25/2/2010
LUCA RICOLFI
Ci risiamo. Ogni volta che, sui giornali o in tv, escono spezzoni di intercettazioni scottanti, il riflesso condizionato è sempre quello: la politica dissotterra uno dei molti disegni di legge per «limitare» le intercettazioni, i magistrati e una parte dell’opinione pubblica si ribellano, i giornalisti entrano in fibrillazione perché temono di perdere uno degli ingredienti più croccanti del loro lavoro.
A rigore, il problema è semplicemente insolubile. Nessuna disciplina delle intercettazioni, infatti, può tutelare, contemporaneamente, i tre diritti che sono in gioco: quello alla privacy, quello alla sicurezza, quello all'informazione. Si tratta dunque di scegliere, o meglio di trovare un compromesso il più ragionevole possibile fra i tre diritti.
Prima di scegliere, tuttavia, varrebbe forse la pena fare i conti con alcuni dati di fatto. La storia recente delle intercettazioni, innanzitutto. Nel 2001 i bersagli intercettati erano 32.000, da allora il loro numero è aumentato sempre, a un ritmo medio del 23% all’anno. Così in 7 anni, dal 2001 al 2008, sono più che quadruplicati. Forse le intercettazioni sono davvero troppe, a meno di pensare che le esigenze investigative siano anch'esse più che quadruplicate in soli 7 anni. Un secondo dato su cui riflettere è la distribuzione territoriale delle intercettazioni. Comunque la si misuri, la densità delle intercettazioni ha una enorme variabilità territoriale: come è possibile che in un distretto di corte d'appello il rapporto fra bersagli intercettati e procedimenti penali sia 15 volte più alto che in un altro? Possibile che le esigenze investigative siano così diverse da un posto all'altro?
C'è infine l'atteggiamento dell'opinione pubblica. Due sere fa, a Ballarò, Nando Pagnoncelli (presidente della società di sondaggi Ipsos), ha presentato dei risultati molto chiari: la maggioranza degli italiani non vuole che si limiti il potere dei magistrati di ricorrere alle intercettazioni, ma nello stesso tempo è favorevole a limitare la pubblicazione delle intercettazioni sui giornali. A quanto pare gli italiani danno molta importanza alla sicurezza (le intercettazioni non si toccano perché servono a scoprire i colpevoli) ma, quanto alla privacy, pensano che il mezzo più efficace per tutelare la privacy stessa non sia ridurre le intercettazioni, bensì mettere dei paletti alla pubblicazione del loro contenuto sui giornali, in particolare quando coinvolgono persone che non c’entrano.
Tenuto conto di tutto ciò, mi sentirei di proporre una semplice soluzione. La politica si astiene dal modificare i criteri di autorizzazione (tipi di reati, gravità degli indizi) e lascia le cose esattamente come stanno quanto alla definizione del quando si può intercettare e quando no. Nello stesso tempo, però, la politica si prende il diritto di riportare gradualmente il numero totale delle intercettazioni a un livello più ragionevole di quello di oggi (per esempio al livello del 2005, in cui i bersagli intercettati erano poco più di 100 mila, contro i quasi 140 mila attuali).
Come? È semplice: fissando uno stock di intercettazioni nazionale, e affidando al Consiglio superiore della magistratura o a un organismo indipendente il compito di ripartire tale stock fra i 29 distretti giudiziari, in funzione del numero e del tipo di reati tipici di ciascuno di essi. Questa semplice misura, come qualsiasi misura di «razionamento», avrebbe automaticamente effetti di razionalizzazione, perché, in presenza di uno stock limitato di bersagli intercettabili, le procure avrebbero tutto l’interesse a non mettere a repentaglio il proprio potenziale investigativo futuro con autorizzazioni concesse in casi in cui non sono strettamente necessarie. In questo modo la politica garantirebbe ai cittadini una maggiore privacy, grazie alla possibilità di fissare un tetto al numero annuo di intercettazioni. La magistratura, a sua volta, vedrebbe pienamente tutelata la propria autonomia perché manterrebbe il pieno controllo sulla allocazione territoriale della «risorsa scarsa» intercettazioni.
E noi cittadini?
Quanto a noi, forse potremmo prendere sul serio il parere della maggioranza degli italiani, chiaramente espresso nel sondaggio Ipsos. Che la politica metta i bastoni fra le ruote delle procure, restringendo i casi in cui si può intercettare, non ci va, tanto più dopo tutto il marcio che è emerso in queste ultime settimane. Però un po' di prudenza sui giornali non ci dispiacerebbe affatto, e non ci sembrerebbe di per sé una limitazione del nostro sacrosanto diritto di essere informati. I processi sui quotidiani e in tv, condotti con spezzoni di frasi e arditi teoremi di innumerevoli tenenti Colombo improvvisati, non sono vera informazione - scrupolosa, onesta, leale - ma rumore giudiziario, polverone mediatico, inquinamento delle nostre menti.
Certo, vogliamo essere informati, leggere le intercettazioni, capire che cosa è successo, ma non in questo modo, che distrugge la vita di tante persone senza dare a noi nessuna certezza, né politica, né giudiziaria, né umana. Insomma, vogliamo sapere, anche nei dettagli, ma possiamo aspettare un po’. Se una legge votata dal Parlamento dirà che i giornali possono pubblicare quello che vogliono, ma solo dopo una certa fase del procedimento penale (ad esempio l'inizio del dibattimento), ce ne faremo una ragione. L'importante è apprendere la verità, tutta la verità (compresi i testi delle intercettazioni, purché non coinvolgano soggetti estranei al processo), in un tempo ragionevole. Sapere prima, o meglio illudersi di sapere prima, non soddisfa il nostro diritto a essere informati, ma solo la nostra impazienza.
1 commento:
Direi che il dottor Gratteri si è espresso molto bene, ed a parer mio, con cognizione di causa, sul tema delle intercettazioni, proprio poco fa nella trasmissione di Augias. Il libro "la malapianta", un libro da leggere con assoluto interesse. Dopo che avrò letto il tuo.
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