissione di Vigilanza, non per antipolitica, ma per salvarsi dalla claustrofobia, unica in occidente, dei talk-show italiani.

Floris stava chiedendosi in pubblico e senza imbarazzo che cosa ci riserva il destino se improvvisamente dal Suo, o da altri programmi analoghi, mancassero “loro”. Chi sono loro? Sono “gli ospiti”, sono sempre gli stessi, chi per intere legislature, chi per lunghi anni, a cavallo fra un governo e l’altro.

Ed ecco gli ospiti di Floris la sera del 23 febbraio: Bersani (invece di Franceschini), Scaiola (invece di Bondi), Bocchino (invece di Cicchitto), Polito (invece di Adornato), Todini, giovane imprenditrice carina (invece di Guidi, giovane imprenditrice carina, invece di Marcegaglia che non può esserci sempre). Fate presto a immaginare i nomi di riserva, non più di dieci in uno stretto elenco senza eccezioni. Dai rispettivi elenchi nessuno sgarra mai.

Floris si pone come fine massimo l’accostare le due parti e indurle a “fare insieme”.

Vespa punta con accortezza al trionfo del regime.

Santoro è un domatore nato: vuole scontro e sangue ma tocca a lui tenere a bada le belve. Delle eventuali vittime (la reputazione di Travaglio) gli importa poco. Ma le sue belve sono sempre le stesse, come gli ospiti del salotto di Vespa, una “short list” che fa ruotare sempre le stesse persone fidate, dieci politici su mille in servizio, e tutto il resto del mondo escluso. Infatti i conduttori, per sopravvivere, scelgono i politici assieme ai politici. E i politici scelgono sempre se stessi. Sicuro che non abbia ragione Roberto Natale quando dice: “Grandi temi, niente politici, come nei talk-show nel resto mondo”?

LA MIA VITA DENTRO

Il reinserimento difficile di chi vive all’inferno.

Fa riflettere il libro che racconta anni di storie ed esperienze nelle carceri In questa esistenza moderna, affollata di stimoli e luoghi, di cose e persone, in cui è garantita la libertà di fare ciò che (più o meno) si vuole da liberi cittadini, spesso non riusciamo neanche ad immaginare la vita dei reclusi.

L’esperienza umana e sociale del carcere rimane una delle più traumatiche. Ce ne parla Luigi Morsello in un bel libro a cura di Francesco de Filippo e Roberto Ormanni intitolato “La mia vita dentro”.

Morsello ha avuto esperienza diretta del carcere, e da un osservatorio privilegiato: è stato per trentasei anni in ventidue istituzioni carcerarie dirigendone sette, dalle più dure – cui venivano destinati mafiosi e terroristi – alle più “dolci” orientate al reinserimento dei detenuti nella società.

Un libro fatto di storie e di persone dimenticate da tutto e da tutti, vicende che però costituiscono l’ossatura di un’Italia così poco patinata che noi persone libere vogliamo istintivamente ignorare, perché suggeriscono troppa disperazione e troppo male di vivere. Teoricamente il carcere dovrebbe essere un luogo di rieducazione ma, come scrive il magistrato Pier Luigi Vigna nella prefazione al libro, “il sovraffollamento e l'indistinzione tra ‘definitivi ’ e soggetti in attesa di giudizio, mortificano la persona e rendono improbabile ogni tentativo di rieducazione”.

È difficile reinserire una persona nella società, dopo averla inserita in un girone infernale.

MASSIMO CAVIGLIA

DNews

Roma, 25.2.2010

Giovedì

mercoledì 24 febbraio 2010

J. S. BACH - The Art of Fugue Contrapunctus l - Glenn Gould

J. S. BACH - CANONE DI PACHELBEL

Johann Pachelbel Canon or Kanon baroque christmas classical music song songs the London Symphony Orchestra

Artur Rubinstein Plays Chopin, 1950

Martha Argerich - Bach Partita No. 2 - Verbier Festival 2008

ANTONIO DI PIETRO
24 Febbraio 2010

Nel Milanese si sospetta che vi sia una correlazione tra inquinamento e leucemie infantili con tasso superiore alla media. Su circa 70 Comuni riunitisi nella sede della Provincia di Milano, in rappresentanza dei 134 dell'hinterland milanese che hanno aderito al blocco del traffico per domenica 28 febbraio, solo due, Sesto San Giovanni e Cinisello Balsamo, sono pronti all'iniziativa.

Contemporaneamente, nel Lambro, sono stati versati almeno 600mila metri cubi di sostanza inquinante, fuoriuscita dai depositi della ex-raffineria Lombarda Petroli di Villasanta, che ha raso al suolo e compromesso, a tempo indeterminato, l’intero ecosistema circostante confluendo nel Po.

Sul fronte politico ci sono stati arresti per mazzette e per infiltrazioni della ‘Ndrangheta. La Lombardia, considerata il motore dell’economia italiana con la produzione di un quarto del Pil nazionale e fiore all’occhiello dell’Europa, si sta trasformando nel vespasiano d’Italia.

Questa situazione non è più tollerabile.

I politici del centrodestra sono i principali responsabili di questo catastrofico risultato poiché governano da oltre vent’anni consecutivi la Regione e il capoluogo. Per quanto alzino la voce a fini propagandistici per dire “basta” a quanto è successo, per quanto improvvisino banchetti leghisti per raccogliere firme di petizioni fasulle, per quanto Formigoni si faccia filmare mentre pedala per cento metri nel tentativo di farsi eleggere per la quarta volta consecutiva Presidente della Regione, ad oggi, Pdl e Lega sono gli unici responsabili del decadentismo lombardo.

Il consenso elettorale non dà ai politici alcuna autorità per poter decidere sulla salute dei cittadini. Qualsiasi siano le ragioni della non adesione di 132 Comuni al fermo del traffico domenicale, il boicottaggio dell’iniziativa è intollerabile.

Mi sarei aspettato da parte di chi governa un atto di responsabilità a tutela dei cittadini e del bene comune che trascendesse, dunque, dai conflitti dichiarati tra amministrazioni comunali e provinciali giocati, purtroppo, sulla pelle dei milanesi.

La misura del fermo automobilistico potrà anche essere insufficiente ma, proprio per questo, mi sarei aspettato una richiesta di estensione del blocco auto anche per i giorni feriali e non un rigetto di una proposta che, seppur limitata, rappresenta comunque un punto di partenza.

I cittadini, le associazioni, le famiglie e gli imprenditori devono essere disposti a cambiamenti radicali poiché radicali saranno gli effetti del degrado che stanno già pagando loro e i loro figli.

Di una cosa sono certo: qualora Formigoni vincesse anche questa volta le elezioni regionali non cambierebbe nulla, la Lombardia rimarrebbe sì motore d’Italia, ma inquinato e malato.

INDECENTI


I miracoli di Mr. Fastweb e le truffe dell’Iva


LA PARABOLA DI SCAGLIA: FIBRE OTTICHE, SCAMBI SOCIETARI E MILIARDI. ALL’OMBRA DELLA POLITICA

di Gianni Barbacetto

Quando una storia di successo s’incrina, tutto crolla. E tornano a far tintinnare le loro catene anche i vecchi fantasmi, dimenticati negli anni degli applausi. Capita così anche a Silvio Scaglia, il torinese che in pochi anni è riuscito a diventare uno dei venti uomini più ricchi d’Italia, uno dei mille più ricchi del mondo. Ora che è caduto in una faccenda di riciclaggio che ha tra i suoi protagonisti anche uomini della ’Ndrangheta, quelli che sembravano semplici dubbi dentro una straordinaria parabola manageriale, diventano sinistri scricchiolii.

L’ingegner Scaglia cresce in Omnitel e, diventato nel 1995 amministratore delegato, fa vincere la sfida al secondo operatore telefonico nel paese appena uscito dal monopolio Telecom. Gli italiani scoprono di non poter più fare a meno del telefonino e Omnitel diventa il suo primo successo. Nel settembre 1999, quando Carlo De Benedetti vende Omnitel, Scaglia s’inventa, con il finanziere milanese Francesco Micheli, il suo secondo successo: e.Biscom. Gli italiani, già impazziti per il cellulare, scoprono la new economy e quando e.Biscom viene quotata in Borsa, nel 2000, le azioni vanno a ruba, alla bella cifra 160 euro. Con il bendiddio raccolto, Scaglia e Micheli iniziano a investire nella rete a fibra ottica, per telefonia e Internet ad alta velocità. Entra in scena Fastweb, il terzo successo di Scaglia, che promette telefonia, Internet e tv, tutto direttamente a casa, a banda larga.

Il salto nel futuro avviene però con un pasticciaccio ancora oggi difficile da decifrare. L’operazione parte a Milano, dove viene presentata con toni enfatici: “Milano come Palo Alto e Stoccolma, le città più cablate del mondo”. A vendere i servizi sulla rete sarà Fastweb (60 per cento e.Biscom, la società di Scaglia e Micheli, 40 per cento Aem, l’azienda energetica comunale). Ma a posare i cavi intanto è Metroweb (67 per cento Aem, 33 per cento e.Biscom) che prevede d’investire 500 miliardi di lire in dieci anni e comincia a stendere 3.200 chilometri di fibra ottica. È chiaro che, nei primi anni, c’è tanto da spendere e poco da guadagnare: infatti Metroweb s’indebita fino a 200 milioni di euro.

Intanto e.Biscom ingrassa: i due soci hanno versato un capitale di 38 miliardi di lire, ma grazie al rapporto che hanno saputo costruire con Aem e il comune di Milano (sindaco Gabriele Albertini, city manager Stefano Parisi, assessore molto attento all’operazione Sergio Scalpelli), la loro creatura cresce fino a valere, secondo Merrill Lynch, ben 12 mila miliardi. “Il colpo del secolo”, scrive Massimo Mucchetti. In consiglio comunale c’è chi comincia a sentire puzza di bruciato: il verde Basilio Rizzo nel 2000 chiede “se il know how e la presenza di Aem abbiano avuto una valutazione congrua”.

Nel 2003, la situazione si sblocca. In un modo magico (per Scaglia e Micheli): Fastweb viene acquistata tutta da e.Biscom, Metroweb tutta da Aem. I debiti al pubblico, i soldi al privato. Non solo: a pagare lo scambio è di fatto Aem, che sgancia 37 milioni di euro a Scaglia e Micheli per avere Metroweb e poi versa loro altri 240 milioni, sottoscrivendo un prestito obbligazionario convertibile in azioni e.Biscom.

I due maghi prendono i soldi così incassati (277 milioni) e li girano a Aem per impadronirsi di Fastweb. Neanche Totò avrebbe fatto di meglio. Negli anni seguenti, Metroweb nuota nei debiti e alla fine, nel 2006, il comune (intanto come sindaco è arrivata Letizia Moratti) la vende. Sottoprezzo, a una strana società lussemburghese, la Stirling, che poi si scoprirà molto vicina agli uomini Fastweb. Fastweb invece cresce e guadagna. E si permette qualche generosità: Stefano Parisi (il city manager del comune) nel 2004 diventa amministratore delegato e direttore generale della società. E Scalpelli (l’assessore amico) già dal 2001 passa a Fastweb come direttore delle relazioni esterne. Storie milanesi, così incredibili da essere vere.

Nel 2007, Scaglia annusa che è tempo di mollare: si fa sotto Swisscom, valuta Fastweb 3,7 miliardi di euro e lancia un’opa amichevole sull’azienda, offrendo 47 euro per azione. L’ingegnere cede il suo 19%, incassa e realizza il suo quarto successo. Diventa ricchissimo e inventa il suo ultimo giocattolo, la web-tv platform Babelgum. Poi, in un paio d’anni, le azioni vendute crolleranno a 20 euro e Fastweb perderà più del 50% del suo valore, ma ormai il colpo è fatto. Ora scopriamo che una bella fetta dei ricavi della società erano realizzati con operazioni illegali, evadendo l’Iva per 400 milioni, con strani amici calabresi di Isola di Capo Rizzuto. Una straordinaria storia italiana di successo si rivela una storia italiana e basta.