martedì 31 agosto 2010

La scienza triste al capezzale Fiat


di Massimo Roccella

Provvisoriamente eclissatosi nella sfera della politica, il Partito dell’Amore è riemerso in quella delle relazioni industriali, con martellanti annunci sulla fine del conflitto di classe. Lo dice Sergio Marchionne, il ministro Renato Brunetta conferma, dunque bisogna crederci. Strano, però: negli anni ’60, in un’epoca in cui nessuna persona minimamente assennata si sarebbe sognata di dubitare dell’esistenza delle classi (e dei relativi conflitti), negli Usa il rapporto medio fra i compensi dei manager e quelli dei loro dipendenti era di 1 a 24; nel 2006 lo stesso rapporto è risultato di 1 a 257. Nel nostro piccolo, per stare all’esempio della Fiat, si è saputo fare di meglio: la remunerazione di Vittorio Valletta superava di 20 volte quella media dei lavoratori; quella di Marchionne - come non si stanca di ricordare Gad Lerner - si attesta su livelli 435 volte superiori al salario operaio medio.

A chi rammenta questi dati, il ministro Brunetta replica che non è questo il punto. Inutile soffermarsi su questa fastidiosa seccatura della disuguaglianza, se non ci si decide, una buona volta, ad affrontare il nodo di “come si remunera il capitale e il lavoro”. E come bisognerebbe farlo? Va da sé: con la partecipazione, che Brunetta predicava già una ventina d’anni fa.

Quegli slogan che non funzionano

PARTECIPAZIONE: bella parola, atta a rasserenare i cuori, in perfetta consonanza con quest’epoca priva di conflitti. In concreto, però, di che si tratta? Quelli che la propugnano risultano essere decisi sostenitori dello spostamento del baricentro della contrattazione collettiva al livello aziendale: perché solo lì –spiegano– si potrebbero misurare e distribuire meglio gli incrementi di produttività. Nell’applicazione italiana del modello, peraltro, il rischio è che la ricchezza prodotta scompaia con la stessa rapidità del coniglio nel cilindro del prestigiatore. Nel caso Fiat, ad esempio, tanto per non restare nel vago, succede che ai manager siano stati riconosciuti quest’anno cospicui bonus, in ragione del positivo andamento complessivo dell’azienda. Lo stesso non vale per gli operai italiani, perché solo negli stabilimenti del nostro Paese si registrerebbero perdite, tali da non consentire l’erogazione del premio di produzione (la componente aziendale del salario). Falso? Vero? E se anche fosse vero, a chi attribuirne la responsabilità ? Impossibile dirlo: non siamo in Germania, dove i lavoratori dispongono, attraverso i sindacati, di incisivi diritti di controllo sull’andamento dell’impresa, esercitabili nel quadro del sistema della cogestione, tali da rendere il discorso sulla partecipazione lontanissimo dalle fumisterie nostrane. In un paese come il nostro, dove il falso in bilancio è stato omologato a una trascurabile marachella, Brunetta con Raffaele Bonanni (Cisl) e Confindustria invocano all’unisono la partecipazione: sarà un caso?

Al meeting di Rimini Emma Marcegaglia ha evocato con accenti appassionati il modello tedesco. Parlava di cose che conosce? Forse no. Nel sistema tedesco, infatti, non solo il modello partecipativo si presenta con caratteri seri e impegnativi per l’impresa, ma resta comunque fermo il ruolo cruciale della contrattazione collettiva nazionale. Più in generale, è un dato acquisito agli studi di relazioni industriali che i modelli in grado di coniugare meglio sviluppo ed equità sociale sono proprio quelli più centralizzati (Germania e Svezia ne costituiscono gli esempi più significativi). Se non in generale, la contrattazione bisognerebbe modernizzarla almeno nel settore metalmeccanico, dando spazio a un contratto del settore auto (nella sostanza un contratto aziendale tagliato su misura delle richieste di Corso Marconi). Anche perché, come sostiene Tito Boeri (su “Repubblica” del 25 agosto), confortato dalle affermazioni di Pietro Ichino, “l’accordo normativo per i metalmeccanici risale addirittura al 1972”, lasciando intendere che da allora sia rimasto immutato e, dunque, si tratti di un obsoleto ferro vecchio.

La storia riscritta

L’ARGOMENTAZIONE è suggestiva: peccato che non abbia fondamento. Basterebbe conoscerlo il contratto dei metalmeccanici, per evitare di ripeterla. Basterebbe porre a raffronto il testo del 1972 e quello del 2008, anche soltanto limitando l’analisi a due istituti chiave come inquadramenti ed orario di lavoro, per rendersi conto della tanta acqua che è scorsa sotto i ponti. Boeri, però, almeno concede che le sentenze dei tribunali andrebbero rispettate. Michele Boldrin (sul “Fatto” del 29 agosto) neppure questo: essendo riuscito, nello spazio di poche righe, dopo aver attaccato Obama da destra (con argomenti, per intenderci, esattamente opposti a quelli di Paul Krugman), a farci sapere che “il problema non è se la Fiat abbia violato o meno… il dettaglio di una legge... L’ha violato intenzionalmente per comunicare... che tale legislazione... è oggi incompatibile con lo sviluppo economico nazionale”. Tesi ancora più suggestiva di quella di Boeri, se non fosse proprio per un dettaglio: il dettaglio in questione a Melfi è il diritto di sciopero, diritto fondamentale per la nostra costituzione, come per la Carta dei diritti dell’Unione europea (quest’ultima, Boldrin si stupirà, entrata in vigore nel dicembre 2009: ah! la vecchia, incorreggibile Europa). Insomma, per Tremonti sarebbero un lusso insostenibile le regole a tutela della sicurezza sul lavoro, per Boldrin quelle sulla libertà sindacale e il diritto di sciopero: nell’universo etico dei neo-liberisti ce n’è per tutti i gusti. Una volta l’economia veniva definita la scienza triste. Anche qui i tempi devono essere cambiati: perché – diciamo la verità – di fronte a certi assunti scappa proprio da ridere.

massimo.roccella@unito.it

1 commento:

LUIGI A. MORSELLO ha detto...

CIO' CHE HO LETTO FA VENIRE I BRIVIDI E MI CHIEDO QUAL E' L'ECONOMISTA AFFIDABILE NEL SETTORE DELLA SINISTRA. QUESTO ARTICOLO PARLA DA SE'!