NON C’È IL COLPO DEL KO. A RISCHIO ANCHE IL RICORSO ALLA FIDUCIA
di Luca Telese
I due lottatori di sumo urlano, picchiano duro, ma non mollano la presa. Sono sul ring da un tempo che ormai pare infinito, stretti in una reciproca morsa che pare d’acciaio. Urlano e sbuffano, ma nessuno dei due ha la forza per mandare a terra l’avversario.
Il colpo sotto la cintura del contratto e la dichiarazione del ministro di Saint Lucia non hanno messo al tappeto Gianfranco Fini. E la sua contromossa, il videomessaggio in Rete, ha fatto imbestialire il presidente del Consiglio. Lui si aspettava una dichiarazione di resa o le dimissioni. Non è arrivata né la prima e né la seconda cosa. Ma una dichiarazione di guerra. Ecco, mentre si avvicina il giorno del discorso di Silvio Berlusconi alla Camera, sia il presidente di Montecitorio che il premier restano avvinti senza che nessuno riesca a trovare lo spazio per sferrare il colpo di grazia.
Ieri, durante la registrazione di Porta a Porta, il direttore di Libero, Maurizio Belpietro ha detto: “Noi non prendiamo ordini da nessuno. Non si illuda Fini, la nostra inchiesta su Montecarlo continuerà”. E il Giornale che per oggi ha promesso le foto esclusive della cucina acquistata dalla famiglia Fini a Roma e inviata a Rue Princesse Charlotte, fa seguire i fatti alle intenzioni.
Se lo guardate da un altro punto di vista è come se ci fossero due ordigni collegati su due diversi timer. Il timer che minaccia Fini è collegato alle elezioni anticipate. Quello che minaccia Berlusconi è legato allo scudo.
I finiani continuano a ripetere che sono disponibili a votare un provvedimento ad personam per difendere Berlusconi dall’inchiesta. Ma Berlusconi sa bene che questo scudo lo deve portare a casa prima di una eventuale crisi, perché una volta che dovesse lasciare Palazzo Chigi, si dovesse rompere la maggioranza, e Fli dovesse riprendersi la propria autonomia, non ci sarebbe più nessuna garanzia di ottenerlo, anzi. I due lottatori, dunque, sono immobili, e sotto il palco ci sono due cronometri che scandiscono il conto alla rovescia.
IL GIALLO del messaggio. Per capire le ultime mosse, e gli ultimi colpi sotto i riflettori, dunque, bisogna riavvolgere la bobina dell’ultimo weekend. Venerdì le agenzie annunciano che Fini registrerà un messaggio la mattina, che sarà messo in rete tra le undici e mezzogiorno. Alle 10 i due siti su cui dovrebbe apparire il messaggio di Fini crollano per il traffico, ma del presidente della Camera non c’è traccia. Arriva però la notizia che l’ex avvocato leghista Renato Ellero dichiara: “L’appartamento è di proprietà di un mio cliente”. Sembrerebbe una prova a discarico di Fini. Ma a Fli non la prendono così. “Era una polpetta avvelenata – dirà Luca Barbareschi – un modo per indurci a far conto su quella dichiarazione. Ma se qualcuno è aiutato dai servizi, qualcun altro è aiutato da De Gennaro...”. Scenari da film di James Bond, guerre istituzionali sotterranee, conflitto fra poteri. Accade di tutto, e la registrazione slitta fino alle sei e un quarto. Dagospia scrive che è perché si cerca un gobbo elettronico. I finiani che si trovano a Roma, per un pomeriggio hanno tutti i telefonini spenti. È solo un caso? Di sicuro il messaggio di Fini viene rimodulato più volte. Apparentemente lancia una proposta di tregua, e ventila l’ipotesi delle dimissioni, nel caso arrivasse “la prova certa” che la casa è di Giancarlo Tulliani.
DIMISSIONI? Ieri mattina su La Stampa, con enorme risalto, un retroscena firmato da Fabio Martini dice che Fini medita davvero di lasciare Montecitorio. Passano pochi minuti e sulle agenzie si leggono vibranti smentite dei finiani. In realtà l’ipotesi divide le due anime di Fli. Dove paradossalmente i “falchi” preferirebbero un Fini con le mani libere, che, privato degli obblighi istituzionali, possa costruire liberamente il partito e portare i suoi a un appoggio esterno. In realtà Fini ha fatto un passo diverso. Vincolando il suo gesto a una prova certa, si è legato allo scranno più alto della Camera fino a che una prova certa non dovesse arrivare. Quindi resta. Un piede dentro e uno fuori, obbligato a proseguire la sua guerriglia.
FIDUCIA O MOZIONE? Ancora più complicata è la partita che si gioca a Palazzo Chigi. Berlusconi si aspettava che Fini gettasse la spugna. E ha detto e ripetuto che voleva un voto di fiducia. Adesso, la sola idea di riconoscere e certificare, di fatto, con un voto parlamentare, il fatto che la sopravvivenza del suo governo dipende da Fini lo manda in bestia. Ecco perché allo stato attuale l’unica cosa certa è rimasta il suo discorso, ma il voto è già più dubbio, forse sarà una mozione, o forse addirittura una risoluzione. Come mai?
Non si tratta solo di un problema simbolico. Infatti con le ultime due forme di voto sarebbe più facile incassare i voti sparsi, una sorta di “fiducia soft”, dalle aree incerte dell’opposizione, come il partito di Lombardo e qualche udicino ribelle a Casini. Berlusconi vuole a tutti i costi che il numero dei sì al suo governo superi quota 330 dopo le brutte figure (a voto segreto) sull’autorizzazione all’uso delle intercettazioni per Cosentino.
MELINA. Ma quando si arriva alle tattiche parlamentari nessuno è abile come Italo Bocchino. Il capogruppo dei finiani ieri ha detto e ripetuto che nulla può essere gratis: “Se c’è una mozione noi la dobbiamo discutere, prima di votarla. Il discorso non può essere frutto di un rapporto esclusivo con la Lega. Altrimenti non daremo i nostri voti”. E poi: “Non si è mai visto che due delle tre gambe propongano un documento mentre l’altro pezzo legge, sente e vota”. In serata, però arriva il comunicato delle “colombe” finiane che dissentono da Bocchino, pur senza nominarlo: “Assistiamo, ancora una volta, ad esternazioni che lasciano perplessi – dichiarano in una nota congiunta i parlamentari Mario Baldassarri, Roberto Menia, Silvano Moffa e Pasquale Viespoli - le dichiarazioni e le valutazioni espresse da taluni esponenti di Futuro e libertà per l'Italia rappresentano personali prese di posizione, trattandosi di scelte non preventivamente discusse e decise nell'ambito dei rispettivi gruppi parlamentari”. Eppure a Palazzo Chigi, qualcuno teme che sia un gioco delle parti. “Io sono un’aquila” sorride Adolfo Urso, uno dei pochi, che in questo gioco di specchi, la sa lunga.
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