giovedì 31 luglio 2008


Roberto Petrini
La Repubblica
30 luglio 2008
L'Italia perde la via dei satelliti fuori da un mercato di 8,5 miliardi

ROMA - Satelliti? Non è affar nostro. Dopo la chimica e la siderurgia che videro l'Italia in prima linea nell'innovazione e qualche decennio dopo in prima linea nello smantellamento a favore di capitali e aziende straniere, anche lo spazio ci riserva brutte sorprese. Se si scruta attentamente il cielo la bandiera tricolore è scomparsa: delle 34 compagnie private che gestiscono 261 satelliti commerciali, nemmeno una è a capitale italiano. Attenzione, non parliamo dei satelliti militari e di quelli adatti alla protezione civile che la nostra Agenzia spaziale manda in orbita: apparecchi che volano a 400 chilometri di altezza e servono a fotografare terremoti e a tenere sotto controllo gli tsunami. In questo campo ci salviamo.

Ma dal mega business dei satelliti geostazionari che orbitano tra la terra e la luna a 36 mila chilometri di altezza, che sono in grado di trasferire miliardi i segnali televisivi e che si stanno attrezzando anche per trasmettere dati Internet, siamo fuori. Un mercato che cresce in modo esponenziale, che già presenta un giro d'affari di 8,5 miliardi di dollari e che interessa 75 milioni di consumatori.

Qui i grandi sono grandi sul serio: la maggiore compagnia del mondo, americana in origine, la Ses Global oggi è controllata da una finanziaria a capitale lussemburghese, spagnolo e belga: ha nel cielo 30 satelliti e fa ricavi per 1 miliardo e mezzo di dollari l'anno. Gli americani si sono tenuti la Intelstat, la seconda al mondo con 28 satelliti in orbita e un fatturato di oltre un miliardo di dollari.

Sono big, non c'è che dire. Tuttavia se si scorre la lista del cielo ci si accorge che al satellite non ha rinunciato nessuno, anche i paesi minori. Motivi strategici o altro. Così la società turca, Turksat, ha due satelliti geostazionari in orbita, la Spagna ha la sua Hispasat con sei satelliti, la Svezia, la Norvegia, l'Olanda e l'Egitto non sono da meno. Senza contare arabi, cinesi e brasiliani. Tutti hanno il proprio satellite.

E l'Italia? Un po' come accade per il Moplen di Giulio Natta, gli esordi del nucleare e i prototipi dei computer, anche con il satellite fummo i primi in Europa: era il 1964 e il gruppo creato all'Università di Roma da Luigi Broglio sparò nello spazio il San Marco 1, prima c'erano riusciti solo russi e americani. Ma poi le cose andarono diversamente: la Stet, attraverso Telespazio, insieme ad altri gruppi europei, costituì Eutelsat, che oggi è diventato il terzo gigante dei geostazionari al mondo con un fatturato di circa 900 milioni di dollari e con 24 satelliti in orbita. Ma quando la Stet fu trasformata in Telecom e passò nelle mani di Tronchetti Provera la storia dei satelliti italiani arrivò al capolinea: nel 2001 il 20,4 per cento di Eutelsat - attualmente di proprietà franco-iberica - fu venduto alla Lehman Brother. Ed oggi nessun capitale italiano sta nel business di "quota 36 mila".

Occasioni perse? Nei bar ci si lamenta che le Olimpiadi di Pechino, si potranno vedere in alta definizione (tecnologia permessa solo dal satellite) solo un paio di ore al giorno in Rai in alcune determinate zone oppure, a pagamento, su Sky. Sarebbe andata diversamente se avessimo avuto un nostro satellite? Difficile dirlo, ma su questo punto i tecnici preferiscono sfumare. Quello che è certo che anche il business del momento, l'Internet satellitare (una piccola parabola, un computer e un modem per connettersi anche dalla cima di una montagna) sta sfumando sotto i nostri occhi a tutto vantaggio delle grandi holding internazionali. Un peccato, perché si tratta di un settore assai promettente, come confermano i dati di Euroconsult, che prevede una crescita esponenziale di satelliti per la banda larga: da qui al 2011 raddoppieranno. Ma l'occasione per un satellite italiano a 36 mila metri forse non tornerà più.

COMMENTO

La deriva è inarrestabile.





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