giovedì 30 aprile 2009

Democrazia con l'elmetto


30/4/2009
MICHELE AINIS

Nel condominio delle nostre istituzioni si sta aprendo una stagione di conflitti. Le avvisaglie sono chiare, benché ancora nessuno abbia sparato il primo colpo di fucile. Sono altrettanto chiari i due fronti contrapposti su cui si dispongono i condomini: da un lato gli organi di garanzia; dall’altro lato gli organi politici. Sul primo fronte è acquartierata, da Tangentopoli in avanti, la magistratura; e infatti il rapporto fra politica e giustizia indica un nodo irrisolto della nostra vita pubblica. Ma più di recente vi si è aggiunto il tribunale costituzionale, dopo la sentenza che ha preso a morsi la legge sulla fecondazione assistita.
Senza troppi giri di parole, la maggioranza ha salutato questa decisione come una ferita alla democrazia. Se è così, avremo altre ferite da medicare nel prossimo futuro, quando la Consulta s’occuperà del lodo Alfano o del testamento biologico. Anche perché al suo fianco va prendendo posizione un organo di garanzia politica qual è il presidente della Camera, che a giorni alterni spedisce un altolà al governo. E soprattutto si profila una maggiore intransigenza del Capo dello Stato. Dopo il caso Englaro, Napolitano ha moltiplicato le critiche contro l’uso troppo disinvolto dei decreti, contro l’eccesso dei voti di fiducia, in ultimo - nel discorso di Torino - contro un rischio autoritario nel nostro orizzonte collettivo. Certo, l’esecutivo può reagire minimizzando, facendo orecchie da mercante: per l’appunto la strategia esibita in quest’ultima occasione. Tuttavia il presidente può a sua volta trasformare la moral suasion nell’esercizio specifico e puntuale dei propri poteri di veto, per esempio rinviando alle Camere le leggi di conversione dei decreti. E allora i contendenti avranno un elmetto da indossare, dalle buone maniere passeranno alle maniere forti.

Un oroscopo infausto? Dipende dal giudizio sulla vecchia idea di Montesquieu: quella di separare i poteri e le funzioni, di distinguere la decisione dal controllo. In Italia è un’idea in crisi ormai da tempo, da quando alla separazione si è via via sostituita l’integrazione delle competenze. Ci ha messo del suo pure la Consulta, elaborando il canone della «leale collaborazione» fra i diversi attori della cittadella burocratica. Ovviamente c’è del giusto, perché un aereo cade a picco se il pilota non dialoga con il copilota. Ma c’è anche un pericolo, in primo luogo perché se tutti fanno tutto non saprai mai a chi chiedere conto dei misfatti. E in secondo luogo perché la logica dell’integrazione può risolversi - e spesso si risolve - nel predominio del più forte.
È accaduto con l’esperienza regionale, e sta proprio in ciò la causa del suo fallimento. Nel 1947 i costituenti scolpirono un modello che divideva con un colpo d’accetta le attribuzioni statali e regionali. Nel 1970, quando finalmente le regioni si presentarono ai nastri di partenza, trovarono il circuito già occupato dalle autoblu ministeriali. Furono perciò costrette a montare sul sedile posteriore, e da allora in poi si sprecano i progetti di riforma. Ma è accaduto, per fare un altro esempio, riguardo al potere di grazia. Per sessant’anni esercitato in condominio dal Capo dello Stato e dal governo, anzi riservando al primo un ruolo puramente notarile. Finché Ciampi non ha sollevato un conflitto dinanzi alla Consulta, che a propria volta ne ha sancito definitivamente le ragioni.

Ecco, i conflitti. La logica dell’integrazione - delle competenze e dei poteri - porta in ultimo alla sedazione dei conflitti. E infatti non c’è più distinzione né frizione tra il legislativo e l’esecutivo, l’uno è protesi dell’altro. Non c’è laicità, non c’è separazione tra sfera pubblica e sfera religiosa, da quando è crollato il «muro» fra Stato e chiese di cui parlava Thomas Jefferson. Non c’è neppure un referendum oppositivo in mano ai cittadini, da quando l’astensionismo lo ha disinnescato. Ma i conflitti sono il sale delle democrazie, sono la via obbligata per restituirvi responsabilità e chiarezza. Non a caso l’istituto del conflitto fra i poteri è un asse portante dello Stato di diritto. E d’altronde l’alternativa si chiama organicismo, si chiama populismo, consiste nell’unità fittizia della cittadinanza che parla solo attraverso la voce del suo Capo. No, non dobbiamo aver paura dei conflitti. Preoccupiamoci piuttosto di non prendere troppi sedativi.

michele.ainis@uniroma3.it

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