martedì 30 settembre 2008

UGUALE PER TUTTI: La fine della democrazia d’opinione#links

UGUALE PER TUTTI: La fine della democrazia d’opinione#links

Riforme, Di Pietro incalza Napolitano - "Non basta dire voletevi bene"



La Repubblica
30 settembre 2008


ROMA - Antonio Di Pietro insiste. E torna a puntare il dito contro Giorgio Napolitano e i suoi inviti al dialogo tra maggioranza e opposizione. "Il Capo dello Stato dice cose giuste, ma un po' ovvie nel senso che dice amatevi e voletevi bene. Questo è un comportamento da papista, deve fare qualcosa di più" dice l'ex pm che definisce le sue parole "non un rimprovero ma un caldo invito".

Il leader dell'Idv, ai microfoni di Sky Tg24, snocciola i campi d'intervento del presidente. Dalla Rai, alla Corte Costituzionale. Di Pietro spiega: "In questi giorni in Parlamento deve nominare il giudice della Corte costituzionale. Chi è il garante della Costituzione? Il capo dello Stato ed è inutile che ci dica di volerci bene. Imponga il suo ruolo per far nominare il giudice della Corte Costituzionale".

Poi tocca a viale Mazzini e alla presidenza della commissione di Vigilanza, da tempo teatro di un duro scontro che ne impedisce il funzionamento. Anche in questo caso, incalza Di Pietro, Napolitano dovrebbe fare sentire la sua voce. "La commissione non c'è, perché i partiti litigano su chi dovrebbe essere il presidente, anzi, litigano sul fatto che un esponente dell'Italia dei valori non deve essere il presidente", taglia corto Di Pietro.

Ed è a fronte di questa situazione che il leader dell'Idv invoca l'intervento di Napolitano: "Ha il dovere di far funzionare un organo costituzionale, è inutile che dica di volersi bene. Imponga ai presidenti di Camera e Senato che si faccia una riunione permanente, che non si esca dall'aula fino a che non si è risolto questo problema".

UGUALE PER TUTTI: La facoltatività dell'azione penale

UGUALE PER TUTTI: La facoltatività dell'azione penale

Parlamento: rifugio per delinquere

Eboli, la chiesa (nuova) di S. Bartolomeo

di Luigi Morsello

La prima notizia sulla chiesa parrocchiale di S. Bartolomeo è del giugno 1179, dove in un documento si legge che Benincasa, Abate del Monastero della SS. Trinità di Cava, compra una casa “in parrocchia Sancti Bartolomei”. Istituita la Collegiata di S. Maria della Pietà, la parrocchiale fu annessa alle dipendenze della stessa, come quasi tutte le parrocchie di Eboli. Nel 1654, la Parrocchia di S. Caterina (l’attuale chiesa di S. Giuseppe) fu soppressa e unita a S. Bartolomeo.
La chiesa di S. Bartolomeo era ad una sola navata con l’altare maggiore e due cappelle laterali, una per lato. Era posta all’incrocio degli scaloni che portano il nome “Salita S. Bartolomeo” con via Roma, proprio sulla destra di chi sale.
Nel luglio 1917, mons. Grasso, arcivescovo di Salerno, visita la parrocchia dove vi ammira sull’altare il quadro della Madonna della Pace, ed annota che quest’opera è di un elevato valore artistico. Ma sia la chiesa sia le opere d’arte, furono tutte distrutte dai bombardamenti aerei del 1943. Si salvò solo un antico busto piuttosto tozzo e ruvido di S. Bartolomeo in pietra.
La nuova chiesa di S. Bartolomeo, fu costruita ex novo dove prima della guerra v’era il campo sportivo. Con rito religioso il tempio fu solennemente benedetto l’8 dicembre 1957, e il 17 dicembre fu assegnato a don Teodoro Rossomando. Nel nuovo territorio parrocchiale vi è anche la cappella di S. Maria del Soccorso.
Il 29 novembre 1965, nella chiesa di S. Bartolomeo, il signor Bernas Zdzistaw, invitò l’amico cardinale Carlo Wojtyla, Arcivescovo Metropolita di Cracovia in Polonia, futuro papa Giovanni Paolo II, ad amministrare alle sue figliole il Sacramento dell’Eucarestia. A causa del sisma del 1980, la chiesa subì danni alla parte superiore dell’ingresso e varie lesioni in tutta la struttura. Chiusa al culto, è stata riaperta l’1 giugno 1999. Dall’8 luglio 1986, regge la parrocchia mons. Fernando Sparano.
Nel 1957 chi scrive c’era, abitava ed abita ancora alle spalle della nuova chiesa. Posso dire di averla vista costruire.
A lavoro finiti emerse una chiesa di un nuovo stile che rompeva col passato. Era uno stile severo, moderno ma non eccessivamente, con altissime arcate, tetti a botte rivestiti di materiale impermeabile.
Sotto le arcate subito le rondini (avete notato che non se ne vedono quasi più ?) iniziarono a costruire i loro nidi.
A lato un campanile altissimo e stretto, di forma quadrata, sembrava stare su per scommessa.
L’interno spoglio, scarno, quasi ad invitare alla meditazione ed alla spiritualità.
Naturalmente, ho conosciuto il sacerdote titolare don Rossomando, come conosco l’attuale don Sparano.
Pian piano almeno io mi abituai a quello stile spoglio e, ripeto, severo, ed iniziai a caprine l’intima essenza.
Nel 1967 mi allontanai da Eboli per lavoro, restandone fuori per quasi 40 anni, ogni anno vi facevo ritorno per le ferie estive.
Nel 1980 ci fu il catastrofico terremoto che colpì l’Irpinia e lambì anche Eboli.
Non so descrivere la mia sorpresa nel constatare che quella torre campanaria, della chiesa di S. Bartolomeo, era ancora lì, ritta, eretta, a perenne sfida del pensiero dell’uomo, protesa a toccare il cielo, l’infinito, e ad invocare Dio.
Mi fu detto che non aveva subito danni, restò lì per un bel po’ di anni.
Poi accadde l’imprevedibile: doveva essere abbattuta perché lesionata !
Oggi non è più possibile verificare se le gravi lesioni fossero veramente tali e se esistessero veramente.
Certo è che il campanile era rimasto lì, impavido, proteso verso il cielo, ancora per molti anni.
Bene, fu demolito ma, che strano, non fu ricostruito !
Feci altre domande e mi fu detto: per costruire l’oratorio.
Ma non erano soldi, finanziamento statali per il terremoto ?
Se si, come si è potuto, anziché ricostruire, identico, il campanile, costruire un oratorio che prima non esisteva ?
Ci si fosse limitato all’oratorio, invece no, occorreva ‘ritoccare’ la facciata della chiesa: detto fatto !
Adesso la chiesa ha:
1) l’oratorio;
2) una nuova facciata,
ma non ha il campanile nè, ovvio, le campane.
Come ovviare ? Semplice: un impianto di diffusione sonora, con trombe sulla cupola centrale e voilà il gioco è fatto.
Però dell’antica chiesa moderna non rimane più nulla.
E a me è passato il desiderio di entrarci.
Pubblico due immagini, prima della cura (in alto) e dopo la cura (n basso).
Ammirate lo scempio.

Rifiuti in Campania, si estende la rivolta



ROBERTO FUCCILLO
LA REPUBBLICA
30 settembre 2008


NAPOLI - Chiaiano ieri sera era di nuovo in strada. Assemblea popolare, all'ormai famosa rotonda "Titanic", il punto da cui parte la strada per la discarica. Nel frattempo in Irpinia i sindaci dell'area del Formicoso schieravano i loro Consigli comunali davanti al sito della prevista discarica in zona, per protestare contro la presa di possesso dell'area da parte dell'esercito. Non è un buon clima per Silvio Berlusconi, che sarà di nuovo domani a Napoli per fare il punto sulla emergenza rifiuti. A Chiaiano, dopo gli incidenti di sabato sera, ieri i comitati di lotta sono tornati in strada, bloccando il traffico. Era stato infatti considerato una provocazione il persistente diniego all'ingresso in discarica di una delegazione nella quale il sindaco di Marano, Salvatore Perrotta, voleva includere tecnici di sua fiducia. La risposta era stata la stessa di sabato: nel sito di interesse strategico nazionale entrano solo le istituzioni. Alla fine Perrotta ha preannunciato di voler nominare assessori due dei tecnici, Franco Ortolani e Giovan Battista de Medici.

Intanto i tempi dell'impianto slittano. A fine giugno Guido Bertolaso aveva annunciato che i primi conferimenti di spazzatura nella discarica non si sarebbero avuti prima di novanta giorni, ovvero in questo periodo. Ora si parla di "non oltre due mesi da adesso" per il primo camion e "non oltre quattro mesi" perché l'impianto sia a regime. Ciò non toglie che il quartiere resti in rivolta. Rivendicando come "parte della nostra comunità" anche quella trentina di manifestanti equipaggiati di caschi che hanno dato il via agli scontri di sabato sera e sui quali la Digos sta completando le identificazioni per procedere alle denunce. E caschi e petardi di cartone potrebbero essere la coreografia da portare in piazza domani davanti al premier. C'è anche un partito, l'Italia dei Valori, che ormai fiancheggia la protesta: un suo deputato Franco Barbato, è costantemente in piazza con i comitati, un documento del partito afferma che "il numero di discariche e termovalorizzatori previsto nel piano del governo appare totalmente sovradimensionato", Antonio Di Pietro continua a denunciare che l'emergenza rifiuti, fuori dal centro di Napoli, non è affatto terminata. Il tutto mentre il sindaco di Napoli, Rosa Russo Iervolino, dopo aver ottenuto 60 milioni di opere nell'area, specie per il Parco dei Camaldoli, tenta di sdrammatizzare: "Le reazioni dei cittadini sono dovute a paure per qualcosa che non deve far paura".


Intanto in Alta Irpinia si riaccendono gli animi, nell'area del Formicoso, per la prevista discarica da circa 2 milioni di tonnellate. Un impianto già oggetto di numerose proteste, fra cui una manifestazione-concerto ad agosto con Vinicio Capossela. Ieri mattina l'esercito si è presentato all'alba, ha preso possesso del sito e lo ha recintato con filo spinato per dare il via ai carotaggi sui suoli. I cittadini del Comune più vicino, Andretta, si sono recati davanti al sito, dove sono stati raggiunti da sindaci e esponenti di un'altra decina di Comuni della zona. "Perché questa accelerazione? - lamentava il sindaco di Andretta Angelantonio Caruso - Siamo stati presi in giro, continueremo a combattere". La lotta potrebbe assumere varie forme: già si parla di una lettera a Giorgio Napolitano e di una discesa dei sindaci a Napoli, domani, per presentarsi in catene a Berlusconi. E giovedì Provincia e Comuni hanno indetto uno sciopero generale.



I PADRINI RICOSTITUENTI



Marco Travaglio
Ora d'aria
L'Unità
29 settembre 2008


Ora d'arial'Unità, 30 settembre 2008Al Tappone ha voluto festeggiare il suo 72° compleanno nel solco della tradizione: raccontando balle. Ha fatto la solita lista di processi a suo carico, esagerando un po’ (“100 procedimenti, 900 magistrati che si sono occupati di me e del mio gruppo, 587 visite della polizia giudiziaria, 2500 udienze, 180 milioni di euro per le parcelle di avvocati e consulenti”) e senza rendersi conto che anche un decimo di quelle cifre in qualunque altro paese avrebbe catapultato il premier, se non in galera, almeno fuori da Palazzo Chigi. Ha ripetuto di essere “sempre stato assolto”, mentre ha avuto 6 prescrizioni perché lui stesso ha dimezzato i termini di prescrizione (controriforma del falso in bilancio e legge ex-Cirielli) e 2 assoluzioni perché “il fatto non costituisce più reato” in quanto lui stesso l’ha depenalizzato (sempre il falso in bilancio). Ha raccontato che la legge Alfano è “comune ad altri Paesi europei”, mentre non esiste democrazia al mondo che preveda l’immunità per il premier (Grecia, Portogallo, Francia e Israele la contemplano solo per il capo dello Stato). E s’è dimenticato di spiegare come mai, appena passato il Dolo Alfano, il suo avvocato on. Niccolò Ghedini annunciò che lui non l’avrebbe usato perchè voleva essere assolto, mentre ora pretende di applicarlo pure al coimputato Mills con la sospensione urbi et orbi del processo.

Per fortuna esiste ancora un giudice a Milano, anzi parecchi: per esempio quelli del processo Mediaset (D’Avossa, Guadagnini e Lupo), che hanno accolto la questione di incostituzionalità dell’Alfano proposta dal pm Fabio De Pasquale, inoltrandola alla Corte costituzionale perché la porcata venga dichiarata illegittima. Cioè nulla. I testi di De Pasquale e del Tribunale, sono la più plateale smentita alle balle del Cainano, sulla scorta di quel documento eversivo che è la Costituzione. Secondo il pm, l’Alfano la viola in quattro punti.
1) Se l’art. 3 statuisce l’eguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge e dunque l’art.112 prevede l’azione penale obbligatoria, non si vede come si possano sospendere i processi a carico delle 4 alte cariche dello Stato senz’alcun vaglio sulla gravità dei reati commessi né alcun filtro sull’opportunità di una scelta tanto pesante. Già bocciando il lodo Maccanico-Schifani, la Consulta aveva contestato il carattere generale e automatico della norma, ma Alfano se n’è infischiato e l’ha riproposta tale e quale.
2) Per l’art. 136, le leggi dichiarate incostituzionali sono nulle, dunque non si possono ripresentare: nullo lo Schifani, nullo anche l’Alfano.
3) La figura delle 4 “alte cariche”, per la nostra Costituzione, non esiste. Esse hanno diverse fonti di legittimità:il presidente della Repubblica è eletto dal Parlamento in seduta comune più i presidenti di Regione; i presidenti delle Camere sono eletti dalle Camere; il premier è nominato dal capo dello Stato. Accomunarli nello stesso calderone impunitario non ha alcun senso.
4) Per derogare al principio costituzionale di eguaglianza, occorre una legge costituzionale: infatti sono articoli o leggi costituzionali a stabilire trattamenti speciali per ministri, capo dello Stato, giudici costituzionali e parlamentari. L’Alfano è una legge ordinaria, dunque non vale.

De Pasquale cita i lavori della Costituente, dove nel 1947 si discusse se immunizzare il Presidente della Repubblica (non certo quelli del Consiglio o delle due Camere) per reati comuni commessi fuori della sua funzione. L’on. Bettiol la propose, ma fu bocciato a larga maggioranza. Calosso obiettò: “Non vedo la necessità di costituire al Capo dello Stato una posizione speciale. Abbiamo una magistratura che è sovrana ed è uno dei poteri dello Stato… Persino presso certi popoli coloniali è possibile chiamare dinanzi al giudice il governatore”. Il grande Mortati rivelò: “Si è omessa intenzionalmente ogni regolamentazione della responsabilità ordinaria del Presidente. E’ una lacuna volontaria della Carta costituzionale”. Il presidente dell’Assemblea, Meuccio Ruini, tagliò corto: “Meglio una lacuna che un privilegio troppo grande per il Presidente, il quale è sempre cittadino fra i cittadini, anche se ricopre il più alto ufficio politico. Non ammetterei che per 7 anni il Presidente della Repubblica non rispondesse alla giustizia del suo Paese”. Altri tempi, altri padri costituenti. Poi arrivarono i padrini ricostituenti a spiegarci che la legge è uguale per tutti, tranne quattro.

Il fascismo del vicino è sempre più nero



MICROMEGA
25 settembre 2008

Leggo con un misto di irritazione e di irritazione le frasi furbissime con cui il direttore di Famiglia Cristiana don Antonio Sciortino, nello scritto pubblicato da MicroMega, mimetizza le proprie responsabilità (e quella della Chiesa) in merito alla deriva reazionaria del nostro Paese.


Denunciare le tendenze fascistoidi del governo Berlusconi senza ricordare che in campagna elettorale se ne era sostenuto l’avvento prodigioso (contro l’alleanza di Veltroni con Pannella) è un insulto all’intelligenza dei lettori, dei quali si dà per scontata la labilità mnemonica, e per persa l'energia di giudizio.


Costretto poi a tracannare il ricino di insulti che i media berlusconidi riservano sempre a chi fa le pulci al capoccia, don Sciortino, gli occhioni spalancati e sorpresi di chi ha vissuto finora in chissà quale iperuranio, invoca veemente il diritto all’opinione diversa, alla critica, al diritto di replica. Senti senti. Nel 2001, lo stesso don Sciortino disse: "Ben venga la sospensione di Satyricon".


Era questo il modo con cui, all’epoca, don Sciortino contribuiva a “stimolare il dialogo”, ad “aumentare il tasso di democrazia di opinione nel Paese”, a togliere “il coprifuoco alle idee”, a evitare il rischio di “scivolare verso una forma oligarchica e autoritaria”. Sono cose che succedono, quando si scambia per giornalismo la Propaganda Fide.


Nel frattempo, è il 2008: un po' tardi, per accorgersi che la bibbia di Berlusconi ha solo 7 comandamenti.
Daniele Luttazzi

Lampi nel buio



Salvatore Borsellino

MICROMEGA

29 settembre 2008

Da 16 anni, dal 19 luglio del 1992, i manovratori delle luci hanno fatto calare le tenebre attorno alla scena della strage. Sono rimasti solo i riflettori accesi sul numero 19 di via D'Amelio. Con una luce forte, accecante, in maniera che gli occhi, colpiti da quella luce, non riescano a distinguere quello che succede attorno, in mezzo alle tenebre.
Buio sul castello Utveggio, su via dell'Autonomia Siciliana, buio sul golfo di Palermo, sull'Arenella, sull'Acquasanta, le tenebre coprono tutto, si può solo sentire ogni giorno, alle 17, il suono delle sirene che arriva da via dell'Autonomia Siciliana, le macchine blindate che sbucano d'improvviso da quelle tenebre in una via che dovrebbe essere sgombra, dove dovrebbe essere vietato fare sostare le macchine e che invece ne è tanto piena che, una volta entrati, se ne può uscire solo a marcia indietro.
Ogni giorno, alla stessa ora, il giudice scende dalla macchina lasciando la sua borsa di cuoio sul sedile posteriore, deve solo suonare il campanello della casa di sua madre e dirle di scendere perché deve accompagnarla dal cardiologo.
Tutti gli uomini e l'unica donna della sua scorta scendono insieme a lui e gli si fanno attorno, non hanno che il loro corpo per proteggerlo. Il giudice suona il campanello e non si capisce se riesce a pronunciare qualche parola prima che l'esplosione di centinaia di chili di tritolo, anzi di Semtex, l'esplosivo usato dai militari, scateni l'inferno.
Antonino Vullo, l'autista della macchina del giudice, è restato dentro l'auto, sta facendo la manovra per essere pronto a ripartire appena il giudice ritornerà tenendo per il braccio la madre. Un'onda di calore lo sbalza all'indietro ma la macchina è blindata e resiste all'onda d'urto.
Ogni giorno, alla stessa ora, scende ferito e intontito dalla macchina e camminando sente sotto i piedi delle cose molli, sono i pezzi dei suoi compagni, cammina con i piedi in mezzo alle pozzanghere, è il sangue dei suoi compagni, del suo giudice, insieme ai quali, da allora, continuerà a desiderare di essere morto per non dovere rivivere ogni giorno ed ogni notte, nei suoi terribili sogni, sempre la stessa scena.
Il giudice viene tagliato in due, il troncone del suo corpo viene sbalzato tra quel che rimane della cancellata e la facciata crollata del palazzo. Dei corpi dei ragazzi che lo proteggevano non rimane quasi nulla, una mano vola ogni giorno in alto, in una sequenza senza fine, e si ferma su quello che è rimasto su un balcone del quinto piano.
La madre del giudice sa che è scoppiata quella bomba che tutti sanno, da due mesi, servirà per eliminare, dopo l'altro giudice, anche suo figlio, ma, per pietà, il suo cervello le fa credere che siano scoppiate le tubature del gas ed allora, a piedi nudi, corre per le scale, cerca di arrivare all'esterno, scende per quattro piani in mezzo alle macerie, alle vetrate distrutte, ma arriva giù senza un graffio. Forse suo figlio, prima di andare via per sempre, la prende in braccio e la porta giù, dolcemente e, quando passa vicino al suo corpo, le chiude gli occhi per non farle vedere quello che è rimasto di lui, quello che è rimasto di Emanuela, di Agostino, di Claudio, di Vincenzo, di Walter. In ospedale, dove la porta un pompiere che la raccoglie dalle braccia del giudice, dirà di non avere visto niente di quell'inferno che c'era davanti al numero 19 di via d'Amelio, di non avere visto il corpo di suo figlio, di non avere visto il sangue che riempiva la strada
Ogni giorno alla stessa ora, qualcuno, dal Castello Utveggio, vede distintamente il giudice che sta per premere il pulsante del citofono e preme il pulsante del telecomando che scatena l'inferno, il castello ora è immerso nelle tenebre ma da lassù l'ingresso del numero 19 di via D'Amelio si distingue chiaramente, illuminato dalla luce accecante dei riflettori ed è facile sincronizzare il comando al momento in cui viene premuto il campanello e non lasciare scampo al giudice ed agli uomini della sua scorta.
Ogni giorno, alla stessa ora, il Cap. Giovanni Arcangioli si avvicina alla Croma blindata del Giudice e prende la borsa di cuoio che contiene l'agenda rossa, o è qualcuno a porgergliela, in mezzo alle fiamme ed al fumo non si distingue bene, ma poi si allontana con passo sicuro, guardandosi intorno, verso via dell'Autonomia Siciliana dove c'è qualcuno ad aspettarlo Quell'attentato è stato preparato anche per potere avere in mano quell'agenda.
Nell'allontanarsi dalla macchina calpesta gli stessi pezzi di carne, lo stesso sangue che ha calpestato l'agente Vullo, ma dal suo viso non traspaiono emozioni, forse ha un preciso incarico da compiere, è come essere in guerra, e in guerra le emozioni devono essere controllate. Arriva in Via dell'Autonomia Siciliana ma qui le luci dei riflettori che illuminano la scena della strage non arrivano, c'è il buio, il buio assoluto e non si riesce a vedere a chi il Cap. Arcangioli consegna la borsa e chi ne estrae l'agenda rossa del Giudice. Vediamo solo, ancora sotto la luce dei riflettori, qualcuno che un'ora dopo riporta la borsa, ormai vuota di quell'agenda che potrebbe inchiodare gli assassini del Giudice e chi aveva interesse ad eliminarlo,, sul sedile posteriore della macchina blindata.
Sono passati 16 anni e ogni anno, al 19 di luglio, arrivano i padroni dei tecnici delle luci, portano delle corone, le appoggiano alle cancellate, si fanno fotografare, e intanto sorvegliano che tutto vada come previsto, che i riflettori siano sempre accesi con la loro luce accecante sul luogo della strage e che tutto intorno sia tenebra, che niente si riesca a vedere di quello che è successo, di quello che succede, intorno al luogo della strage.
Ma i tecnici delle luci possono controllare solo i riflettori, non possono controllare il cielo e ogni tanto, nel buio, qualche lampo arriva a squarciare le tenebre e lascia intravedere anche se solo per un attimo, quello che loro non vogliono farci vedere, quello che non dobbiamo, non possiamo vedere, non possiamo sapere perché su di esso sono fondati gli equilibri e i ricatti incrociati che tengono in piedi questa seconda repubblica, questo nuovo regime fondato sul sangue delle stragi del 1992.
Ecco un lampo che squarcia le tenebre. Sono le 7 del mattino del 19 luglio, in via Cilea, a casa del Giudice che è in piedi dalle 5, arriva una telefonata del suo capo, Pietro Giammanco. Non gli ha mai telefonato a quell'ora, e di domenica, non lo ha avvisato di un rapporto del Ros in cui si rivelava che era arrivato a Palermo un carico di tritolo per l'attentato al Giudice che ha potuto conoscere la circostanza per caso, all'aeroporto, incontrando il ministro Scotti, e che sui motivi di questa omissione con il suo capo, ha avuto un violento alterco. Non gli ha ancora concesso, da quando è rientrato da Marsala prendendo le funzioni di Procuratore Aggiunto a Palermo, la delega per condurre le indagini in corso sulle cosche palermitane e, in conseguenza, la possibilità di interrogare senza la sua espressa autorizzazione, pentiti chiave come Gaspare Mutolo. Ora, il 19 luglio, quando la macchina per l'attentato è già posteggiata davanti al numero 19 di via D'Amelio, gli telefona per dirgli che gli concede quella delega e gli dice una frase che, oggi, suona in maniera sinistra "così si chiude la partita". La moglie del Giudice, Agnese, lo sente urlare al telefono e dire "no, la partita comincia adesso" e lo stesso giudice, qualche tempo prima, aveva confidato al maresciallo Canale, che lo affiancava nelle indagini, che "in estate avrebbe fatto arrestare Giammanco perché dicesse cosa conosceva sull'omicidio Lima", dal recarsi ai funerali del quale lo stesso Giammanco venne dissuaso solo all'ultimo momento da un procuratore.
Ecco un altro lampo, è ancora il 19 Luglio e si vede il Giudice nella casa in cui si trasferisce in estate, a Villagrazia di Carini che invece di dormire per una mezzora, come è solito fare dopo aver mangiato, continua a fumare nervosamente tanto da riempire un portacenere di mozziconi, e intanto scrive sulla sua agenda rossa, poi prende la sua borsa di cuoio, vi mette dentro l'agenda e il pacchetto di sigarette, saluta i suoi, e parte con la scorta verso il suo ultimo appuntamento, quello con la morte che, dopo la morte di Giovanni Falcone, ha sempre saputo che sarebbe presto arrivata, tanto da continuare a dire a sua madre e a sua moglie "devo fare in fretta, devo fare in fretta"
Ecco un altro lampo e in mezzo alle tenebre che circondano il castello Utveggio si vede qualcuno in attesa, ecco che arriva una telefonata sul suo cellulare ed allora punta il binocolo sul portone al numero 19 di via d'Amelio, vede scendere il giudice dalla macchina blindata, lo vede alzare la mano verso il pulsante del citofono e allora preme un altro pulsante di un telecomando che stringe nella mano e subito si vede una colonna di fumo e si sente un boato ed allora, dopo avere osservato in mezzo al fumo, per un attimo, gli effetti dell'esplosione, prende il cellulare fa un numero e dice appena qualche parola. Poi il baleno provocato dal lampo finisce e tutto ripiomba ancora nelle tenebre.
Ecco un altro lampo, e si vede una barca nel golfo di Palermo, è piena di uomini, ma non sono persone qualsiasi, appartengono tutti ai servizi segreti così che le loro testimonianze potranno, dovranno essere tutte concordi. E' quasi l'ora dell'attentato e tutti sono in silenzio, sembrano attendere qualcosa. Poi si ode, attutito dalla distanza e dalla montagna un tremendo boato, e dalla parte di Palermo verso il monte Pellegrino si vede alzare una alta colonna di fumo e quasi subito dopo arriva una telefonata. Il giudice è morto, quel maledetto ostacolo sulla via della trattativa è eliminato. Dai telefoni cellulari sulla barca partono altre telefonate concitate poi il motore viene acceso e la barca riparte velocemente verso il porto.
Per chiunque, in Italia, sono passate dalle quattro alle cinque ore prima di sapere che il giudice era morto, che quella morte annunciata era arrivata, ma per chi stava su quella barca sono bastati solo centoquaranta secondi per sapere tutto. Ma ora il baleno provocato dal lampo è finito e tutto è ripiombato nelle tenebre.
Un altro lampo, ma stavolta è troppo di breve durata per capire se è veramente Bruno Contrada quell'uomo che si aggira in via D'Amelio subito dopo la strage come due capitani del Ros, Umberto Sinico e Raffaele del Sole affermano di avere saputo dal funzionario di polizia Roberto Di Legami che riportava a sua volta una relazione di servizio, poi distrutta, di alcuni agenti accorsi sul lugo della strage.
Ancora un altro lampo che squarcia per poco tempo le tenebre. È la fine di Giugno e si riesce a vedere Vito Cianciminio che consegna al Cap. De Donno e al Col. Mori un foglio scritto a mano, il papello di Riina, con le dodici richieste del capo della cupola per fermare l'attacco al cuore dello Stato.
Un altro lampo, è il 1 di Luglio e si vede il giudice al ministero, davanti alla porte di Mancino, per un incontro a cui è stato chiamato dallo stesso ministro mentre stava interrogando Gaspare Mutolo. Il giudice ha annotato questo appuntamento nella sua agenda: 1 Luglio, ore 19: Mancino, ma la luce provocata dal lampo si esaurisce e non riusciamo a vedere chi c'e' dietro quella porta ad aspettarlo e che cosa gli viene detto. Dall'agitazione del giudice quando torna ad interrogare Mutolo si può solo immaginare che gli viene detto che lo Stato ha deciso di aderire alla richieste contenute nel papello e la reazione del giudice che deve essere stata violenta e sdegnata tanto da non lasciare spazio, per concludere la trattativa, ad altra possibilità se non quella di eliminarlo, ed eliminarlo in fretta, ma le tenebre sono troppo fitte per vedere qualcosa e solo Mancino ci potrebbe dire, se guarisse improvvisamente dalle sue amnesie, che cosa accadde veramente in quella stanza.
Altrimenti potremo solo aspettare, se mai avverrà, che una serie continua di lampi squarci le tenebre ed allora potremo veramente vedere quali e quanti mani, tra quelli che oggi godono i frutti dei nuovi equilibri raggiunti, siano lorde del sangue delle stragi del 92 e di quelle altre stragi che, nel 93, furono necessarie prima che la trattativa venisse conclusa.

Berlusconi: oltre il reality



MICROMEGA
29 settembre 2008


In un giorno di ordinaria follia, ci imbattiamo in un matrimonio vip: i nubendi, lei deputata lui ricco imprenditore, naturalmente campano. Ospiti variegati: da starlette del Grande Fratello a riccastri lampadati e allampanati. Infine, alcuni sfigati, spettatori di passaggio, come in un parco dei divertimenti.
Il testimone della sposa racconta barzellette su Silvio Berlusconi, facendo ridere a crepapelle lo stuolo di persone adoranti che lo circondano, assediandolo, in attesa che il suo sguardo li benedica e un gesto qualsiasi delle mani, li faccia uscire dall'anonimato. Le donne sono le più coinvolte, come in trans, sembrano cortigiane isteriche: fasciate in abiti da sera o seminude, sarebbero perfette comparse in un film dal titolo "Fenomenologia di un cabarettista" o replicanti uscite da "Il divo", in una di quelle feste anni '80 organizzate da Cirino Pomicino e immortalate da Sorrentino. Lui, il testimone della sposa, è Silvio Berlusconi che racconta aneddoti su se stesso, conquistando, letteralmente, gli astanti: "Vedete come sono democratico?", sembra dire, "racconto addirittura le barzellette che i comunisti fanno circolare sul mio conto, con la differenza che loro non hanno il coraggio di prendermi in giro... invece io sì!". Cita la moglie Veronica "con cui ", dice, "non sono più sposato": stupore generale, interrotto dalla puntuale spiegazione: "Da quando è nato il nostro ultimo nipotino, bellissimo (naturalmente, ndr), lei non mi parla più al telefono: mi passa direttamente lui che mi fa i versi". Familismo amorale.


Lo guardo. Osservo la sua maschera, la pelle è coperta da strati di crema colorata e sembra gonfio: guarda chi lo circonda senza vedere nulla, se non la propria immagine riflessa. Se non fosse chi è, sarebbe un simpatico narciso; essendo chi è, sprigiona il potere che non deve chiedere nulla, un equivoco vivente: tratta tutti come propri 'fedeli' da cui attendersi un'adesione o un atto di fede, per l'appunto. Dalla squadra di 'gorilla' che lo segue torva e come sotto l'effetto di ipnotici, ai 'suoi' deputati, alla gente comune che ne è rapita: tutti fanno parte della corte del presidente, senza un'identità né un nome. Confonde con effetti speciali: ai giornalisti "embedded" che gli chiedono di Alitalia, lui risponde, incredibilmente, "tutta colpa dei comunisti se Alitalia fallisce" (allora lo dice davvero! Non è una leggenda!). Tutti, divertiti, scattano foto. Io, sempre più depresso.


Credo di toccare il fondo quando spunta il mitico Apicella e i due si mettono a cantare, una dopo l'altra, canzoni d'amore in italiano, in napoletano, in francese, mentre le donne, come in un concerto degli U2, si strappano i capelli, ballando ai suoi piedi. Orrore. A una, la più bella, Silvio si avvicina, per sussurrarle qualcosa nell'orecchio. Interviene la sposa: non può tagliare la torta nuziale senza il "presidente", né fare il brindisi finale.

Sono confuso: sembra che tutti abbiano dimenticato che un tempo, quello, doveva essere un matrimonio. La sposa chiede a una bellissima invitata cosa gradisce per dolce il "presidente". L'altra risponde: "Nulla, se non un piatto di frutta fresca". Io chiedo a un'amica che sa tutto: "Chi è la bellissima?" La risposta: "Non lo sai? È la donna di Berlusconi...". Io rispondo che non ci credo.


Sento tutto il degrado del mio tempo: vorrei riderci su, drogarmi dello stesso eccitamento che sento nell'aria e invece mi sale una nausea fisica. Qualcuno mi dà dell'ipocrita moralista. Io mi sento solo in colpa, per esserci: non essere presenti, non poter testimoniare, a volte, è l'unica salvezza. Il giorno dopo, chiedo al mio analista: mi dica se c'è qualcosa che non và, se non sia io infinitamente irrisolto. Lui mi rassicura: conservi sempre questa sensazione di schifo. La salverà.

Post scriptum (che non c'entra nulla o forse sì):
Gita fuori porta con una coppia di amici: lui è un assistente di volo/futuro cassaintegrato Alitalia, fan di Grillo, ha il suo stesso stile da 'telepredicatore'. Ci chiede cosa abbiamo capito dell'affare Alitalia, se ci abbiamo capito qualcosa. Noi, in estrema sintesi, rispondiamo che le politiche dissennate hanno creato privilegi su privilegi. Che ora la compagnia di bandiera sta implodendo, che la Cai è un'operazione mafiosa ma... vogliamo parlare dei fallimenti della sinistra e dell'altra casta, quella dei sindacati? Di chi è la colpa? Non è forse di tutti? Noi, gli diciamo, non individuiamo un solo innocente... Lui: "Ma i sindacati fanno il loro mestiere. Negoziano, contrattano... (mentre Berlusconi gliela mette in quel posto! ndr): l'unica mafia è quella della Cai".
Sempre la stessa storia. Non so più da cosa sia meglio fuggire. Esserci o non esserci? Vorrei venir meno. Per un po'.
Cameriere per caso

Berlusconi al Quirinale, inciucio Massimo



MICROMEGA
29 settembre 2008


Si può sperare che non sia vero. Se è vero...


La Repubblica riporta, in parte tra virgolette, un’opinione di D’Alema. La prima parte è analitica: Berlusconi gestisce il Parlamento come un’azienda, pensa di poter comandare solo lui. Considera diritto dell’opposizione solo la sua possibilità di dichiararsi d’accordo con lui. E’ difficile poter dialogare con un soggetto che concepisce solo il monologo.
Sono cose note da molto tempo ma fa piacere che anche D’Alema, dopo lunga riflessione, ci sia arrivato.


La seconda parte è sintetica e trae dalla prima una conclusione sorprendente.
Berlusconi dunque è fatto così. Ma se ci fosse il presidenzialismo, Berlusconi potrebbe aspirare al ruolo e l’esistenza di pesi e contrappesi gli consentirebbe di governare meglio.


Speriamo che la stranezza della conclusione dipenda tutta dalla fretta del giornalista. Se invece il pensiero è stato riportato correttamente sono dolori. Nostri, è ovvio.


Intanto ringraziamo il cielo che non ci sia il presidenzialismo. Mancando questa condizione si può sperare che anche D’Alema ritenga che nelle condizioni attuali (a Costituzione invariata) il ruolo di presidente della repubblica sia precluso al monopolista. Sarebbe simpatico sentirlo dire senza ambiguità.


Motivo di timore è la logica concessiva: l’esistenza di pesi e contrappesi sarebbe fattore capace di rendere accettabile l’eventualità di un monopolista televisivo al vertice dello stato e, in subordine, di un pluriimputato per corruzione della magistratura alla presidenza del Consiglio superiore della magistratura.
Ma ancora più preoccupante è il doppio carattere della logica concessiva. D’Alema non valorizza l’esistenza di pesi e contrappesi come possibili impedimenti a un perfezionamento temibile dell’anomalia istituzionale che ha inquinato la politica italiana. Gli piace invece immaginare che pesi e contrappesi diano all’anomalo la possibilità di governare meglio.


Uno dei maggiori capi dell’opposizione ha tolto l’anomalia italiana dall’orizzonte dei suoi pensieri e si preoccupa solo del fatto che possa governare bene.
Un antico detto dice: con un amico così non ha bisogno di nemici. Qui funziona bene il suo rovescio: con un nemico così Berlusconi non ha bisogno di amici.

Pancho Pardi

Berlusconi for President


MICROMEGA
29 settembre 208


D’Alema ritiene che “Se si arrivasse a un sistema presidenziale, Berlusconi potrebbe concorrere alla massima carica della Stato perché ci sarebbero quei pesi e quei contrappesi che consentirebbero anche a lui di governare meglio il Paese”.


Cito da “La Repubblica” (29 settembre) che fa seguire alla pre-certificazione di D’Alema per l’eventuale candidatura al Quirinale, l’entusiastica approvazione di Bossi (“Noi lo voteremo”) ma poi prosegue con una contestuale notizia politica (stesso giorno, stesse ore): “Intanto Berlusconi lancia un minaccioso avvertimento in attesa che la Corte Costituzionale giudichi il Lodo Alfano 'Se non passasse, allora ci sarebbe da fare una profonda riflessione su tutto il sistema giudiziario e su tutto ciò che abbiamo visto accadere recentemente a Milano'. Una minaccia non da poco che altrove bloccherebbe la normale vita politica.
Restano perciò due domande inevitabili.

La prima: Quale leader politico candiderebbe spontaneamente il numero uno del Partito avverso, motivando con il fatto che se ci sarà il sistema presidenziale, tutto sarà garantito da pesi e contrappesi? Neppure Gandhi ha avuto un trattamento così signorile e pre-garantista dai suoi oppositori.
Spalanca le porte all’avversario prima ancora che si candidi e assicura sulla perfetta, equilibrata legge sul presidenzialismo prima ancora che quella legge ci sia. E’ un comportamento che sta tra l’imprudente e il profetico (“In verità vi dico che Berlusconi passerà dalla cruna dell’ago del Quirinale”) ma non ha niente di politico ed è privo di somiglianza con fatti e persone di ogni altra democrazia.

La seconda domanda è: Se la presidenza della Repubblica è un concorso per titoli, quali saranno i titoli che, data una buona legge che non esiste ma si può sempre sognare, qualificano Berlusconi come un buon candidato a cui persino l’opposizione può offrire una pre-certificazione?
Forse l’avere dichiarato il pluriomicida Mangano eroe nazionale? Forse la lunga e leale amicizia con Previti e Dell’Ultri? Forse il numero di imputazioni totalizzate o il numero di non condanne per prescrizione o per tempestivi cambiamento delle leggi? Forse per avere dato del “Kapo” all’eurodeputato tedesco Schultz o avere autorizzato l’eurodeputato Borghezio (alleato di governo) a esibirsi con i nazisti sulle piazze tedesche? O forse il conflitto di interessi che si fa sempre più vasto e radicato?

Urge risposta. Per esempio: E’ un equivoco del giornalista?
Però, se ciò che scrive “Repubblica” è vero, diremo in piazza, il 25 ottobre, al popolo Pd: “BERLUSCONI FOR PRESIDENT”?

Furio Colombo

Parole, parole, parole



Paolo Flores d'Arcais
MICROMEGA
29 settembre 2008


Walter Veltroni ha dichiarato che il governo Berlusconi sta “putinizzando” l’Italia.


Per questa affermazione, il segretario del Pd, nonché “Primo Ministro-ombra”, dovrebbe pagare i diritti d’autore alle manifestazione di Piazza Navona dell’8 luglio. Almeno nel riconoscimento morale che quella manifestazione, da Veltroni tanto ostacolata e vituperata, aveva visto con lucidità il senso del regime berlusconiano, col quale invece il Primo Ministro-ombra spensieratamente insisteva a voler dialogare.


In realtà il segretario del Pd non ha affatto cambiato posizione. La sua intervista è il classico specchietto per le allodole. Valga il vero: mentre Veltroni parla di Berlusconi come di un Putin all’italiana, il segretario ombra del Pd, lo skipper Massimo D’Alema, dichiara che nihil obstat (nulla osta, n.d.r.) a che il medesimo Berlusconi-Putin venga incoronato Presidente della Repubblica. E del resto Walter Veltroni, che i maligni considerano ormai il numero due del Pd, si è impegnato allo spasimo per togliere le castagne dal fuoco a Berlusconi-Putin sul caso Alitalia. La “soluzione” del caso Alitalia è un esempio da manuale del “tanto peggio tanto meglio”, visto che la “rapina” realizzata è esattamente la peggiore delle soluzioni possibili.


L’affermazione di Veltroni sul progetto putiniano di Berlusconi resterà senza conseguenze. È solo un po’ di retorica in vista della manifestazione indetta dal Pd per fine ottobre. Nel frattempo il dialogo non continua solo perché sprezzantemente rifiutato dal Putin di Arcore. Se le parole di Veltroni fossero più che un flatus vocis (un semplice suono, n.d.r.) il Pd starebbe già mobilitando i suoi militanti per il referendum proposto da Di Pietro e ogni giorno in Parlamento organizzerebbe l’ostruzionismo più estremo.


Tanto per cominciare.

Franz Liszt- Sogno d'amore

Il sesso over 70 scuote la Germania



Danilo Taino
Il Corriere della Sera
14 settembre 2008

Dibattito aperto dopo le scene esplicite di «Wolke Neun» che racconta le storie di passione fra tre pensionati

BERLINO (Germania) — Quello del sesso con le rughe era un tabù che aspettava soltanto di essere infranto. E' successo in questi giorni in Germania: al cinema e — all'improvviso — in tutto il Paese. Sesso nudo e crudo, in primo piano: un triangolo che si sarebbe potuto immaginare tra trentenni in carriera e che invece esplode tra due pensionati. In un'estetica esplicita, nuova.

«L'ultima frontiera della rivoluzione sessuale», ha commentato il quotidiano Die Tageszeitung sotto il titolo obamiano «Yes, we can». «Incredibile, oltraggioso, frivolo, liberatorio e magnificamente triste », ha replicato il settimanale Die Zeit. Obiettivo naturalmente centrato: il film «Wolke Neun» (Nuvola nove), nei cinema tedeschi da una decina di giorni, non ha impressionato solo la critica ed esaltato gli intellettuali, è subito diventato un'onda destinata a scuotere una società che invecchia e cerca un linguaggio nuovo per raccontarlo.

Nei primi tre giorni, il film è stato visto da più di 58 mila persone. Nonostante il tema difficile, ha già raggiunto il sesto posto al box office, superato solo da quattro produzioni americane e dalle fatine Winx. Un successo: spettatori in piedi ad applaudire alla fine delle «prime» a Berlino e Dresda, proprio come era successo quando il film era stato presentato alla Berlinale all'inizio dell'anno. E, riaccese le luci, la gente ne discute, soprattutto le donne.

La storia messa in scena dal regista Andreas Dresen («Catastrofi d'amore», «Un'estate sul balcone») è semplice. Inge (Ursula Werner) — una nonna che ha superato i 65 anni, da 30 sposata con Werner — cuce e rammenda per integrare la pensione. Quando va a casa del settantaseienne Karl (Horst Westphal) per provargli i pantaloni appena sistemati, è il colpo di fulmine: in pochi minuti i due sono abbracciati sul tappeto, via i vestiti, una passione incontenibile. Inizia il triangolo, che però mette in crisi la donna: Inge pensava di essersi ormai lasciata alle spalle una vita sentimentale e sessuale. Il senso di colpa la porta, nonostante la figlia le consigli di non farlo, a raccontare tutto al marito Werner (Horst Rehberg). Il finale sarà drammatico.

A essere scioccante non è tanto la trama quanto il ricorso a scene di sesso esplicite, realistiche, naturali tra corpi (tutti e tre, perché Inge continua ad amare anche Werner) che non sono belli, che hanno perso la lucidità e le proporzioni della giovinezza ma non il loro fascino. E' una riscrittura estetica che va contro le regole solite del cinema. «Chi vuole vedere una coppia di anziani grassi e rugosi che fanno sesso? Semplice, chiunque finalmente voglia vedere una love story realistica, appassionata e commovente», ha scritto il quotidiano popolare Bild. A lasciare poi un segno forte nella coscienza degli spettatori è la ribellione di Inge nei confronti delle aspettative della società, che la accettava sartina grigia e curva sull'ago ma non riesce nemmeno a immaginare il suo diritto alla passione. Che lei, invece, grazie all'incontro con Karl, rivendica.

E' uno spostamento di convenzioni che — qui sta il fatto notevole — gli spettatori sposano come se lo aspettassero da tempo. Suscita nei settantenni e nelle settantenni riflessioni, e forse desideri, non diversi da quelli che sollevano Angelina Jolie o George Clooney nei quarantenni, con — in più — la rivendicazione di un diritto finora negato. La Germania, insomma, si accorge di essere pronta a mettere sul tappeto quel che fino a ieri vi ha nascosto sotto (ma è così ovunque, in Occidente). Il tasso di natalità tedesco è tra i più bassi al mondo, la vita si allunga, la società è diventa anziana: Wolke Neun raccoglie la pressione di questa realtà e apre una porta per dire che di essa non si può più non parlare, anche nei dettagli all'apparenza più scabrosi. O, meglio, che scabrosi possono sembrare ai figli delle molte Inge, dei molti Werner, dei molti Karl: finora avevano pensato alla badante polacca per i genitori, all'eredità, alle noiose visite del fine settimana; ora devono rendersi conto — per quanto ciò possa turbare — che anche la Germania con i capelli grigi è alle prese con il sesso.

Il settimanale Stern ha dedicato una copertina all'argomento e ha raccolto l'opinione di Ulrike Brandenburg, della Società per la ricerca sessuale. A suo parere «in Germania è in atto una seconda rivoluzione sessuale » — trascinata dagli anziani e, perché no, anche dal Viagra — che vuole affermare, per ogni età, il diritto al «settimo cielo» (o alla settima nuvola come si dice in tedesco: di qui il titolo). Anzi, alla «Nuvola Nove», che per Dresen è una citazione da John Lennon ma significa anche fare due passi oltre la felicità di chi è ancora giovane.

L'Anm: «Alfano non vuole dialogo sulle riforme»



L'Unità
29 settembre 2008


Difficile fare una riforma della giustizia minimamente condivisa se si dice che non si terrà in ogni caso in nessun conto le opinioni dei magistrati. È questo, in buona sostanza, il ragionamento - e l'accusa indirizzata al Guardasigilli Angelino Alfano - che viene dal vertice dell'Associazione nazionale magistrati.
Luca Palamara, presidente dell'Anm, interviene ad un convegno sulla giustizia organizzato dai radicali. E fa notare che «se lo spirito con cui si affronta la riforma della giustizia è quello delle parole usate dal ministro Alfano al congresso delle camere penali, allora diventa molto difficile trovare un momento di confronto».

Per Palamara «pur nella diversità delle posizioni, il dialogo sulla riforma della giustizia è fondamentale». E da parte dell'Anm, assicura, «non esistono tabù su nessun argomento, ma la serenità- ribadisce- è un requisito importante per affrontare il dialogo». Serenità che, per ora, non c'è: se i toni del governo sono quelli del ministro Angelino Alfano, sottolinea il presidente del "sindacato" dei magistrati, il confronto diventa «difficile».

Cosa ha detto Alfano al dodicesimo congresso delle camere penali la scorsa settimana? Ha rassicurato gli avvocati penalisti che la riforma della giustizia si farà «perché il governo non intende fermarsi davanti ai veti dei magistrati». A cominciare dalla separazione delle carriere dei magistrati, e dalla riforma del Csm.

Con il plenum del Consiglio superiore della magistratura proprio questo martedì inizia ad esaminare le proposte di riforma del processo civile in discussione in Parlamento per riferirne al ministro Alfano.

Ne sono seguite una serie di interviste dello stesso ministro, su vari organi di stampa, volte a mitigare la durezza delle parole pronunciate davanti a un uditorio tanto compiacente sui proponimenti del governo di mettere i pubblici ministeri sotto il diretto controllo dell'esecutivo.

Ma altre indiscrezioni di stampa dicono che in effetti Niccolò Ghedini, avvocato e consigliere giuridico del premier Silvio Berlusconi sarebbe stato incaricato direttamente dal premier di lavorare in tandem con lo stesso Alfano per presentare la riforma costituzionale della giustizia in tempi strettissimi, addirittura entro ottobre.

Secondo quanto viene anticipato dallo stesso Ghedini il progetto prevederebbe interventi sulle intercettazioni, un ddl costituzionale per cambiare «dalle fondamenta» il pianeta giustizia, modifiche sulle carriere delle toghe, sul Csm, nei rapporti tra pm e polizia giudiziaria, sul sistema disciplinare per punire i giudici e sull'obbligatorietà dell'azione penale. Nessun intervento sarebbe previsto al momento sulla Corte Costituzionale. «Certo che se ci trovassimo di fronte a una declaratoria di incostituzionalità per una legge come il Lodo Alfano - aggiunge però Ghedini a questo proposito - che ha seguito in modo pedissequo proprio le indicazioni della Corte, ci troveremmo di fronte a una saldatura tra la Consulta e i magistrati».

E questo legame tra magistratura ordinaria e Corte costituzionale andrebbe troncato. È lo stesso premier a farlo capire sostenendo che il lodo Alfano «è necessario» in un «sistema giudiziario come il nostro». Perchè - detta il presidente nel Consiglio a Bruno Vespa nel nuovo libro "Viaggio in un'Italia diversa" che uscirà venerdì prossimo - nell'attuale sistema giudiziario «alcuni magistrati invece di limitarsi ad applicare la legge, attribuiscono a se stessi e al loro ruolo un preteso compito etico».

Nel nuovo libro-intervista Berlusconi attacca anche, direttamente, Nicoletta Gandus, presidente del Tribunale di Milano per la gestione del processo Mills che - lodo Alfano a parte - lo vedrebbe imputato. Di fronte ad «argomenti inoppugnabili qualunque giudice scrupoloso ed equanime avrebbe chiuso il processo. Non così la dottoressa Gandus», afferma Berlusconi. Le colpe della Gandus sarebbero per lui: aver negato «alla difesa tutti i testimoni a discarico ammettendo invece tutti quelli del pm». Due: aver accelerato i tempi del processo quando si era in piena campagna elettorale. Tre: l'aver accettato «inopinatamente» i nuovi termini di prescrizione. «Tutto ciò fece insospettire i nostri avvocati - dice Berlusconi - che alla fine vennero a sapere che la Gandus era ed è un'attivissima militante della sinistra estrema e che come tale ebbe a partecipare a tutte le manifestazioni di contrasto nei confronti del mio governo».

«E questo - sottolinea Berlusconi - è soltanto l'ultimo dei processi che mi sono stati cuciti addosso. In totale più di cento procedimenti, 900 magistrati che si sono occupati di me e del mio gruppo, 587 visite della polizia giudiziaria e della guardia di finanza, 2500 udienze in quattordici anni, più di 180 milioni di euro per le parcelle di avvocati e consulenti. Dei record davvero impressionanti, di assoluto livello non mondiale ma universale, dei record di tutto il sistema solare».

Nell'idea di giustizia di Berlusconi un giudice non deve essere soltanto imparziale. «Deve anche apparirlo». A lui, s'intende.

Del resto i legali del premier hanno già chiesto la ricusazione della giudice Gandus, senza attendere il Lodo Afano, sul quale per altro i giudici della Decima sezione del Tribunale di Milano - davanti ai quali è in corso il processo che vede imputati per corruzione in atti giudiziari Silvio Berlusconi e David Mills - scioglieranno la riserva sull'eccezione di costituzionalità presentata dal pm Fabio De Pasquale sabato prossimo.

La richiesta è quella di trasmettere gli atti alla Corte costituzionale e sospendere il processo per Berlusconi, ma non per l'avvocato Mills.

Moratti: via alla rivoluzione dei rifiuti


Andrea Senesi
Il Corriere della Sera
29 settembre 2008
Raccolta sotterranea dell'immondizia come a Stoccolma. Si parte da Santa Giulia. E a inizio 2009 riparte la raccolta dell'umido

Stoccolma ha sempre qualcosa da insegnarci. Ieri il ticket d'ingresso, prontamente importato in riva al Naviglio, ora i rifiuti. Raccolta pneumatica. Letizia Moratti — raccontano —, in trasferta qualche settimana fa nella capitale svedese, ne è rimasta estasiata. E ora non smette di ripeterlo ai suoi assessori: «Il futuro è questo». Più complicato da spiegare che da utilizzare, il sistema pneumatico. In sintesi: in ogni condominio spunteranno delle colonnine dove deporre i diversi sacchetti, secondo le buone consuetudini della differenziata. L'immondizia, poi, attraverso un reticolo di tubi e condutture sotterranei scivolerà in una centrale di raccolta per essere poi smaltita. Il tutto senza cassonetti né camion della nettezza urbana in giro per le strade. «Una vera rivoluzione che porterà a risparmi straordinari. Di uomini e mezzi. Ma con indubbi vantaggi anche sotto il profilo della pulizia e del decoro », sottolinea l'assessore Carlo Masseroli.

La raccolta pneumatica si farà, assicurano tutti. Anche perché la vuole il sindaco. Che, di ritorno appunto da Stoccolma, avrebbe voluto inserire il nuovo sistema già nel nuovo quartiere residenziale che si farà in via Olgettina. Niente da fare, lì le convenzioni già firmate con gli operatori non lo permettono. «In compenso i rifiuti "pneumatici" arriveranno a CityLife e a Santa Giulia», assicura Masseroli. Stoccolma, si diceva. Ma anche Barcellona. Dove il nuovo modello di raccolta è arrivato già con le Olimpiadi del '92 e si è poi piano piano allargato a buona parte della città. «Lo faremo nei quartieri che andremo a realizzare», conferma Maurizio Cadeo, assessore al Verde: Tant'è vero «che nel corso della settimana incontreremo Amsa proprio su questo tema».

Tutto bello, tutto facile? No. Perché ci sono almeno due problemi: l'elevato investimento iniziale (l'obiettivo di massima rimane quello di far ricadere i costi sugli operatori immobiliari), e la difficoltà nella raccolta del vetro. Milano prima città italiana, comunque. Piccoli esperimenti pioneristici si rintracciano qua e là, in giro per l'Italia. Per esempio a Velletri, dove un'importante banca aveva avviato la raccolta pneumatica della carta. Tentativi embrionali, quasi artigianali. Niente di organico, comunque. E a proposito di organico, a inzio anno dovrebbe (ri)partire, in tre zone della città, la raccolta dell'umido. Mentre si attende il futuro, l'immediato fa rima con passato.

RealScoop smaschera le celebrità che mentono



Alessandra Carboni
Il Corriere della Sera
29 settembre 2008

Una macchina della verità versione 2.0 per riconoscere le bugie di politici e vip

Un'immagine da un video su RealSccop in cui viene applicato l'indicatore di credibilità a un discorso di Sarah Palin
Quante volte, ascoltando le dichiarazioni di uomini politici e personalità pubbliche varie, viene il dubbio che quei bei discorsi siano infarciti di menzogne e falsità raccontate solo per accattivarsi il favore della gente o per nascondere reali e meno nobili intenzioni? Tante. Ed è per questo motivo, per soddisfare la curiosità di molti di sapere se - per esempio - le promesse del politico di turno sono solo bugie, che una start-up americana ha creato RealScoop, una community online dedicata a tutti coloro che amano i vip e le celebrità e seguono con interesse la vita di uomini della politica e personaggi di spicco, ma che la menzogna non la possono proprio sopportare.

SCOVA BUGIE - Il sito di RealScoop offre infatti uno strumento che - a detta degli ideatori - permette di smascherare i bugiardi. Come? Semplicemente grazie a una speciale tecnologia di analisi della voce - battezzata Believability Meter - che pare sia la stessa già utilizzata dalle forze di sicurezza per la prevenzione del crimine. Questo termometro della credibilità, in grado di analizzare circa un centinaio di elementi vocali ed eseguire oltre mille operazione al secondo, processa le registrazioni audio e permette in pratica di visualizzare in tempo reale quando chi parla sta mentendo o dice la verità, il tutto tramite una scala graduata che cambia colore dinamicamente via via che il sistema analizza la voce. Quando il termometro raggiunge il rosso significa ovviamente che le dichiarazioni del personaggio di turno sono altamente discutibili.

CHI MENTE E CHI NO - Sulle pagine di RealScoop è possibile curiosare tra numerosi file audio e video di dichiarazioni di celebrità quali Michale Jackson, Tom Cruise o Michael Moore, e chiaramente non mancano all'appello le voci dei politici statunitensi, Obama e Sarah Palin compresi. E proprio la Palin, assieme a Joe Biden, martedì sarà nel mirino di RealScoop, che analizzerà le dichiarazioni dei candidati alla vicepresidenza per svelare agli elettori chi dei due (e quando) non la racconta giusta. Che si creda o no all'affidabilità del sistema, è sicuramente divertente osservare il Believability Meter durante l'analisi della dichiarazione rilasciata da Bill Clinton ai tempi dello famoso scandalo: alle parole «non ho mai fatto sesso con quella donna, la signorina Lewinsky» e «le accuse mosse nei miei confronti sono assolutamente false», il termometro si tinge inesorabilmente di rosso.

Il capo ideale? L'allenatore



Marco Letizia
Il Corriere della Sera
29 settembre 2008

Il buon capo è quello che sa tirare fuori il meglio dai propri collaboratori riuscendo a valorizzarli

MILANO - Conflitti, contrasti, malumori. La vita in un qualsiasi ufficio non è sempre semplice. E gran parte della responsabilità è sulle spalle di chi quell’ufficio è chiamato dirigerlo. Vale a dire il capo. Un ruolo quello del capo, che, mai come oggi è messo in discussione. Dalle aziende, dai lavoratori, dalla società.

Il capo ideale è quello che, come un allenatore, (nella foto Josè Mourinho) sa tirare fuori il meglio dai propri collaboratori (Fotopress)
Venuti meno i modelli tradizionali, non esiste più un solo modo per essere capo. Ma qual è il capo ideale e cosa deve fare un capo per essere un buon capo? A queste ed altre domande risponde il libro-ricerca “Che capo vuoi?” a cura di Walter Passerini (giornalista del Sole 24 e ideatore del Corriere Lavoro, storico supplemento del Corriere della Sera) e Marco Rotondi (ingegnere e psicologo, presidente dell’Istituto europeo di neurosistemica) edito da Guerini e Associati.

LA CRISI DEL CAPO - Il libro ha un doppio volto. Da un lato ci fa capire i perché della necessità di rimettere in discussione la figura del capo, dall’altro attraverso i risultati, di un duplice indagine sul campo, qualitativa e quantitativa, ci permette di individuare che tipo di capo vuole il dipendente. Infatti la crisi del ruolo di chi è chiamato a guidare un ufficio o un’impresa nasce dal fatto che spesso il capo non sa cosa vuol dire essere un capo. Naturalmente cerca di raggiungere gli obiettivi che gli vengono richiesti, ma non viene quasi mai valutato per ciò che è riuscito a creare: un team affiatato, buone relazioni all’interno di un ufficio, un organizzazione efficiente, la capacità di far cogliere ad ognuno dei suoi collaboratori il significato del proprio lavoro. Una valutazione che invece è tanto necessaria perché ci permetterebbe di individuare quei leader in grado di trasformare non più solo le aziende, ma anche la società e il Paese in cui viviamo. Come spiega Passerini: è giunto il momento “non di creare una classe dirigente alla ricerca di alibi, che gioca con la società al puro effetto ottico del rispecchiamento. Ma una vera classe dirigente che è diversa dall’essere ‘dirigenti’. Per questo serve più autocoscienza del ruolo, più coraggio, più consapevolezza. Il Paese ha bisogno di merito e mobilità e di liberarsi dai vecchi meccanismi del potere. Servono nuove palestre della leadership. Le imprese sapranno esserlo e diventarlo?”

LE QUALITA’ DEL BUON CAPO – Ma cosa viene richiesto dai dipendenti al proprio capo per poterlo definire un buon capo? Il libro fornisce una risposta che emerge da una duplice ricerca qualitativa e quantitativa. Premesso che una relazione felice con il proprio capo è giudicata dalla grande maggioranza degli intervistati “come elemento indispensabile per lavorare al meglio” un buon capo secondo i dipendenti deve avere innanzitutto 3 qualità:
1) Avere interesse reale per i propri collaboratori, vale a dire, da un lato saper stabilire un confronto vero con chi lavora con lui, dall’altro, saper rimanere autentico.
2) Essere in grado di mandare avanti un rapporto di fiducia reciproca.
3) Essere in grado di conferire deleghe chiare ai propri collaboratori

IL CAPO IDEALE – Accanto all’indagine qualitativa emerge però anche quella quantitativa, realizzata analizzando le risposte di oltre 190.000 dipendenti contattati via web. Dall’indagine emerge che la figura ideale di capo è per il dipendente italiano medio quella di un uomo, italiano cinquantenne. Il capo inoltre a detta dei collaboratori deve avere altre importanti caratteristiche:
1) Deve agire come un coach, vale a dire saper valorizzare il potenziale dei collaboratori
2) Deve avere un atteggiamento da team player vale a dire “orientato al raggiungimento del risultato attraverso la valorizzazione delle competenze del gruppo e la delega”.
3) Deve saper supportare la ricerca di soluzioni innovative attraverso la sintesi e la sperimentazione;
4) Deve saper valorizzare le idee dei collaboratori e dare la possibilità di lavorare in autonomia;
5) Deve essere in grado di valutare i propri collaboratori gestendo il processo di feedback e misurando i risultati portati da ognuno;
6) Deve saper stimolare il miglioramento trasferendo delle certezze;
7) Deve saper gestire i collaboratori creando spirito di squadra e appianando i conflitti;
8) Deve saper valorizzare i risultati della squadra anche verso gli altri capi.

UN CAPO DIVERSO PER DIVERSE SITUAZIONI – Ma anche se le linee guida prima tratteggiate forniscono un identikit abbastanza fedele di chi è e come deve agire un buon capo, come spiega Gianni Dell’Orto, presidente di Neusearch, nell’ultimo capitolo del libro, non esiste un capo ideale per tutte le aziende e per tutte le stagioni: “Dopo aver incontrato e intervistato almeno 13.000 capi sono giunto alla conclusione che a seconda della situazione esiste un capo che funziona meglio.Quindi le diverse situazioni esigono diversi tipi di capo”.

Marco Travaglio - Senza Stato, né legge...

VOGLIO ESSERE PROCESSATO

domenica 28 settembre 2008

LETTERA APERTA AL SIG. DIRETTORE DELLE CARCERI DI LODI


Luigi Morsello *

LETTERA APERTA
Sig. Direttore
dr.ssa Stefania Mussio
Casa Circondariale
L O D I

Sig. Direttore,


mio primario dovere era manifestare tutto il mio cordoglio per la tragica scomparsa dell’assistente capo di polizia penitenziaria Marina Viviani al comandante di reparto e,per il suo tramite, a tutto il Corpo di Polizia penitenziaria in servizio presso le carceri da lei dirette.


Ciò ho fatto, ricorrendo per la diffusione al mio blog e diramando la mia lettera di condoglianze a tutta l’Italia penitenziaria.


Adesso è mio dovere presentare a lei le condoglianze per la scomparsa della cara Marina Viviani, con preghiera di volerle porgere ai suoi tre digli, non essendo io in possesso del mezzo per inviare loro questi sentimenti di solidarietà.


Vorrà fortemente rappresentare alla figlia maggiore la mia disponibilità a venire in suo soccorso nella gestione della difficile eredità, ove ne avesse necessità e ne riscontrasse l’opportunità.


Desidero, infine, rappresentare l’opportunità di dedicare la Festa del Corpo di polizia penitenziaria all’assistente capo Viviani Marina, brava operatrice penitenziaria, madre coraggiosa e donna stroncata da un destino avverso nel fiore degli anni.


Distinti saluti.

* già Direttore dellla Casa Circondariale di Lodi

"Ti boccio": e' reato se e' ritorsione contro genitori



Roberto Ormanni
Direttore de
IL PARLAMENTARE


L'insegnante che sarebbe colpevole del reato di minacce per aver "avvertito" uno studente del rischio bocciatura e' stato in realta' condannato dalla Corte d'appello di Venezia per abuso d'ufficio, violenza privata aggravata nei confronti di diversi studenti, tentata violenza privata nei confronti della preside e, anche, per minacce nei confronti di una sua allieva i cui genitori avevano chiesto alla scuola di rimuovere dal servizio lo stesso prof a causa di scontri e diverbi.
In una nota diffusa oggi dalla Presidenza della Suprema corte a seguito delle polemiche sulla sentenza che avrebbe considerato reato minacciare la bocciatura di uno studente impreparato, si precisa che "la minaccia e' tale solo quando e' ingiusta".
In pratica, e' ingiusto minacciare di bocciare uno studente se questi non lo merita. La sentenza "incriminata" infatti (la numero 36700 del 2008 emessa dalla sesta sezione penale, presidente Bruno Oliva, relatore Giorgio Fidelbo) non riguarda il semplice avvertimento "ti boccio" rivolto a uno scolaro impreparato.
La pronuncia della Cassazione analizza invece, in seguito al ricorso di un professore del liceo "Paolo Lioy" di Vicenza, Marcello T. che oggi e' in servizio in un'altra scuola, una serie di vicende che avevano portato il prof a giudizio con le accuse di abuso d'ufficio per aver impartito lezioni private a pagamento agli studenti delle sue classi, di violenza privata aggravata per aver costretto tutti gli allievi della classe II B a sottoscrivere una lettera nella quale si affermava che l'insegnante aveva correttamente svolto tutto il programma, per aver inoltre obbligato una studentessa a firmare un'altra lettera con la quale la ragazza ammetteva di essere sempre impreparata, di aver poi obbligato quindici studenti della III B a scrivere una terza lettera in cui si chiedeva alla preside di mantenere in servizio lo stesso professore e di avere infine impedito agli studenti delle proprie classi e anche ai rispettivi genitori di partecipare a un'assemblea (nell'aprile del 2001) nel corso della quale si sarebbe anche discusso dei rapporti tra i ragazzi, la scuola e lo stesso insegnante.
Rapporti difficili, tanto che la preside dell'istituto ha richiesto e ottenuto un'ispezione ministeriale, per chiarire le contestazioni che venivano avanzate da ragazzi e genitori nei confronti dell'insegnante.
In tale circostanza il professore Marcello T. ha tentato di indurre la preside a revocare la richiesta di ispezione minacciando anche il capo dell'istituto "di renderle la vita impossibile, utilizzando anche notizie personali, se l'ispezione fosse andata avanti".
Proprio per "difendersi" dai risultati sfavorevoli dell'ispezione l'insegnante e' ricorso alle lettere che gli studenti erano obbligati a firmare, alle interferenze nella partecipazione di genitori e ragazzi alle assemblee scolastiche e alle minacce nei confronti dei suoi allievi, per indurre i genitori a fare marcia indietro.
Per raggiungere questi obiettivi il prof ha fatto ricorso, scrive la Cassazione, "a implicite ma chiare minacce di ripercussioni negative sul curriculum scolastico" dei suoi studenti. Come non bastasse il professore ha poi minacciato "esplicitamente" una sua alunna, Silvia C., affermando che "non aveva piu' alcuna possibilita' di essere promossa".
Una minaccia che, sottolineano i giudici nella sentenza, e' stata conseguenza "della partecipazione della madre della stessa Silvia C. a un'assemblea scolastica" nel corso della quale la signora "aveva proposto che non venisse mantenuta la continuita' didattica del professor T. per i tre anni successivi".
Per tutte queste accuse l'insegnante Marcello T. era stato mandato a giudizio, al processo si erano costituiti parte civile le famiglie degli studenti, e nel 2005 ha chiesto al Gup di Vicenza di essere giudicato con il rito abbreviato. Condannato, aveva presentato appello e nel 2007 la Corte d'appello di Venezia confermava le condanne disponendo la prescrizione per alcuni episodi di abuso d'ufficio relativi alle lezioni private ad altri studenti e per alcune contravvenzioni minori. La difesa ha quindi presentato ricorso per Cassazione sostenendo che vi erano diverse irregolarita' formali e processuali, e chiedendo inoltre che venisse ridotta la pena. (Roberto Ormanni)

I limiti ai poteri dell'Autorità per la Vigilanza sui contratti pubblici


Roberto Ormanni
Direttore de
IL PARLAMENTARE

Il diritto di difesa deve essere garantito anche nei procedimenti dell’Autorità per la Vigilanza sui Contratti Pubblici e se gli atti utilizzati per le valutazioni provengono da indagini penali e sono segreti il procedimento deve essere sospeso. Questi i due punti cardine della decisione 4363/2008 della sesta sezione del Consiglio di Stato, depositata il 16 settembre scorso.
La pronuncia (presidente Giuseppe Barbagallo, relatore Paolo Buonvino) ha accolto il ricorso della società SOA Nazionale Costruttori Organismo di Attestazione Spa, annullando il provvedimento che l’Autorità per la Vigilanza aveva notificato alla società nel dicembre del 2005 comunicando “l’avvio del procedimento di revoca dell’autorizzazione ai sensi dell’articolo 10 comma 5 e seguenti, del Dpr 34/2000”.
Una decisione che ha capovolto la precedente sentenza del Tar Lazio (sezione terza, n. 1374 del 15 febbraio 2007), che pure aveva ampiamente motivato le proprie conclusioni favorevoli all’authority di controllo, ha condannato alle spese l’Autorità di Vigilanza e non ha risparmiato dure critiche sia all’operato dello stesso organismo di controllo, sia al percorso argomentativo dei primi giudici.
In sintesi, il Consiglio di Stato ritiene scorretto quel procedimento di revoca che si basi esclusivamente sui risultati di indagini della magistratura ordinaria - e in paticolare delle direzioni distrettuali antimafia - da un lato senza condurre una propria istruttoria approfondita e dall’altro impedendo alla società oggetto del procedimento di conoscere adeguatamente la documentazione all’origine dell’attività di verifica richiamandosi al segreto d’indagine relativo agli atti che il ministero dell’Interno, o gli organi investigativi e inquirenti, trasmettono all’Autorità.
Se i “paletti” imposti dai giudici amministrativi sembrano restringere le possibilità di intervento e controllo dell’Autorità di Vigilanza, in realtà la motivazione della decisione richiama l’attenzione sulla necessità che l’attività dell’organismo di controllo sia caratterizzata da un maggior grado di autonomia di valutazione e non si limiti all’acquisizione di documenti investigativi, ritenendoli – per ciò solo – sufficienti a determinare la revoca delle autorizzazioni.
La cronologia degli eventi è utile per individuare i punti deboli del provvedimento annullato.
Il 18 agosto 2005 il comando Nucleo speciale Tutela Mercati della Guardia di Finanza consegnava all’Autorità un rapporto relativo a un’indagine condotta nei confronti della SOA Nazionale Costruttori Spa dalla Procura della Repubblica di Savona.
Il successivo 6 ottobre anche la Direzione distrettuale antimafia di Napoli trasmetteva un ulteriore rapporto del Nucleo provinciale della Polizia Tributaria della Finanza riguardante la compagine sociale della stessa SOA. Pochi giorni dopo vengono recapitati all’Autorità, sempre a cura della Dda di Napoli, anche i verbali di sequestri eseguiti – oltre un anno prima, nel maggio 2004 – presso la sede della SOA e del Consorzio Novus srl.
Sulla base di questa documentazione il Consiglio dell’Autorità, il 10 novembre 2005, delibera l’avvio del procedimento di revoca dell’autorizzazione nei confronti della SOA Nazionale Costruttori ai sensi dell’articolo 10 commi 5 e seguenti del Dpr 34/2000, e il 28 dicembre invita la società a presentare le proprie deduzioni entro il 10 febbraio 2006.
Ma il giorno seguente – e questo è un passaggio fondamentale per comprendere la decisione del Consiglio di Stato – il 29 dicembre 2005, la SOA chiede un accesso agli atti indicati nella nota di avvio del procedimento che gli è stata notificata.
La richiesta viene respinta, sottolineano i giudici di Palazzo Spada, “in quanto si tratta di documentazione attinente alla fase istruttoria di procedimento penale”. Il provvedimento di rigetto viene anche confermato dal Tar, al quale si rivolge la SOA Nazionale Costruttori.
Il Tribunale amministrativo, però, precisa (anticipando, di fatto, le consure del Consiglio di Stato) che “non sarebbe stato legittimo opporre la segretezza degli atti qualora l’Autorità avesse ritenuto di utilizzarli al fine di adottare provvedimenti limitativi della sfera giuridica della SOA”.
Trascorsa una parentesi di sospensione dei termini del procedimento disposta dall’Autorità per acquisire il parere obbligatorio della Commissione Consultiva, il 12 aprile 2006 l’organo di vigilanza invita la SOA a prendere visione del parere. La società ribadisce la richiesta di accesso agli atti e l’Autorità rinnova il proprio rifiuto “per la vigenza del segreto istruttorio”.
Il successivo 20 giugno l’Autorità revoca l’autorizzazione alla SOA.
Nel ricorso al Tar contro il provvedimento di revoca, la società sosteneva, tra l’altro, che la comunicazione di avvio del procedimento da parte dell’Autorità era stata irregolare in quanto pervenuta, di fatto, ad istruttoria compiuta. I giudici di primo grado hanno liquidato questa eccezione bollandola come “un’affermazione apodittica e indimostrata”: una conclusione che il Consiglio di Stato non condivide.
“La comunicazione di avvio del procedimento – scrive invece – è stata illegittimamente trasmessa all’appellante allorché il procedimento stesso risultava non solo avviato, ma caratterizzato dalla reiterata acquisizione di molteplici atti poi rivalitisi determinanti”. E tutto ciò, concludono i giudici, “in contrasto con l’articolo 10 comma 6 del Dpr 34/2000”.
Il riferimento ai “molteplici atti” acquisiti introduce l’altra censura: la violazione del diritto di difesa e del principio del contraddittorio.
“L’Autorità – scrive il Consiglio di Stato – non ha mai portato l’interessata a conoscenza degli atti dell’indagine penale essendosi sempre trincerata dietro il segreto istruttorio che li caratterizzava: di qui la grave contraddittorietà del suo comportamento”.
La motivazione approfondisce questo punto e andrà tenuta in considerazione per tutti i procedimenti analoghi a venire: “la stessa (Autorità, n.d.r.) ha da un lato basato la propria condotta inquisitoria su tali atti, che ha ritenuto quindi utilizzabili anche ai fini dell’indagine amministrativa, d’altro lato ha posto l’impresa nell’impossibilità materiale di conoscerli. In tal modo si è creato un inammissibile divario tra la parte pubblica e quella privata”.
La decisione è molto chiara su questo passaggio: “Se gli atti povenienti dal procedimento penale in corso sono utilizzabili a fini amministrativi, devono essere portati a integrale conoscenza dell’interessata fermo il carattere riservato degli stessi”. Insomma, delle due l’una: se vengono utilizzati non possono essere segreti. Se invece sono segreti il Consiglio di Stato indica anche la via d’uscita: “il relativo procedimento avrebbe dovuto, per l’effetto, essere sospeso”.
Un’ultima notazione riguarda le obiezioni avanzate dall’appellante alla “non definitività” degli atti ai quali l’Autorità ha fatto riferimento per la revoca dell’autorizzazione. Un eccezione già respinta dal Tar che aveva sottolineato come gli “ambiti operativi e valutativi” tra magistratura ordinaria e procedimento dell’Autorità siano diversi.
“E’ vero - concorda il Consiglio di Stato - che l’autorità amministrativa può accordare particolare valore probatorio, ai propri fini, agli atti di indagini penali anche nell’ipotesi in cui non emergano, in concreto, condotte penalmente rilevanti, ma ciò è possibile in presenza di atti penali definitivi o, quanto meno, di fatti oggetto di autonomo riscontro ai fini amministrativi”.
L’Autorità per la Vigilanza sui Lavori Pubblici è, di fatto, invitata a valorizzare i propri poteri istruttori senza limitarsi a recepire le segnalazioni provenienti dagli organi investigativi e dalla magistratura ordinaria.
Roberto Ormanni

Autorizzazione a delinquere



Marco Travaglio
Ora d'aria
L'Unità
25 settembre 2008


Sconvolti dalla classifica di Transparency International sui paesi meno corrotti, che colloca l’Italia in coda al resto d’Europa e alle spalle di mezzo Terzo Mondo, i nostri parlamentari han reagito con uno scatto d’orgoglio contro chi continua a screditare l’immagine della politica italiana nel mondo. Infatti, due giorni fa, il Senato della Repubblica ha respinto la richiesta dei giudici di Roma di autorizzare gli arresti domiciliari per il neosenatore del Pdl Nicola Di Girolamo, accusato di aver falsamente dichiarato di risiedere in Belgio per candidarsi e farsi eleggere nel collegio degli italiani all’estero, mentre in realtà non s’è mai mosso dall’Italia. Gravi i reati contestati: false dichiarazioni, falso ideologico, abuso d'ufficio. Gravissime le conseguenze della sua condotta: Di Girolamo, se fossero provate le accuse, sarebbe un senatore abusivo che ha truffato i suoi elettori e non dovrebbe sedere a Palazzo Madama un minuto di più.

Consci della sua pesantissima posizione, i colleghi di casta, anzi di cosca, han pensato bene di coprirlo e salvarlo con la consueta maggioranza trasversale Pd-Pdl-Lega-Udc e la solita eccezione dell’Italia dei Valori (“Ancora una volta il Parlamento difende la Casta”, ha commentato il dipietrista Luigi Ligotti). Un plebiscito a favore dell’arrestando: 204 no ai giudici, 43 sì (Idv più alcuni cani sciolti). Così Di Girolamo resta non solo a piede libero, ma pure in Senato. Tutto è bene quel che finisce bene. Dopodiché Veltroni se la prende con Grillo perché non si parla più di Casta: potrebbe parlarne lui, possibilmente dopo averne fatto uscire i suoi con le mani alzate.

Intanto - rivela Liana Milella su Repubblica - il Lodo Alfano ha figliato un pargoletto. Si chiama Lodo Consolo, con l’accento sulla prima “o”, dal nome del senatore avvocato di An, e mira a proteggere non solo le quattro alte cariche dello Stato, ma anche i ministri. I quali potranno delinquere a piacimento,anche quando i loro delitti non c’entrano nulla con le funzioni ministeriali. Per questi ultimi, infatti, già oggi il Tribunale dei ministri, per procedere, necessita del permesso del Parlamento. Con la nuova legge (inserita con corsia preferenziale in commissione Giustizia dall’on. Enrico Costa, figlio del più noto Raffaele, il castiga-Casta), il Parlamento potrà bloccare i processi anche per reati comuni, extrafunzionali, commessi privatamente da chi in quel momento è pure ministro. Il noto giureconsulto Consolo, qualche anno fa, fu inquisito e condannato in tribunale (in appello strappò poi l’assoluzione) per aver spacciato per proprie alcune monografie altrui per incrementare i titoli necessari a ottenere la cattedra di ordinario all’Università di Cagliari.

Ma non è per sè che ha partorito il Lodo-bis extralarge. E’ per un suo cliente, che guardacaso fa il ministro, guardacaso è imputato e guardacaso per un reato di favoreggiamento che non c’entra nulla con le funzioni ministeriali (avrebbe avvertito alcuni indagati di un’inchiesta con intercettazioni in corso su un caso di abusi edilizi all’Elba). Dunque non necessita, almeno finora, di alcun’autorizzazione a procedere (anche se Matteoli s’è rivolto alla Consulta). Col Lodo, anzi con l’Auto-Lodo”, il processo si bloccherà e riposerà in pace in saecula saeculorum. Anche il ministro Bossi, già pluripregiudicato, potrà liberarsi di un paio di processi ancora in corso, per aver invitato una signora a “gettare nel cesso il Tricolore” e organizzato una banda paramilitare, le Camicie Verdi. Idem il ministro al Plasmon, Raffaele Fitto, imputato in Puglia per le presunte mazzette sanitarie pagategli dalla famiglia Angelucci. E cosi’ pure il ministro Roberto Calderoli, indagato per ricettazione a Milano per aver preso soldi dalla Popolare di Lodi del furbetto Fiorani.

Si vedrà se il Lodo vale anche per i viceministri e i sottosegretari (e, perché no, anche ai mille parlamentari, ai governatori, sindaci e presidenti di provincia, con relativi consiglieri e assessori, senza dimenticare circoscrizioni e comunità montane): nel qual caso salverà pure Aldo Brancher, indagato per ricettazione delle stecche targate Fiorani. Nel qual caso, la corsa ad arraffare uno dei nuovi posti di ministro e di sottosegretario messi in palio dal Cainano si farà sovraffollata, visto che Lega e Pdl ospitano una quarantina tra indagati e imputati. Ma è probabile che la nuova norma salvi anche Clemente Mastella, indagato a S. Maria Capua Vetere (ora a Napoli) quand’era ministro della Giustizia per faccende che nulla avevano a che vedere con la carica. Dopodiché, quando vedrete avvicinarsi un ministro, mettete in salvo il portafogli.