NON C’È PIÙ OBBLIGO DI GARA SOTTO IL MILIONE DI EURO
di Eduardo Di Blasi
Immaginate di vivere in un Paese scandinavo. Uno di quelli dove l’amministrazione della cosa pubblica funziona, dove non si hanno notizie di scandali politici di un qualche peso. E pensate che una legge come quella approvata in Parlamento un paio di settimane fa, a seguito della manovra economica, fosse stata fatta, ad esempio, in Danimarca o in Finlandia. La nuova norma dice che le amministrazioni pubbliche potranno affidare, senza obbligo di gara, appalti che non eccedano la cifra di un milione di euro. Vale a dire che se una amministrazione pubblica (scandinava) dovesse ristrutturare una scuola, costruire una piccola strada, asfaltare una piazza e la spesa stimata fosse sotto il milione di euro, potrà chiamare direttamente la ditta (scandinava) e affidarle l’appalto.
ECCO, ADESSO spostiamoci nel nostro Paese. E immaginiamo che questa legge, parte della manovra economica approvata in fretta e furia da Camera e Senato nelle scorse settimane, sia invece diventata realtà nell’Italia delle cricche, degli orologi preziosi e delle escort portati in dono a politici e funzionari per ingraziarsene i favori.
Con un tratto di penna i nostri legislatori hanno raddoppiato il limite entro cui si era obbligati a indire una gara pubblica. Questo limite, 500 mila euro, era stato fissato appena un paio d’anni fa. Quanti sono gli appalti sopra un milione di euro nel nostro Paese? Pochissimi.
Walter Schiavella, che è segretario generale della Fillea, gli edili della Cgil, tra i primi si è battuto perché la norma non entrasse nella manovra. Ma la semplificazione del dibattito politico sul testo, con la corsa all’approvazione con il fiato sul collo della speculazione finanziaria, ha fatto perdere peso anche alle critiche più motivate.
Il dato resta però impressionante : “L’80% degli appalti pubblici – afferma Schiavella carte alla mano (in parte le pubblichiamo in questa pagina ndr) – è per cifre inferiori al milione di euro”. La norma, quindi, ha un effetto pratico immediato che è quello per cui la politica, da sola, vale a dire senza valutare il progetto o il prezzo migliore, può decidere chi lavora e chi non lavora in Italia. Diventa una scelta autonoma, legale, dei governi di città, province, regioni, asl. Una scelta con ogni evidenza soggetta ai “corteggiamenti” delle imprese che devono lavorare per continuare a sopravvivere.
QUESTO, PERÒ, segnala Schiavella, è solo il primo effetto negativo per un settore, quello edile, che nella crisi “ha perso il 20% rispetto al Pil”. Una cifra enorme anche se paragonata al periodo del dopo-tangentopoli “in cui – ricorda il segretario Fillea – si perse il 9,6%”. Questo, dunque, è il quadro da cui si parte: aziende in sofferenza, grandi appalti pubblici al lumicino (“il fondo unico per le infrastrutture segna 250 milioni per il 2012, 500 per il 213 e 800 per il 2014”), regole difficili da far rispettare. L’unico mercato ancora ricco resta quello delle cosiddette “emergenze”, che agisce, ricorda Schiavella, sempre con leggi in deroga (le inchieste sulla cricca attengono proprio al rapporto tra questi pubblici ufficiali e gli imprenditori aggiudicatari delle opere pubbliche).
PER IL RESTO si assiste a un mercato per cui il 10% dei costruttori ottiene oggi in Italia il 28% degli appalti pubblici e ad una preoccupazione che è apparsa evidente a tutti gli addetti ai lavori ma non ai legislatori. La preoccupazione riguarda il tessuto produttivo degli edili nel nostro Paese: “Se non vanno avanti le imprese che meglio possono reggere il confronto con il mercato, ma quelle che hanno legami più o meno leciti con la politica – attacca Schiavella – non sarà un bene per l’economia. Soprattutto se queste imprese ‘scorrette’ abbiano legami con i gruppi della malavita organizzata”. Pensiamo al movimento terra o all’intero ciclo del cemento. Ultima preoccupazione: se l’unico discrimine per ottenere un appalto pubblico è avere un buon rapporto con il politico di turno, a chi importerà più della qualità del prodotto finale?
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