sabato 30 aprile 2011

QUELLA FOTOGRAFIA CHE HA MESSO B. NEI GUAI




Quando il Caimano inseguiva miss col camper di Telemilano

di Luca Telese

“Senta Evaristo, ci verrebbe questo fine settimana, ad Arcore, a fotografarmi?”. Evaristo Fusar oggi ha 77 anni. Ne aveva 34 nel 1977, quando arriva quella telefonata, cortese ma insistente, da un giovane imprenditore in ascesa, che gli domanda un servizio su di sé. Tutto poteva immaginare tranne che quelle foto le avrebbe fatte, malgrado all’inizio fosse perplesso. E che sarebbero rimaste negli annali come i primi ritratti posati di Silvio Berlusconi (oggi valgono più di uno scoop di paparazzi su Belén Rodriguez). E poi che lui, con “il Dottore” (così si faceva chiamare) avrebbe stretto un rapporto decennale. Alla fine, l’incredibile collaborazione che sta per raccontarmi si concluderà con una proposta di assunzione prendere o lasciare: “Lasci tutto e venga alla Mondadori”. Proposta rifiutata anche se economicamente allettante, per innato spirito di indipendenza del destinatario.

Alberto Roveri, invece, entra negli uffici della Edilnord nel 1977. È ormai giunto alla fine del suo servizio quando, mentre sta riponendo con cura gli obiettivi nella sua borsa di pelle, guarda ancora per una volta il numero uno della società immobiliare. Non sa bene perché, ma – a un tratto – gli sembra di poter immortalare un’inquadratura diversa dalle altre, una luce particolare che prima non aveva. Allora riprende la macchina, la impugna, segue un impulso istintivo e gli dice: “Dottore, mi lascia fare un altro paio di scatti?”. Il diaframma corre veloce, click, click, click. “Ci credi? Della presenza della pistola – racconta oggi divertito – mi sono accorto solo 30 anni dopo”. Un altro scatto che vale oro.

Mauro Vallinotto “il dottore” lo aveva già conosciuto, e mi racconterà anche lui come. Ma resta folgorato dalla sua apparizione a Viareggio, al concorso di Miss Italia del 1979: “Era sbarcato in riviera con un camper attrezzato con tanto di letto matrimoniale e due operatori al seguito, per filmare la finale di Miss Italia. Rimasi stupito del fatto che un imprenditore come lui facesse il cronista. In una delle pause – racconta Vallinotto – incuriosito per la scena, seguendo un impulso, scattai una foto che oggi pare innocente: Berlusconi era seduto, accanto alle aspiranti miss, e scherzava con le ragazze. Quando sentii l’otturatore che scattava non potevo certo immaginare che, proprio per via di quella foto, mi avrebbe urlato addosso, in pubblico, furibondo: ‘Vergogna! Mi hai rovinato la vita, mascalzone!’”.

NÉ IL COLLOQUIO di Fusar, né la pistola immortalata da Roveri, e nemmeno “il camper abborda-miss” sono elementi casuali. L’ingresso nella villa di Arcore per Silvio Berlusconi è di più di un trasloco, l’anno zero della sua biografia, il punto di ripartenza di una palingenesi pubblica e privata. È – per essere più precisi – il momento in cui riesce ad avviare un lungo e meticoloso processo di edificazione della propria immagine. Dagli scatti di gioventù, ridenti e fuggitivi, talvolta rubati o d’occasione, il fondatore di Mediaset sta passando al ritratto posato, alla costruzione scientifica del proprio immaginario. Passa in quell’anno dal tempo dell’azione a quello della prosa plasmando, ex novo, un personaggio e un immaginario fondati su un ingrediente fondamentale: se stesso.

È dunque quasi normale che il futuro imprenditore catodico si metta in cerca di talenti che possano documentare il suo prodigioso salto di ce*-nso, raccontando il suo nuovo romanzo di formazione. Da questo momento in poi, l’iconografia ufficiale del berlusconismo non consentirà più gli sguardi birichini del chansonnier giramondo, non ritrarrà mai il giovane arrampicatore sociale con mustacchi e capelloni lunghi, o il giovanotto con la pipa pretenziosa e il sorriso ironico, ma solo l’imprenditore (aspirante) statista, il clone semiludico del duro da cinema americano, il sovrano regnante che intorno alla dimora nobiliare strappata ai Casati ha edificato il proprio regno. Sull’iconografia berlusconiana ha scritto un bellissimo libro Marco Belpoliti (Il Corpo del capo). Un libro che ha avuto una storia tra-vagliata, dal momento che l’editore abituale del saggista, l’Einaudi (di proprietà Mondadori) aveva rifiutato di pubblicare il testo (poi uscito per Guanda). Ne Il Corpo del capo Belpoliti raccoglieva un’antologia delle foto che avevano costruito il culto del sovrano di Arcore, l’iconografia del capo predestinato. Manca una cosa che per un filosofo non ha senso, ma che per un giornalista è essenziale. Cercare gli autori di quei servizi e fargli raccontare “il giovane” Berlusconi. Così ho rintracciato i tre primi ritrattisti del sovrano per chiedere cosa ricordassero. Con Fusar, Berlusconi prospetta un’assunzione, chiede ritocchi sul naso di cui si lamenta persino con Montanelli (“È un grande fotografo, ma con la mattina non ci sa fare”), rivela che il suo modello è Reagan. Da Roveri si fa immortalare davanti al plastico di Milano 2, posa come lo zio Sam e chiede una pausa tra un servizio e l’altro dicendo: “Chiamo l’estetista e mi faccio il manicure”.

Ma è Vallinotto che ha il ricordo più stupefacente. Incrocia una prima volta Silvio Berlusconi a Milano, nel 1976. Lui è un collaboratore fisso dell’Espresso, quello è il costruttore di Milano 2. Ha appena 22 anni, ma è già un fotografo di moda affermato: “Alcune modelle mi parlano di questo imprenditore che fa delle feste animate, invita molte ragazze e ad alcune mette addirittura a disposizione degli appartamenti a Milano 2”. Mentre mi racconta questo particolare, ovviamente, rimango per un attimo di stucco e Vallinotto sorride : “No, no, ha capito bene: non è che mi sono confuso con il Bunga Bunga. È proprio quello che mi dissero di lui, nel lontano 1976, delle fanciulle che oggi definirei cloni della Carfagna. Ovvio che mi incuriosissi, no?”. In un’occasione i due si incontrano in una serata milanese, il giovane Vallinotto resta a sentire. Il suo sesto senso, non solo professionale, gli dice che con l’uomo di Milano 2 si rivedrà presto. Due anni più tardi il fotografo è alla presentazione di una minuscola tv via cavo che si sta trasformando in emittente privata. Nel 1979 Vallinotto, seguendo le piste delle sue modelle milanesi approda a Viareggio, per la finale di Miss Italia. “Mi vedo arrivare Berlusconi, a bordo di un pullman marchiato Telemilano 58”. Rimane doppiamente stupito. “Non trovavo strano solo che facesse interviste di persona. Ma anche che a un certo punto, riconoscendomi, mi aveva detto:‘ Scusi Vallinotto. Ho visto che ha scattato. Mi perdoni, le sembrerà una sciocchezza, ma devo chiederle se me le può cedere”. Berlusconi incalza: “Posso dirle una cosa da uomo a uomo? Mia moglie non sa che io sono qui, mi capisce?”. Vallinotto, che ha fotografato anche il camper con cuccetta e lettino ricoperto di pelle nera (e una tv incassata in una parete), ci rimugina. “Ma se Berlusconi faceva le interviste e le mandava in onda, come poteva poi dire alla moglie di non essere stato al concorso?”.

IPOTIZZA che sia una scusa per mettere le mani sugli scatti. La cosa non gli piace, rifiuta. Le foto vengono comprate e pubblicate. Non succede nulla e Vallinotto dimentica dell’episodio. Ma, 15 giorni dopo, quando si ritrova alla finale del Campiello succede l’imponderabile. Una sagoma si stacca dalla platea e inveisce contro di lui: “Lui, incazzatissimo. Fuori di sé. Gridava: ‘Sei una carogna! Mi hai rovinato la vita! Per colpa tua mia moglie vuole divorziare!’. Io non rispondevo. Ma Berlusconi mi era addosso, agitava le mani sempre più minaccioso’”. Non finisce con una rissa solo perché interviene, provvidenziale, un imprenditore di successo. “Una sagoma si interpose fra me e lui – ricorda oggi Vallinotto – Vittorio Merloni. Lo placcò come sui campi di rugby: ‘Silvio, lascia perdere! Non vedi che ci stanno guardando tutti? Non dargli questa soddisfazione, dai!”. Fine di un matrimonio, nascita di un mito.

Celentano è rock, tutti gli altri lenti


di Marco Travaglio

“Cari studenti, comunisti, fascisti, leghisti e operai...”. Della lettera-appello che ci ha regalato Celentano è bello soprattutto l’attacco. E anche la chiusa che invita tutti a usare “l’unico mezzo di sopravvivenza che ci resta: il voto. Il 12 giugno dobbiamo andare assolutamente a votare”, anche se il governo, dopo lo scippo del nucleare, svuotasse le urne anche dell’acqua e del legittimo impedimento, anche se i seggi restassero chiusi: “Il nostro voto lasciamolo pure per terra scritto su un foglietto, in modo che l’indomani tutti i marciapiedi d’Italia siano invasi da 40 milioni di bigliettini”.

È sorprendente come un cantante di 73 anni riesca a trovare la freschezza e le parole giuste per fotografare il momento cruciale che viviamo e l’occasione che abbiamo a portata di mano, lì dietro l’angolo.

La freschezza e le parole giuste che ha trovato l’altra sera un comico di 63 anni, Beppe Grillo, nell’intervista a Francesca Fagnani di Annozero.

Ha detto che questi politici sono morti e, se sembrano ancora vivi, è solo perché sono sempre in tv. E ha citato la banalità del male di tanti complici “perbene” del nazismo, immortalati nel libro I volenterosi carnefici di Hitler e paragonati agli attuali volenterosi carnefici della democrazia.

Grillo, senza che nessuno glielo chieda, parte per un tour elettorale. Non solo per sostenere i giovani candidati a Cinque Stelle nei comuni dove si vota, ma anche per spingere un popolo rassegnato, disinformato, anestetizzato a trascinarsi alle urne il 12 e 13 giugno.

Celentano e Grillo, due rari esemplari di artisti-cittadini estranei al palazzo con il corpo e soprattutto con la testa, hanno capito che i referendum ormai travalicano la lettera dei tre quesiti. Sono come quello elettorale del ‘93 sulla preferenza unica – questione tecnica quant’altre mai – che intercettò la crisi irreversibile della Prima Repubblica e fu vissuto dagli italiani come l’occasione per liberarsi di una classe politica ladra e decrepita.

Il solo che, dentro il palazzo, l’ha capito fin da subito è stato Di Pietro, che ha tante colpe per la (non) selezione della classe dirigente del suo partito, ma grazie al suo intuito contadino ha annusato la voglia di cambiamento e ha il merito di aver creduto nei referendum quando gli altri sbuffavano annoiati, sbattendogli in faccia i calcoli ragionieristici sul quorum.

Per il resto chi sta nel palazzo e nelle sue succursali televisive ha perso il tatto, l’olfatto, la vista, l’udito, il gusto del paese reale ed è lì fermo, immobile, a far di conto sul pallottoliere senz’accorgersi che una valanga di Sì, anche senza quorum, non farebbe che accelerare la caduta del regime.

Se, oltre a commissionare sondaggi i politici li leggessero e soprattutto li capissero, scoprirebbero che la loro fine è vicina. E converrebbe loro assecondare la sete di cambiamento, anziché ostacolarlo o fingere di non vederlo.

A Catanzaro tutto il centrosinistra l’ha capito, o forse l’ha subìto, candidando un giovane competente, Salvatore Scalzo. Ma è una mosca bianca.

A Napoli i sondaggi danno De Magistris vincente e Morcone perdente al ballottaggio con Lettieri: che aspettano Pd e Sel a scaricare Morcone, anziché – come titola il Corriere – ributtare “in campo Bassolino”, il ritorno dei morti viventi?

A Bologna il grillino Bugani è dato al 10%: vorrà dire qualcosa?

Chi invita Grillo a fare fronte comune per non disperdere i voti di centrosinistra contro B. non ha capito nulla: chi vota Cinque Stelle non voterebbe mai centrosinistra né centrodestra, anzi non si pone proprio il problema.

A un raduno indetto da Enrico Letta, Nando Pagnoncelli ha spiegato che il 42% degli italiani pensa che B. sia ancora lì perché dall’altra c’è il nulla. Letta ne ha tratto la seguente lezione: “Il Pd non deve cadere nell’idea che siamo moralmente superiori”. Giusto. Ma, siccome non lo sono, perché non se ne vanno a casa e non lasciano il posto a qualcuno che sia davvero moralmente superiore?

Mille persone per Travaglio e Isabella Ferrari I 17 anni di un Paese in “Anestesia totale”


Mille persone al teatro delle Celebrazioni a Bologna (stasera e domani la replica) per un racconto a due voci di un'Italia com'era e come è diventata

E’ come se l’espediente della sospensione dell’incredulità fosse stata pratica comune di vita e pensiero per un intero popolo. Solo a partire da questo paradosso sono pensabili quei 17 anni che separano l’allora (delle discese in campo e degli amari calici) dall’oggi del “finalmente è (quasi) finita”.

Di “lui”, ovviamente, si parla. Del
Cavaliere, unto del signore, in odor di santità. Quel “finalmente” liberatorio pronunciato pure da Indro Montanelli, all’indomani della caduta del primo governo B., grido troppo brevemente assaporato. E’ un’alternarsi di voci il nuovo spettacolo di Marco Travaglio, “Anestesia totale”, che ha debuttato ieri sera al Teatro delle Celebrazioni di Bologna. Alla sua fa contrappunto quella di una quasi ieratica Isabella Ferrari, che intona chiaro di fronte a un leggio, come fosse una sorta di vangelo laico, le parole del maestro Montanelli.

Su libertà, giornalismo, ribellione ad ogni tentativo di guinzaglio da parte dell’editore-padrone al quale nel 1994 sbattè la porta, lasciando il suo Giornale e fondandone uno nuovo, La Voce. Una scenografia ridotta all’osso, fatta di un’edicola un po’ retrò, a metà tra la Rive Gauche parigina e un’Italia post boom economico, una panchina di legno, poche note di violino, suoni distorti, diluiti, rumori di carta strappata, rimbombi ossessivi: questo il fondale che ospita il passaggio di testimone da un protagonista all’altro del palco.

Protagonista è l’ondeggiare disinvolto di un’informazione serva, il trasformismo, la “par condicio tra verità e menzogna” che tutto consente, anche di smentire se stessi (il campionario di esempi di B. è noto), di stravolgere i fatti, di plasmare un nuovo linguaggio, l’importante è che sia asservito al Potere che tutto fagocita, e alle necessità di questa sorta di “Truman Show” nel quale la nostra nazione annaspa senza riuscire a sollevare il capo. Tutto è lecito in questa specie di teatro dell’assurdo dove le comparse si chiamano
Berlusconi, certo, ma anche Gianni Letta, Bruno Vespa, Daniela Santanchè, Sandro Bondi, Giuliano Ferrara, Gianni Riotta, solo per citarne alcuni. Tutti ritratti da Travaglio come comparse in quella che è la nostra realtà politica, civile, sociale, ai tempi del berlusconismo, certo, ma anche nelle parentesi di centrosinistra. Basta seguire alla lettera le “lezioni” che snocciola la voce di Isabella Ferrari, consigli utili a costruire la roccaforte del potere e del consenso, quella che difficilmente verrà smantellata, anche senza di “lui”, perché comoda culla pure a chi comanderà “dopo”. Basta far saltare i fatti, la verità, il senso, la logica, l’informazione.

Il pubblico ride, esplode in applausi quando Travaglio usa l’arma dell’ironia, resta concentrato e assorto nei passaggi più evocativi, soprattutto quando la voce (vera) di Montanelli fa capolino col suo rigoroso piglio di toscano indomito. Che ricorda una destra (e una sinistra) che non esistono più, in cui è impossibile riconoscersi (“Sono un cornuto della destra . Ho sposato una moglie puttana”). Perché nel paese del “così fan tutti” non c’è contrapposizione ideologica che tenga, ma solo il grottesco (per gli altri, evidentemente non per noi) tentativo di difesa, il rimpallo dei burattini della politica tra chi è ladro e chi lo è di più, tra chi è disonesto e chi non può, d’altro canto, scagliare la prima pietra.

Come salvarsi da questo virus, come difendersi da questo lento bollire in pentola come rane, senza accorgersi dell’ustione che devasta? Se la forza di B., la sua forza economica, mediatica, sono tali da consentirgli di agire come novello e guascone cittadino al di sopra di ogni sospetto, confessando candidamente i propri peccati nella certezza della totale assoluzione morale (chè a quella giudiziaria ci pensano le leggi confezionate ad hoc), quali vie restano?

Resta la via della verità, la forza di un giornalismo che incalzi il potere, lo stani, semplicemente lo racconti. Con una buona dose di coraggio, che ha un prezzo, certo, ma pure la certezza di una finale, riconquistata, libertà. Il giornalista Travaglio si carica sulle spalle una grossa responsabilità. Il pubblico, soddisfatto, lo premia con un teatro gremito, mai come da anni si vedeva al teatro delle Celebrazioni, e un lungo applauso. La speranza di un risveglio, forse, esiste, e resiste.

di Luciana Apicella

Assenze e sms sbagliati E’ l’opposizione-stampella


PAOLA ZANCA

Giovedì la maggioranza è stata salvata da Pd e Idv. Mentre sulla mozione per i tornado in Libia il caos è totale. Intanto Veltroni piccona i democratici. "Dopo le elezioni verifica interna"

Allarme sottovalutato. Il Pd, con il voto di giovedì sul Documento di economia e finanza, ha fatto come a Fukushima. Ha mandato ai suoi deputati un sms di “livello 1” e così, per venti voti, si è persa l’occasione di mandare sotto il governo su una materia seria come i conti pubblici.

I messaggini che i parlamentari democratici ricevono alla vigilia di ogni voto sono tarati su una scala che va da 1 a 3. Uno, “presenza obbligatoria”: se manchi non è una tragedia. Due, “presenza obbligatoria senza eccezioni”: solo i leader possono mantenere gli impegni presi. Tre, “presenza senza eccezione alcuna”: nemmeno Bersani, per intenderci, può sgarrare. Quell’sms è l’evoluzione tecnologica di un avviso che un tempo finiva a pagina 2 de l’Unità. Ma anche tra i partiti dell’opposizione che non hanno certificato l’allarme basso, le assenze sono state equamente distribuite. Diciassette democratici su 206, nove Udc su 39, due Idv – compreso
Di Pietro – su 22, cinque finiani – Bocchino incluso – su 29. Benedetto Della Vedova, capogruppo di Fli, ammette senza troppe remore: “Fesso che sono, dovevo pensare che sono peggio di quanto uno pensi”. Ce l’ha con quelli della maggioranza, “blindati su processo breve e testamento biologico” e assenti sull’economia. Ma anche con se stesso, che ha “dato per scontato” che si sarebbero presentati “in modo tetragono” come il giorno prima. E sì che al Parlamento – schiacciato sui decreti e sui temi cari al premier – non capita poi così spesso di poter lavorare. “È vero – dice Della Vedova – Ma c’è la campagna elettorale, è un momento particolare”.

Lo sostiene anche il Pd, che tra gli assenti ha tre candidati (
Fassino a Torino, Ceccuzzi a Livorno, Bobba a Vercelli) ma che, con l’sms di livello 1, ha sottovalutato il livello di guardia della maggioranza. Colpa delle prossime amministrative anche secondo l’Udc: “Ma è stato un errore – ammette Roberto Rao – e non lo ripeteremo. Comunque anche Di Pietro non c’era e nessuno lo ha accusato di fare la stampella”. Il leader dell’Italia dei Valori era assente al voto sul Def: “Era un voto come tanti altri, l’occasione sulla quale far cadere il governo è un’altra: sarà mercoledì quando si dovrà votare la mozione della pace proposta dall’Idv per la Libia”. Chi non la appoggerà, ecco il riferimento dell’Udc, farà “da stampella” al governo, da “ciambella di salvataggio” alla maggioranza. Se la rottura tra Lega e Pdl dovesse consumarsi definitivamente martedì, infatti, sarebbero le mozioni di Pd e Terzo Polo a tenere in piedi la linea dei bombardamenti sostenuta anche dal governo. “Noi facciamo da stampella al Paese in un momento di difficoltà”, dice ancora il centrista Rao. “Altro che stampella – gli fa eco il capogruppo Fli Della Vedova – il nostro è impegno serio”. E ricorda che la stampella, se vogliono chiamarla così, l’opposizione l’ha già fatta: in commissione, quando la Lega disertò, per poi far pace con il Pdl qualche giorno più tardi.

Anche stavolta, è convinto Della Vedova, “passato il fine settimana di campagna elettorale troveranno modo un po’ patetico di rimettersi insieme”. Eppure, due sere fa, è stato proprio il leghista
Matteo Salvini a disegnare lo scenario descritto da Di Pietro: “Sarebbe paradossale che il partito democratico con un voto favorevole accorra in soccorso del governo”. “Ma la stampella sono loro! – dice il veltroniano Walter Verini – . Noi dovremmo avere la forza di spiegare la nostra posizione al Paese, che è quella dell’Onu, di Obama, di Napolitano. Qui si gioca l’immagine del partito: su questioni straordinariamente rilevanti come queste, il fatto che sia anche la posizione del governo, è solo un effetto collaterale”. La scelta di chiedere un voto parlamentare sulla Libia, nel Pd, è arrivata dopo lunghi tentennamenti. E ha creato malumori all’interno del partito. Proprio oggi, in un’intervista al Foglio, l’ex segretario Walter Veltroni ha detto che dopo le amministrative sarebbe “opportuno aprire una discussione” sulla linea Bersani. Molto meno polemici, ma comunque amareggiati, anche il gruppo di parlamentari pacifisti. Vincenzo Vita ha chiesto “un chiarimento: non può certo essere il Pd a rischiare di sorreggere il governo”. Anche Enrico Gasbarra dice che “dentro il Pd il tema della pace tema dovrebbe avere un po’ più di spazio”. “Pagheremo un prezzo – osserva Andrea Sarubbi – anche perchè il nostro elettorato è contrario alla guerra”. Veltroni un po’ meno, direbbe Bersani.

da Il Fatto Quotidiano del 30 aprile 2011

IL SOLITO VALZER



Libia: la Lega minaccia la crisi di governo
Ma con B. è un balletto all’ombra del voto

di Sara Nicoli

A guardarli litigare si potrebbe pensare che si sia davanti all’ennesima messinscena, all’ultima trovata del duo Bossi-Berlusconi per tenere buona la base dei rispettivi partiti senza poi far perdere smalto a un’alleanza ormai quasi ventennale. Qualcosa, però, stavolta stride con lo schema di sempre. E insinua il sospetto; negli scambi di invettive degli ultimi giorni tra Lega e Pdl si nasconde di più del semplice gioco delle parti. Certo, l’unione di convenienza è destinata a durare fin dopo le amministrative. Bossi lo ha assicurato anche l’altra sera che in questa fase non farà “cadere il governo”. Poi, però, la musica del tango potrebbe cambiare. Calderoli lo conferma: “Partito il primo raid sulla Libia, tutto è diventato più difficile, mentre l’immigrazione è destinata a crescere sempre di più… ad oggi non vedo vie d’uscita”. Non ce ne sono, infatti. Dopo le urne il chiarimento sarà inevitabile.

Bossi pare avere intuito che a Milano le elezioni possono finire male. Casomai non proprio malissimo, con una sconfitta, ma comunque al ballottaggio e con una vittoria di misura. Certo, l’affaire Lassini ha fatto guadagnare punti al Pdl, mentre ha scollato ancora di più il popolo leghista che di vedere l’autore dei manifesti anti giudici “brigatisti” in consiglio comunale non vuole sentire parlare. Sono giorni che il senatùr ascolta le urla di scontento del suo popolo nei microfoni di Radio Padania e agisce di conseguenza. Perché, insomma, la stagione dell’alleanza granitica tra Lega e Pdl, caposaldo del governo, non paga più in termini elettorali. Men che meno sulla lunga distanza, par di capire.

Ci sono troppe cose che ora dividono gli alleati di sempre. Prima l’immigrazione, poi il caso Parmalat, infine la Libia e quel cambio di rotta improvviso di Berlusconi in politica estera senza neppure un cenno d’avvertimento, paiono aver minato in modo robusto un matrimonio che sembrava inossidabile. Il cahier de doleance del Carroccio si fa ogni giorno più lungo e velenoso nei confronti del Cavaliere. Che anche ieri, chiuso a Palazzo Grazioli per gran parte della giornata (ha saltato persino una conferenza stampa su Lampedusa dell’amata Brambilla) ha mandato segnali a Bossi, soprattutto attraverso Frattini, chiedendo ripetutamente di incontrarlo per “trovare la quadra”, come direbbe il senatùr. Ecco, la quadra stavolta pare più lontana. Il segnale arriverà martedì in aula, quando ci saranno da votare le mozioni sulla Libia e la Lega probabilmente si asterrà. “O forse – si sospirava ieri sera in via Bellerio – ci potrebbero essere molti assenti, quasi tutti...”. La strategia dello scontro frontale serve a massimizzare i voti delle ‘pance’ dei rispettivi partiti; “Se continuiamo a tirarci gli stracci – proseguiva la stessa fonte – gli antiberlusconiani della Lega verranno a votare e gli anti-leghisti del Pdl faranno lo stesso; ci conviene a entrambi di fare una campagna elettorale sull’onda di uno scontro forte”. Che i berluscones più accesi avevano intenzione di riproporre anche lunedì prossimo, quando Silvio sarà in Tribunale per il processo Mediaset. Era in previsione un’altra manifestazione sulle note di “Silvio Resisti”, solo che la Procura di Milano ha vietato il permesso. Così può anche darsi che il premier diserti l’aula del tribunale, accampando la scusa di dover incontrare qualche capo di Stato arrivato a Roma per la beatificazione di Wojtyla. Se non c’è la manifestazione, a che serve andare dai giudici?

ECCO, ANCHE questa è una delle tante cose che Bossi non manda giù, ma non l’unica. Vorrebbe Matteo Salvini come vice sindaco di Milano in caso di vittoria della Moratti, ma Silvio non gli ha ancora dato risposta. Ha chiesto di non dare tutti e otto i posti vacanti da sottosegretario ai responsabili (“che poi sono tutti del sud”, sarebbe stato il suo commento), ma di lasciarne almeno tre alla Lega in modo da rinforzare la posizione nel governo, ma anche su questo Berlusconi gli ha dato il due di picche. Infine quel voltafaccia su Gheddafi e il sì ai bombardamenti senza neppure avvertirlo. Certo, un calcio Bossi lo ha assestato al Cavaliere con quella battuta dell’essersi messo in ginocchio da Sarkozy, ma il veleno era da leggere tra le righe; il senatur sa quanto Berlusconi tiene agli accordi siglati con la francese Edf sul fronte della fornitura del gas e del nucleare, di lì la coltellata. Infine c’è la questione più spinosa, che riguarda Tremonti. Ma soprattutto la Banca d’Italia. La Lega, con il ministro dell’Economia, punta a mettere al posto di Draghi (in vista della poltrona più alta della Bce) il fedelissimo Grilli, mentre Berlusconi, che non è mai riuscito ad incidere nel salotto bancario di via Veneto, stavolta non vuol fare tappezzeria. Insomma, non sono pochi e leggeri i motivi di distanza tra Bossi e Berlusconi, ma sono tanto palesi da convincere il coordinatore di Fli, Roberto Menia, a levare il tappeto per mostrare la polvere: “Questa urlata insofferenza tra Pdl e Lega, che finisce a pacche sulle spalle, nasconde nient’altro che un mercato delle vacche, altrimenti ci dovrebbe essere voto di rottura in Parlamento”. Che invece, come si diceva, non ci sarà. Anche ieri sera, infatti, Bossi è salito sul palco di Milano per la manifestazione in sostegno di Letizia Moratti mentre Berlusconi blandiva l’elettorato cattolico ricordando Wojtyla come se fosse stato un suo parente stretto giurando di non aver mai fatto una legge “contro i valori cristiani”. Contro la Costituzione, invece, eccome. Comunque, la verità è che a Bossi non dispiacerebbe vedere Tremonti presto al posto del Cavaliere per finire una legislatura e portare a casa, definitivamente, il federalismo. Con Silvio a Palazzo Chigi e tutti i suoi guai personali il risultato potrebbe non essere altrettanto scontato. Ecco perché, dopo le elezioni, comincerà un’altra partita e i referendum saranno l’ultimo banco di prova della tenuta dell’alleanza e della maggioranza di governo. Sempre che ci si arrivi.

venerdì 29 aprile 2011

TORRE NUOVA

Libia, la Lega non arretra e Calderoli ribadisce: “Non vedo vie di uscite”


Il governo tiene ma sui raid militari in Libia la Lega non arretra di un passo. La frenata di Umberto Bossi che ieri aveva assicurato di non voler far saltare la coalizione è durata poche ore. “Se Silvio non cambia linea può capitare di tutto”, ha detto alla sua gente riunita a Domodossola giovedì sera. Per poi annunciare la speranza di non dover aprire la crisi di governo: “Spero proprio che non ci sia”. Senza risparmiare critiche al Cavaliere per il ‘fuoco amico’ che Giulio Tremonti ha subito in questi giorni e alla genuflessione alla Francia: “Berlusconi è rimasto imbambolato da Sarkozy”, ha detto.

Oggi Roberto Calderoli ha rincarato la dose in una intervista a ilsussidiario.net: “Non vedo vie d’uscita. Si rischia di chiudere la stalla quando i buoi sono già scappati”. Il ministro della Semplificazione normativa storce il naso nel leggere l’interpretazione data dai berlusconiani alla vicenda: “E’ abbastanza irritante sentir parlare di fibrillazioni interne alla Lega: se c’è un partito in cui quando parla uno, Bossi, parlano tutti è proprio il nostro”. E il Capo di cose ne dice. Anche sul fronte amministrative: “
A Milano corre Berlusconi, se perde perde Berlusconi”. Con il passare delle ore le tensioni aumentano. Il presidente del Consiglio tace: trascorre l’intera giornata a palazzo Grazioli e ai suoi chiede di tenere i toni bassi per non alimentare nuove fibrillazioni.

Le opposizioni cavalcano le divisioni.
Pierluigi Bersani, leader del Pd, non ha dubbi: “Il governo, ha perso la faccia, è una barca senza la rotta”. E se la maggioranza ragiona sulla possibilità di presentare una mozione in Parlamento da sottoporre al voto dell’Aula, i democratici hanno depositato la propria mozione favorevole alla linea scelta dall’esecutivo con l’obiettivo di rendere palesi le divisioni Pdl-Lega. E il Carroccio non fa marcia indietro. Perché il Capo non ha ancora sbollito la rabbia per come il Cavaliere ha gestito la vicenda. I leghisti si sentono traditi, il comportamento del premier non è stato corretto nei confronti del’alleato più fedele, il Senatur appunto, e di un partito, il Carroccio, che “è il vero pilastro portante di questa maggioranza”.

Non solo: dalle parti di via Bellerio non va giù il fuoco di fila nei confronti di Giulio Tremonti e continua a difendere a spada tratta il ministro dell’Economia dal fuoco amico del Pdl.
Manuela Dal Lago, deputato e presidente della Commissione Attività produttive della Camera, spiega gli umori del partito: “Il comportamento del presidente del Consiglio non è stato certamente un comportamento corretto. Forse si dimentica che non è il padrone dell’azienda, ma un capo di governo”, dice. Per Calderoli non ci sono dubbi: “Partito il primo raid, è tutto molto più difficile”. Poi annuncia che la Lega si tiene la mani libere nel voto parlamentare sulla missione. “La politica estera è una cosa, la missione in Libia un’altra, così come non fa parte del programma elettorale. Non ci sentiamo legati al programma su questo, anche perché non se ne era mai parlato”. Guido Crosetto, deputato pidiellino e sottosegretario alla Difesa assicura: “Il costo complessivo di tre mesi di missione militare in Libia, incluse le spese non ricorrenti (il costo del carburante degli aerei e il trasporto del personale nelle basi, per esempio) “è pari a 150 milioni di euro”, e il nuovo utilizzo dei Tornado (anche per missioni di bombardamento, ndr) “non aggrava molto dal punto di vista economico. Quest’ultima decisione non è quindi un problema economico, ma politico”.

Nel Pdl si tenta di gettare acqua sul fuoco. Il capogruppo alla Camera, Fabrizio Cicchitto, assicura: “Nei prossimi giorni lavoreremo per far si che comunque venga consolidata l’alleanza di governo. Per parte nostra abbiamo già rilevato che, a fronte della linea del governo che rimane chiaramente nell’ambito della Risoluzione della Camera approvata il 24 marzo, le nuove mozioni presentate dall’opposizione sono o pleonastiche e tattiche oppure mirate solo a rimettere tutto in questione”. Critica resta la posizione di Fli. Per Carmelo Briguglio, “la mozione del terzo polo è inevitabile per le ambiguità del premier e non certo della Lega”.
Benedetto Della Vedova, capogruppo alla Camera del partito, osserva: “Ha ragione la Lega, il quadro è cambiato. E’ da ridere che mentre il Carroccio fa la voce grossa, il Pdl, anziché replicare al suo alleato, continui a spiegare che la verifica parlamentare della tenuta della maggioranza sui temi della politica estera sarebbe istituzionalmente scorretta”. Per Lorenzo Cesala Lega abbaia, si agita, ma poi torna sempre a cuccia”. Il centrosinistra attacca su tutti i fronti per far emergere le divisioni del governo.

La mozione sulla Libia che il Pd presenterà alla Camera il prossimo 3 maggio, garantisce Bersani, non sarà la sponda al governo: “E’ l’esatto contrario del salvagente. La nostra è una mozione in grado di fare emergere le storture della maggioranza. Di questo si tratta. Il governo è una barca senza rotta e senza timone ormai da mesi, sia nella politica interna, sociale, economica, del lavoro e sia in quella internazionale. Abbiamo perso credibilità -insiste- abbiamo perso la faccia con mezzo mondo, abbiamo avuto delle catastrofi diplomatiche, anche recenti, vedi l’incontro con la Francia e adesso ci segnaliamo per uno sbandamento micidiale su un tema delicatissimo come quello della Libia”. E ancora: “Io sono abituato a vedere che la Lega alza il tono ma poi lega il Carroccio all’imperatore”. L’Idv chiede invece, per bocca di
Antonio di Pietro, che il Pd “non faccia la stampella alla maggioranza. “Non vorremmo mai che il voto del 3 maggio si trasformasse da una Caporetto del centrodestra nella pietra tombale del centrosinistra”, dice il capogruppo alla Camera, Massimo Donadi. “Tutte le opposizioni, unite, votino contro la risoluzione del governo – aggiunge Antonio Borghesi – la maggioranza è in frantumi e dobbiamo cogliere questa straordinaria opportunità”.

La rabbia leghista da Radio Padania alla festa milanese



La base leghista rimane fedele al Capo ma è stanca dell’alleanza con Silvio Berlusconi. E la rabbia che da giorni esprime a Radio Padania si sposta alla festa nazionale dei giovani Padani al castello Sforzesco a Milano, dove stasera è previsto l’intervento di Umberto Bossi.

“Non siamo disposti a venderci per gli ultimi due o tre decreti del federalismo fiscale”: sull’intervento militare in Libia i giovani padani scelgono la linea della fermezza. A Milano per la festa del movimento, la militanza under trenta non ha dubbi: “Se Berlusconi tira la corda siamo pronti a far cadere il governo”. A dirlo è il diciottenne Giacomo Perocchio, candidato sindaco a Merana in provincia di Alessandria, che nonostante la giovanissima età ammonisce: “Lo abbiamo già fatto nel ’94”. L’alleato Berlusconi piace poco alla base leghista, e ancor meno ai giovani. “Portiamo avanti l’alleanza per mantenere le promesse fatte al nostro popolo”, spiega Martina Emisfero del Movimento Giovani Padani. A riportare un po’ di moderazione ci pensano i meno giovani. Un volontario bergamasco addetto alla ristorazione ricorda che alla fine a decidere è sempre Bossi, e il segretario provinciale Igor Iezzi rassicura: “Sulla Libia Berlusconi ha sbagliato – precisa – ma con Bossi hanno sempre trovato la quadra, anche in momenti peggiori. Lo faranno anche questa volta”.

Da giorni ormai la base esprime la propria contrarietà. “Il nano cala le braghe, dobbiamo uscire dal governo: fuori”, scandiscono da giorni gli ascoltatori a radio Padania, fedele voce della pancia del Carroccio, da pochi mesi diretta da
Renzo Bossi, “calato” dall’alto come supervisore sulla gestione di Matteo Salvini che da oltre dieci anni ormai conduce il microfono aperto mattutino. Ascoltare radio Padania è istruttivo per chiunque voglia comprendere l’universo leghista. Bastano pochi minuti per capire cosa rappresenti il Capo per la base: è il faro, la guida indiscussa, la legge. Umberto Bossi ascolta gli umori della sua gente e spesso gli dà voce. Querelle sulla missione in Libia e il caso Francia hanno messo in accordo, dopo mesi di attriti sul processo breve e sul conflitto d’attribuzione (gli ultimi in ordine di tempo), base e Capo.

“Siamo succubi di Sarko”, dicono alla radio i militanti leghisti. Su Parmalat “il nano ci prende per i fondelli dicendo che ‘non si tratta di un’Opa ostile’, la verità è che sta diventando sempre più impresentabile dentro e fuori i confini”. E ancora: “Berlusconi non ci rappresenta più”, “foera di ball”, “è inesistente, un venditore di tappeti taroccati”. Il premier “si inginocchia a Parigi”, ripetono sul caso Parmalat, mentre sui bombardamenti in Libia qualcuno se la prende oltre che con il Cavaliere anche con il ministro Ignazio La Russa. “Spero che la Lega non partecipi all’ennesimo genocidio, farei fatica a digerirlo; La Russa non esistono bombe intelligenti: uomini stupidi si, ma bombe intelligenti no”. Sul sito c’è pure un forum, aperto dal 5 aprile scorso, dall’eloquente titolo: “Fuori dal governo”.

Ma oggi è arrivata la voce di Bossi, accolta con piena condivisione e un coro di “evviva, era l’ora”. Dal Capo sono arrivate critiche al premier e i no ai raid aerei in Libia e all’Opa di Lactalis su Parmalat. “Berlusconi è rimasto scombussolato da
Sarkozy”, ha detto ieri sera a Domodossola. “Stop ai raid o può accadere di tutto”, ha minacciato. E su Parmalat: “Noi avevamo fatto un decreto legge per salvare la Parmalat mettendo dentro le nostre banche. E adesso Berlusconi dice che va bene il mercato, che è una cosa giusta, non possiamo perdere tutte le nostre imprese e regalarle ai francesi”. Andandosene ha poi lanciato una sorta di minaccia: “Governo non cade, spero non ci sia una crisi”. Ed è solo questo il passaggio che non ha trovato concordi gli ascoltatori di Radio Padania. “Dovremo farlo cadere il nano, altroché”, dice Luigi. “Ora facciamo le amministrative – suggerisce un altro ascoltatore – poi quando la Lega stravincerà anche a Milano potremo pretendere e non accettare più”.

Napoli, aggredito il candidato sindaco Pdl Vendola: “Vogliamo sconfiggere le sue idee, non lui”


Gianni Lettieri stava partecipando a una manifestazione elettorale quando una deicna di giovani l'hanno spintonato e insultato. Poco prima, uno dei suoi addetti stampa sarebbe stato percosso. Sul caso adesso indaga la polizia

Insulti, spintoni, sputi e la fuga dentro una vicina basilica. Così alcuni testimoni raccontano l’aggressione a Gianni Lettieri, candidato sindaco di Napoli per il Pdl, da parte di una decina di giovani in piazza San Gaetano, nel centro storico. Lettieri stava partecipando a una manifestazione elettorali, quando i ragazzi si sono avvicinati urlando “Fascista, fascista!” e tentando di colpirlo con calci e pugni. La calma è stata riportata con l’intervento della Digos, che ha subito allontanato il candidato, portando nella vicina Basilica di San Lorenzo.

Poco prima, alcuni componenti del suo staff – e in particolare uno dei suoi addetti stampa – pare abbiano subito percosse. Alcune ragazze che trainavano in bicicletta elettrica manifesti elettorali di Lettieri sarebbero state accerchiate e spintonate. Momenti di tensione si sono registrati anche davanti la sede del Pdl a piazza Bovio.

Non è ancora chiaro se l’aggressione a Gianni Lettieri sia da collegare alla rissa di stamattina tra universitari di diverso colore politico alla facoltà di Lettere dell’università partenopea Federico II, in via Porta di Massa. Nello scontro, quattro ragazzi sono rimasti feriti. Sul caso dell’aggressione al candidato – e sull’eventuale collegamento con la rissa – indaga adesso la polizia.

Solidarietà a Lettieri è subito arrivata dall’opposizione. “Da giorni condanniamo un clima di violenza e tensioni che si respira in questa campagna elettorale – hanno scritto in una nota
Enzo Amendola, segretario regionale Pd Campania, e Andrea Orlando, commissario provinciale Pd – montato anche con un’escalation di dichiarazioni sempre più aggressive e inaccettabili”. “La violenza è nemica della democrazia e della buona politica”, ha commentato Nichi Vendola, leader di Sel, a margine di un incontro a Napoli a sostegno del candidato sindaco di Pd e Sel, Mario Morcone. “Noi vogliamo sconfiggere con le idee il candidato del Pdl – ha concluso Vendola – ma lo vogliamo in buon salute”. E anche Morcone, sfidante di Lettieri, gli manda la sua “solidarietà piena e amicizia” e “l’impegno di garantire un clima di confronto civile”. Vicinanza a Lettieri è stata espressa anche dal suo stesso partito. “E’ intollerabile – ha commentato il presidente dei senatori del PdL, Maurizio Gasparri - Conosciamo bene i loro metodi (degli autori dell’aggressione ndr) e l’uso che fanno non certo della parola ma delle armi. E rappresentano certamente una macchia ed una vergogna per chi non sa affrontare con la democrazia e la libertà la competizione elettorale”.

Radio Padania: Il “nanetto” e la Francia


ELISABETTA REGUITTI

La telefonata più dura arriva intorno alle 16.30 quando Roberto da Castelletto Ticino chiede: “Ma è vero che Berlusconi si è comprato la Lega? L’ho letto su di un libro”.

Click. Viene interrotta la linea su Radio Padania Libera mentre il conduttore della trasmissione inizia un monologo sostenendo, al contrario, l’esistenza di un atto notarile con il quale Umberto Bossi avrebbe addirittura comprato Mediaset.

In realtà il tema della giornata era un altro, le bombe sulla Libia ovviamente. Il problema potrebbe essere riassunto nella frase di un militante leghista che in diretta radio afferma: “Il nanetto ha calato le braghe con la Francia”.

Cosa ne pensa il popolo padano? A poco sono serviti gli interventi di due capi leghisti, chiamati per stemperare i toni, ma che forse con le loro parole sono riusciti a fare anche danni peggiori.

Inizia il sottosegretario Roberto Castelli che risponde sghignazzando a chi gli chiedeva che fine avrebbe fatto il trattato con la Libia in caso di attacco armato: “Ma voi l’avete letto quell’accordo? Ecco, io l’ho letto e forse è meglio lasciar perdere”.

Apriti cielo. Un ascoltatore che si qualifica come Francesco irrompe: “Sono sbalordito dalle parole di Castelli. Cosa significa? Che il trattato con la Libia è una barzelletta? Oppure che abbiamo dato tutto a Gheddafi?”. Francesco, come previsto, non riceve alcuna risposta. Così come del resto Marco da Melzo che riprendendo le parole del ministro Ignazio La Russa riguardo alle “bombe intelligenti” attacca: “Esistono uomini stupidi ma con bombe intelligenti”.

Per Anna da Pavia invece la soluzione per risolvere il problema dei profughi c’era già: “L’Europa doveva fare una barriera di navi nel Mediterraneo per impedire l’invasione”. Marisa da Venezia, sull’attuale posizione della Lega Nord che si dice contraria alla guerra in Libia, pensa che alla fine si dovrà ingoiare l’amaro boccone: “Abbiamo firmato un contratto per il federalismo e dobbiamo fare patti anche con il diavolo. Che per noi è Berlusconi”.

Alle 17.30 parla Stefano Stefani presidente della commissione Affari esteri che si dice allarmato per un nuovo rinvio del Consiglio dei ministri inizialmente previsto per domani. Poi se la prende con il ministro degli Affari esteri Franco Frattini per l’atteggiamento di ospitalità avuto con i leader dell’opposizione libica Jalil dicendo: “Ma chi è questo qui? Chi lo ha eletto? È pur sempre solo un capo tribù e appoggiarlo significa avere un dittatore e mezzo invece che uno solo (Gheddafi)”.

Il popolo padano è incavolato e non poco con l’alleato Silvio Berlusconi che Bossi comunque non può certo mollare a poche settimane dalle elezioni amministrative e con gli accordi (Milano a parte) ormai fatti. Ernesto inizia: “Basta, non ne possiamo più di questo qua. Lo dobbiamo mandare a casa. Lui e i suoi bunga bunga”.

Si è finito con gli insulti anche ieri da Radio Padania Libera che in mattinata aveva invece mandato in onda un intervento pacifista del vicario apostolico di Tripoli, monsignor Giovanni Innocenzo Martinelli, che invitava i politici a “rinsavire”. Per il presule manca chiarezza sulla vicenda libica in cui gli interessi dei poteri forti vengono prima delle ragioni umane.

Il Fatto Quotidiano, 28 aprile 2011

Caro Masi, non ci mancherai


SONIA ALFANO

Caro Mauro,
giunti ormai alla fine del tuo percorso Rai, possiamo darci del tu. Possiamo parlarci da cittadina ad affossatore del sistema radio televisivo pubblico italiano. Ci possiamo, intendo, concedere una chiacchierata, uno di fronte all’altra, senza che tu debba temere nulla, se non che io ti rinfacci veltronianamente, ovvero pacatamente e serenamente, i tuoi danni nei nostri confronti.

E’ ormai appurato che a giorni, al massimo entro l’11 maggio, lascerai la Rai per assumere l’incarico di ad della Consap, la concessionaria dei servizi assicurativi pubblici controllata dal ministero del Tesoro. Pare che già lì stiano facendo gli scongiuri e sperino che si tratti quantomeno di omonimia. A chi sostiene che non hai le competenze per questo ruolo puoi rispondere che non le avevi nemmeno per fare il direttore generale della Rai, eppure lo hai fatto per due anni senza che nessuno se ne accorgesse, a parte i telespettatori, le concessionarie pubblicitarie, i critici, i tuoi giornalisti che ti hanno sfiduciato in massa e tutti i dipendenti Rai che non fanno altro che esultare all’idea di non incontrarti più nei corridoi dell’azienda.

So che rivestire un ruolo in cui non potrai continuare a servire la causa mediatica del tuo punto di riferimento politico etico e morale, Silvio Berlusconi, ti provocherà profonde frustrazioni. Victor Hugo sosteneva che c’è gente che pagherebbe per vendersi, ma io, superato questo momento di profonda commozione, ti sarò accanto in questo percorso di transizione, sia di ruolo che di posizione, professionale e fisica si intende.

Ricordo con nostalgia i tuoi successi in Rai, a partire da quello che considero tuo degno commiato, ovvero quella intensa telefonata di fine gennaio alla trasmissione Annozero, per “criticare” l’impostazione della trasmissione. Che momenti, che emozioni, e pensare che mai più torneranno…

E ricordi quando, per fare un plateale smacco alla tua azienda a favore della tv del tuo santone, decidesti di togliere i canali Rai Sat dalla piattaforma Sky? E rimembri ancor Giada Kulyte, per la quale firmasti direttamente tu il contratto dopo che la direzione del settore risorse l’aveva cassata per mancanza di curriculum? A “Il lotto alle otto” guadagnava 1.500 euro a puntata, quasi il quadruplo rispetto al povero Tiberio Timperi che della trasmissione era conduttore.

Tutti ingrati, caro Mauro, caro il mio segretario generale della Presidenza del Consiglio dei ministri e Capo di Gabinetto del Vicepresidente del Consiglio dei ministri durante i governi Berlusconi II e III. E si permettono anche di ironizzare: dicono che per convincerti ti abbiano offerto 765.000 euro all’anno; 50.000 in più rispetto a quelli che ti pagavamo alla Rai. Che saranno 50 mila euro…? Detto tra noi, te ne avrei dati 100 mila in più a patto che sparissi dalla tv pubblica.

E dunque finisce così la pagina più buia della Rai, la più nera di sempre. Poche sono le missioni in cui hai fallito, eppure ce l’avevi messa tutta. Per esempio, missione fallita: cacciare un dirigente serio e capace come Loris Mazzetti. Lo hai sospeso per dieci giorni, auspicandone il licenziamento, perchè non ha gradito l’auto-invito del Ministro Maroni a “Vieni via con me”, e il gioco di prestigio ti è riuscito: hai permesso al leghista di fare un tour mediatico di rara intensità. Lo hai sospeso per 15 giorni perchè una puntata di “Vieni via con me” aveva sforato di 2 minuti. Lo hai sospeso per le critiche espresse su Il Fatto Quotidiano. Una sorta di persecuzione durata due anni nei confronti di un capostruttura che ha tenuto incollati a Rai 3 milioni di spettatori. Mai ti sei preoccupato della direzione del Tg1, della gestione Minzolini. E’ evidente che mai nessuno aveva fatto peggio di te ed era stato così incompetente. Ma la competenza non è tutto caro Mauro, spiegalo a loro. Una pelle sempre abbronzata artificialmente come la tua, dei capelli e dei baffi così curati… chi riuscirà a dare un’immagine così attraente della Rai adesso?

La risposta è nessuno. E forse anche lui riuscirà a fare meglio di te.

LO SCIPPO


Chi non salta (con B.) comunista è


di Flavia Perina

Caro direttore,

innanzitutto complimenti per lo scoop di ieri sul sopralluogo di Silvio Berlusconi sul set della nuova trasmissione di Vittorio Sgarbi su RaiUno: è importante sapere che il nostro premier si prende personalmente cura dell’offerta della prima agenzia formativa del Paese e di temi alti come il rapporto con Dio (“Mi rimprovera sempre che con me fa solo il vicepresidente”, ha scherzato Silvio) al quale sarà dedicata la puntata d’esordio.

La riconquista dell’egemonia culturale attraverso la promozione di personaggi come Sgarbi è uno dei pallini della destra berlusconiana, che da quindici anni lamenta di essere marginalizzata da un apparato radical-chic che avrebbe il monopolio delle idee e del sapere.

Gaetano Quagliariello è arrivato al punto di attribuire allo strapotere intellettuale della gauche e al suo “monopolio della interpretazione storica, delle ricorrenze, persino della legittimità costituzionale” le difficoltà del governo, che in quanto estraneo a quella egemonia sarebbe considerato “figlio di un dio minore, frutto avvelenato degli istinti più bassi di un popolo che ha tradito i suoi vati”.

È un ritornello che sento dagli anni ‘70. Solo che allora, a recitarlo, era una destra ghettizzata e in affanno. Ora sono i padroni delle tv, delle case editrici e dei giornali, e la faccenda fa decisamente ridere, assieme alle datate battute sulla gauche-champagne (che magari è esistita ai tempi di Tom Wolfe o di Alberto Moravia, ma è sparita da un pezzo e senza lasciare eredi). Con un pochino di attenzione in più, si potrebbe invece riconoscere un fenomeno del tutto inedito e spiazzante per le vecchie categorie: l’emersione degli intellettuali “operai”, persone che non vengono dai salotti ma da esperienze biografiche immerse nella realtà vera e nell’anima profonda del Paese. Persone che “si sporcano le mani” non solo con l’inchiostro del toner ma anche con la fatica della politica. Penso, come è ovvio, al Premio Strega dello scorso anno, Antonio Pennacchi, che ha dato il suo nome a una lista “per liberare Latina dai clan”. Ma anche a uno degli autori in pole position per la vittoria nell’edizione di quest’anno: Edoardo Nesi, candidato con “Storia della mia gente” (Bompiani, 161 pagg, 14 euro).

Nesi ha guidato per 15 anni l’azienda tessile della sua famiglia, a Prato, e racconta l’avventura del piccolo capitalismo familiare italiano, la sua intrinseca moralità, la capacità di trasportare tutti, “capaci e incapaci, industriali e dipendenti” ben oltre i loro limiti tra gli anni ‘80 e i ‘90, prima che quell’esperienza si diluisse nell’informe “popolo delle partite Iva”.

Come Pennacchi, insomma, Nesi nasce in fabbrica e non nei caffè letterari. E come lui non si limita a scrivere o a presentare libri: a Prato è assessore alla Cultura e allo sviluppo economico della Provincia, e già l’associazione delle due competenze è rivelatrice di un approccio del tutto nuovo ai temi della cosa pubblica.

Una destra degna di questo nome riconoscerebbe nel lavoro, nelle biografie (e nel successo) dei Pennacchi e dei Nesi e nel carattere “patriottico” dei loro romanzi un sicuro ancoraggio per il racconto popolare italiano: l’antidoto più autentico alla cultura salottiera che tanto disprezzano. E anche le inedite scelte di impegno attivo in politica dovrebbero suscitare attenzione: senza fare paragoni sconsiderati, l’interventismo degli intellettuali sembrava seppellito con il Novecento ed è singolare vederlo rispuntare a Latina e a Prato, città piccole ma di enorme valore simbolico nell’immaginario nazionale. E invece, la destra pidiellina è sempre lì, inchiodata alla lagna sui salotti, all’idea che l’egemonia si conquisti mettendo Sgarbi contro Saviano, all’invettiva contro i premi elettorali da abolire (ieri su Libero: “Diamo allo Strega quel che si merita: il rogo”). Insomma, ferma all’incrocio tra la parodia goebbelsiana – “quando sento parlare di cultura metto mano alla pistola” – e il coro da stadio: chi non salta (con il premier) comunista è.

MATTARELLUM E DEMOCRAZIA


di Bruno Tinti

Il Fatto ha già pubblicato un autorevole parere della professoressa Carlassare sull’ultima iniziativa di B.: il dl truffaldino che sospende il programma nucleare del governo per il tempo necessario a impedire il referendum del 12 giugno: si tratta di un dl illegittimo che potrà essere oggetto di ricorso alla Corte Costituzionale, la cui pronuncia dovrà essere valutata dalla Corte di cassazione.

Naturalmente tutto ciò richiede del tempo e quindi il giochetto di B. ha molte probabilità di raggiungere il suo scopo.

Quello che è perfino più preoccupante del sabotaggio al referendum è però l’escalation di B&C nell’utilizzo spregiudicato delle istituzioni. Si è cominciato con le spudorate ammissioni di alcuni C di B. (Belpietro e Cicchitto) ad Annozero: sì, è vero che B. si è fatto leggi su misura che avevano e hanno lo scopo di impedire alla magistratura di processarlo e, se del caso, di condannarlo. Ma che diavolo, è sottoposto a talmente tanti processi da rendere evidente che si tratta di una persecuzione; qualcosa deve pur fare per difendersi.

Sì, è vero che queste leggi su misura non fanno proprio bene all’amministrazione della giustizia e, come conseguenza, al popolo italiano tutto; ma un premier deve essere messo in condizioni di governare: è il prezzo che si paga all’ostinazione complottistica dei magistrati.

Adesso abbiamo la rivendicazione della legittimità dell’illegittimità: qualsiasi mezzo, formalmente corretto, è buono per impedire al popolo di opporsi alle scelte del governo.

È vero che la Costituzione prevede lo strumento referendario; è vero che si tratta di uno strumento di democrazia diretta che garantisce, al di là di ogni mattarellum o porcellum, la sicura identificazione della volontà popolare. Ma noi non possiamo permettere al popolo di vanificare i nostri progetti; e quindi gli dobbiamo impedire di pronunciarsi.

Per chi, come me, ha calcato aule di giustizia per tanti anni, questo scenario è assolutamente consueto. Ogni rinvio per difetto di notifica, ogni nullità fatta valere ad anni di distanza dall’inizio del processo, ogni evidente sfruttamento di inadempimenti formali ha sempre avuto un solo scopo: assolvere l’imputato. Si può essere tutti d’accordo: trattasi di un fottuto delinquente ma... la data dell’udienza è stata comunicata solo all’avvocato (che gliel’ha detto) ma a lui no; bisogna ricominciare tutto da capo; ma è tutto prescritto! Eh, la legge è legge.

Perché questo esempio? Perché si tratta della stessa malattia: l’uso spregiudicato di ogni strumento, ancorché legale, per raggiungere i propri fini; non necessariamente illeciti: un avvocato che usa delle formalità del codice per evitare la condanna del suo cliente compie il suo dovere; un premier che si fa fare leggi che gli evitino la galera meritata, ovviamente no.

Sotto questo profilo violare la Costituzione con escamotage formalmente corretti non è meno grave di quanto non lo sia violarla bloccando le strade con i carri armati; sempre di spregio della volontà popolare si tratta, sempre di violenza alla democrazia, sempre di uso indegno del potere. Alla fine la Corte costituzionale dichiarerà l’ennesima violazione della Carta; ma ciò che è veramente grave è l’improntitudine di un presidente del Consiglio che rivendica il suo diritto (diritto) di impedire un referendum. C'è un solo modo per fargli capire che l’Italia è ancora un paese civile e democratico: andare in massa a votare per i due residui referendum; e buttargli in faccia un tale plebiscito di rabbia e disprezzo da, per dirla con Shakespeare, “muovere a rivolta e tumulto in Roma anche le pietre”.

Bossi, Milano e la tentazione della “carognata finale”


di Fabrizio d’Esposito

Secondo giorno, ieri, di bombardamento leghista sul Cavaliere. Altro titolo celodurista della Padania, house organ del Senatur mai compulsato come in questi giorni: “Bombe uguale più clandestini. Il Carroccio non arretra”. La crisi libica, col passare delle ore, rischia di non essere più il solito giochino delle parti tra il premier e Umberto Bossi. Anzi, se prima questo era un sospetto rassicurante nell’inner circle di Palazzo Grazioli, adesso inizia a diventare una speranza. Di qui la reazione del Giornale di famiglia che ha sparato contro “Tremonti che aizza la Lega”, avvisaglia di un possibile trattamento Boffo per il ministro dell’Economia e anche estremo tentativo di offrire una sponda al Senatur, visto che il “cattivo” viene individuato nel divo Giulio della Seconda Repubblica.

A questo punto, infatti, quella che potrebbe essere la partita finale del governo, tra le bombe su Tripoli e le elezioni di Milano, ruota interamente al patto umano e anche notarile (ne fu testimone l’eurodeputato leghista Speroni) tra B. & B., Berlusconi e Bossi, sottoscritto un decennio fa.

È stato lo stesso premier a dirlo nella cena dell’altra sera a casa di Melania Rizzoli, deputata del Pdl e moglie dell’editore Angelo: “Io e Umberto ormai ci conosciamo da vent’anni, il nostro rapporto è solido, lui non mi farebbe mai scorrettezze”. A detta sempre del premier la colpa sono le “fibrillazioni del Carroccio” che finiscono per alimentare le ambizioni tremontiane, che ci sono eccome. Non a caso, il correntismo che scuote la Lega è stato denunciato anche dal direttore del Giornale nel suo editoriale di ieri: “Nella Lega c’è chi getta acqua sul fuoco. Sfasciare tutto per cosa?”.

UNA PAURA che corrisponde alla fotografia consegnata alle otto di ieri sera da un alto esponente della Lega a microfoni spenti: “Il Capo è incazzatissimo con Berlusconi e ancora non gli risponde al telefono. Vuole votargli contro in Parlamento e Maroni e Calderoli lo sobillano in nome di Tremonti”.

Nel Carroccio la tentazione di rompere è forte e questo spaventa molto il cerchio magico che da qualche anno protegge e circonda il Senatur anziano e malato, che beve litri di Coca Cola e fuma sigari fino a notte fonda. Quel cerchio magico composto dalla moglie Manuela Marrone, dalla vicepresidente del Senato Rosi Mauro, dai capigruppo parlamentari Marco Reguzzoni e Federico Bricolo, dal sottosegretario Belsito.

La loro pressione per ricucire con il Cavaliere è forte, ma stavolta Bossi sta pensando davvero alla rottura. Per un motivo molto semplice: nonostante i postumi dell’ictus e un cuore malandato da novantenne, il Capo ha intuito che il tasso di antiberlusconismo della base leghista è salito oltre il livello di guardia.

Lo confermano le telefonate dei militanti arrivate anche ieri a Radio Padania, senza filtro: “Sono deluso da Berlusconi. Sono molto, molto deluso soprattutto per le scelte sulla Libia” (Giacomo da Varese); “Secondo me Berlusconi è cambiato da quando si è separato dalla moglie. Poi io dico che un ricco non può capire chi tira la cinghia per arrivare a fine mese” (Rosetta da Varese); “Chi è il nostro alleato lo scopriamo adesso?” (sms); “Meglio che Berlusconi si dimetta, non se ne può più” (sms).

Per quanto incline a seguire i consigli della moglie e del cerchio magico, il Capo sa perfettamente che “la nostra gente” è decisiva per la sopravvivenza della Lega. Anche perché il Carroccio guadagna sì in percentuali elettorali ma continua a perdere voti in termini assoluti. Rispetto al 1996, quando andò da solo, manca all’appello un milione di voti.

NEI DUBBI del Senatur si sono infilati i due colonnelli Maroni e Calderoli, rivali ma uniti contro il cerchio magico. Il ministro dell’Interno, mercoledì scorso, ha sconfessato Reguzzoni, che potrebbe perdere il posto di capogruppo e fare il sottosegretario (la rosa comprende anche Brigandì e Sgarbi in quota Lega). Nello stesso giorno, ai funerali di Ferrero ad Alba, Calderoli è stato gelido con Berlusconi. Maroni lavora per una Lega autonoma da B. Calderoli ha un asse con Tremonti e ha commentato così l’inizio dei raid: “Solo quattro parole: di male in peggio”. La nottata per B. sarà lunga. Perché dopo la Libia, ci sono le elezioni a Milano e il Capo potrebbe optare per l’effetto Brunetta, ossia il disimpegno leghista che ha fatto perdere il ministro della Funzione pubblica a Venezia. Un modo per salvare il rapporto umano e scaricare la caduta del governo sulla “nostra gente che non ne può più”. In pratica, una “carognata”. L’ultima di Bossi a B.