lunedì 22 settembre 2008

PUBBLICO IMPIEGO: PERMANENZA FINO A 70 ANNI. UNA LEGGE ALL’ITALIANA


Luigi Morsello*

La pubblicazione sulla G.U. 28 maggio 2004 n. 124 del D.L. 28 maggio 2004 n. 136, convertito, con modifiche, nella legge 28 luglio 2004 n. 186, sembrava privo di interesse per il Pubblico Impiego.
In sede di conversione sembrò accadere un raro esempio di buona legiferazione. Infatti, in sede di conversione fu introdotto l’art. 1 quater, che aggiungeva al comma 1 dell’art. 16 del d. lgv. 503/92 alcuni periodi, per effetto dei quali veniva introdotto nell’ordinamento giuridico italiano il principio della permanenza nel pubblico impiego dei dipendenti che avessero raggiunto il limite di età (65 anni), chiesto la permanenza ‘ope legis’ per un altro biennio, di chiedere di restare ancora tre anni, fino al compimento del 70° anno di età.
Ovviamente, il legislatore non generalizzava la facoltà di permanenza, come aveva, invece, fatto quello del 1992, né la rendeva automatica (‘ope legis’) come il precedente legislatore. Anzi, prevedeva la facoltà di concessione o di diniego della P.A. e legava la concessione al possesso di “particolare esperienza acquisita dal richiedente in determinati o specifici ambiti”.
Questo criterio sembrava del tutto naturale e connaturato alla riconosciuta opportunità di trattenere in servizio dipendenti pubblici:
- in possesso di una consolidata esperienza lavorativa, che si raggiunge (non è un paradosso) proprio al culmine della propria permanenza in servizio,
- tenendosi, anche, conto del prolungamento della vita e dell’età media del cittadino italiano.
Non erano estranee al pensiero del legislatore preoccupazioni, più che legittime, dello stato dei conti della previdenza, mentre contestualmente veniva varata una riforma del sistema delle pensioni, pubbliche e private.
Dunque, un plauso al legislatore illuminato sarebbe stato più che legittimo.
Chi l’avesse fatto (il plauso) avrebbe cambiato rapidamente la propria opinione.
Infatti, la legge, difformemente da quella del 1992, cui aggiungeva ‘alcuni periodi’, da una parte non prevedeva la prosecuzione senza interruzioni del rapporto di lavoro, dall’altra introduceva limitazioni, richiamando per l’applicazione alcune precedenti disposizioni di legge:
1) l’art. 39, comma 2, della legge 27 dicembre 1999 n. 449;
2) l’art. 34, comma 22, della legge 27 dicembre 2002 n. 289;
3) l’art. 33, commi 53 e 69 della legge 24 dicembre 2003 n. 350.
L’alinea finale della legge concludeva:
“I periodi di lavoro derivanti dall'esercizio della facoltà di cui al secondo, terzo e quarto periodo del presente comma non danno luogo alla corresponsione di alcuna ulteriore tipologia di incentivi al posticipo del pensionamento né al pagamento dei contributi pensionistici e non rilevano ai fini della misura del trattamento pensionistico".

Destava particolare perplessità, ad una prima lettura della norma, la puntualizzazione che non derivava, dall’esercizio della facoltà di concedere la permanenza in servizio fino al 70 ° anno di età, il diritto “alla corresponsione di alcuna tipologia di incentivi al posticipo del pensionamento”.
La perplessità era dovuta al fatto che, pur comprendendo le preoccupazioni del legislatore, non v’era alcuna necessità di inserire nel testo della legge questa precisazione, che sembrava troppo timorosa di estensioni per analogia di quanto nel settore del lavoro dipendente privato veniva previsto nel medesimo periodo temporale.
In quel tempo erano previsti incentivi per fare opera di persuasione, sui lavoratori dipendenti privati, a permanere in servizio ancora due anni oltre il limite della pensione di vecchiaia (65 anni). Vale la pena di ricordare quali fossero questo incentivi:
a) il datore di lavoro privato versava i contributi previdenziali direttamente nella busta paga del dipendente,
b) il quale non versava i propri contributi previdenziali,
c) mentre l’erogando trattamento pensionistico sarebbe stato erogato al termine dei due anni di ulteriore permanenza al lavoro.
A questo punto il legislatore si esibiva in uno strano contorsionismo.
Non soddisfatto di avere introdotto la precisazione appena riportata, aggiungeva anche che la concessione (a permanere in servizio fino a 70 anni) non dava luogo “al pagamento dei contributi pensionistici”, ovviamente a carico sia del datore di lavoro pubblico sia del pubblico dipendente, con ciò introducendo di fatto un incentivo mascherato (i contributi non più dovuti dal lavoratore dipendente), che aveva appena prima escluso categoricamente per entrambi (datore di lavoro e lavoratore dipendente pubblico).
La contraddizione, solo apparente, era dovuta alla circostanza che subito dopo il legislatore statuiva che i tre anni di permanenza oltre il limite “non rilevano ai fini della misura del trattamento pensionistico”.
Insomma, il legislatore del settore del lavoro pubblico si appiattiva sul legislatore del settore del lavoro privato nella legiferazione in materia di lavoro dipendente privato, peggiorandola.
Non ve n’era alcuna necessità. Anzi, è stato addirittura inopportuno.
Se la ‘ratio’ della legge, se l’intento del legislatore era quello di:
a) procrastinare il pensionamento dei pubblici dipendenti, che, avendo chiesto la permanenza in servizio fino al 67°anno di età, avevano dimostrato particolare impegno ed attaccamento al proprio lavoro,
b) sgravare il gestore previdenziale del pagamento della pensione al compimento del 67° anno di età,
c) bloccare il rateo di pensione per tre anni,
d) far lucrare all’ente previdenziale pubblico gli interessi per altri tre anni sulle somme accantonate per tutto il periodo lavorativo,
e) inchiodare il trattamento pensionistico al maturato del 67°anno di età,
di ciò si doveva ampiamente accontentare, anzi, sarebbe stato obbligatorio accontentarsi, come di seguito si chiarisce.
Tratteneva in servizio i dipendenti più votati al lavoro, più esperti, più competenti: perché introdurre le limitazioni di cui alle tre leggi sopra riportate ?
È bene chiarire il contenuto di tali norme:
1) art. 39, comma 2, legge 449/97: contiene, fra le altre, disposizioni in materia di assunzioni di personale, finalizzate ad una riduzione programmata dei pubblici dipendenti, mediante il controllo del “turn-over”, nella misura dell’1% per l’anno 1998 - rispetto all’anno1997 – e non inferiore allo 0,5% per l’anno 1999;
2) art. 34, comma 22, legge 289/02: contiene analoghe previsioni di riduzione di organico non inferiore all’1% rispetto al 2003 e per gli anni 2004-2005;
3) art. 33, commi 53 e 69 legge 350/03: introduce il divieto assoluto di assunzioni di personale per l’anno 2004; reitera la riduzione dell’1% del personale presente nell’anno 2004, e lo fa per gli anni 2005-2006.
Beninteso, lo scopo è sempre quello di ridurre la spesa pubblica per i pubblici dipendenti, mediante interventi sul ‘turn-over’.
Ma ciò che risulta incomprensibile è il motivo per il quale:
- da una parte è stato previsto un prolungamento del rapporto lavorativo, con le finalità già richiamate;
- dall’altra parte lo scopo cui tende la norma viene vanificato dalla subordinazione dell’accoglimento, della richiesta di permanenza ulteriore di tre anni:
1) non solo al divieto di incentivi (salvo quello minimo mascherato delle ritenute previdenziali a suo carico, non più dovute), in difformità di quanto previsto per il lavoro subordinato privato;
2) non solo a valutazioni di merito insindacabili;
3) ma anche al rispetto di quella legislazione di riduzione degli organici, sopra richiamata.
Quest’ultimo punto appare del tutto illogico e contraddittorio, per diversi motivi.
Un primo motivo è individuabile nel presumibile ridotto numero di dipendenti stacanovisti del lavoro, i quali non solo restano per i primi due anni ma poi prolungano la propria attività lavorativa per altri tre anni, questi ultimi a condizioni decisamente poco vantaggiose se non del tutto svantaggiose, eccetto che per lo Stato.
Un secondo motivo è dato dal rendimento, decisamente superiore, che tali dipendenti avrebbero continuato ad assicurare allo Stato.
Un ulteriore, forse non ultimo, motivo va individuato nella situazione di conti del gestore previdenziale.
Il risultato è stato che l’impatto della nuova legge, per impreparazione soprattutto delle amministrazioni dello Stato che non avevano aggiornato e non aggiornano tempestivamente i piani triennali delle nuove assunzioni, è del tutto insignificante.
Nell’amministrazione penitenziaria si ha notizia di due soli trattenimenti in servizio, uno al Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, l’altro al vertice del Provveditorato Regionale di Roma.
La cronaca riferiva poi episodi sconcertanti, di dipendenti trattenuti i servizio e poi successivamente ‘licenziati’ e, addirittura, di altissimi dirigenti dello Stato non confermati per ‘mancanza di fondi in bilancio’.
Soprattutto, la disposizione attuativa del Dipartimento della Funzione Pubblica (circolare n. 5/05 del 9.12.2004) nell’affermare: “Si ricorda la responsabilità dirigenziale degli atti posti in essere in violazione delle norme sulla programmazione”, ha scoraggiato praticamente tutti i dirigenti preposti al servizio del personale, che hanno preferito non correre rischi, rigettando praticamente tutte le istanze.
Un incredibile episodio di “terrorismo amministrativo”.
*Ispettore generale dell'Amministrazione penitenziaria

Lodi, lì 20 settembre 2008


AGGIORNAMENTO

Se l'anonimo commentatore avesse esplicitato meglio il proprio pensiero sarebbe stato più agevole rispondere.
Il comma 3 del D.L. 223/2006 recita: "I limiti di età per il collocamento a riposo dei dipendenti pubblici risultanti anche dall'applicazione dell'articolo 16, comma 1, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503 , si applicano anche ai fini dell'attribuzione degli incarichi dirigenziali di cui all'articolo 19, comma 6, del citato decreto legislativo n. 165 del 2001.".
L'art. 16 (Prosecuzione del rapporto di lavoro), comma 1 cit. recita:" 1. È in facoltà dei dipendenti civili dello Stato e degli enti pubblici non economici di permanere in servizio, con effetto dalla data di entrata in vigore della legge 23 ottobre 1992, n. 421, per un periodo massimo di un biennio oltre i limiti di età per il collocamento a riposo per essi previsti. In tal caso e' data facolta' all'amministrazione, in base alle proprie esigenze organizzative e funzionali, di accogliere la richiesta in relazione alla particolare esperienza professionale acquisita dal richiedente in determinati o specifici ambiti ed in funzione dell'efficiente andamento dei servizi. La domanda di trattenimento va presentata all'amministrazione di appartenenza dai ventiquattro ai dodici mesi precedenti il compimento del limite di eta' per il collocamento a riposo previsto dal proprio ordinamento."
L'articolo 72, comma 7 del D.L. 25 giugno 2008, n.112, prevede che "In tal caso e' data facolta' all'amministrazione, in base alle proprie esigenze organizzative e funzionali, di accogliere la richiesta in relazione alla particolare esperienza professionale acquisita dal richiedente in determinati o specifici ambiti ed in funzione dell'efficiente andamento dei servizi. La domanda di trattenimento va presentata all'amministrazione di appartenenza dai ventiquattro ai dodici mesi precedenti il compimento del limite di eta' per il collocamento a riposo previsto dal proprio ordinamento.".
Va osservato che l'originaria formulazione della norma (art. 16 comma 1 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503) non conferiva alle amministrazioni dello Stato una facoltà ma un obbligo di accoglimento.
La seconda parte dell'art. 16, comma 1, d. lgv. 503/1992, così come modificata dall'art. 1 Quater del D.L. 28 maggio 2004 n.136, a sua volta recita: " È inoltre data facoltà ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, con esclusione degli appartenenti alla carriera diplomatica e prefettizia, del personale delle Forze armate e delle Forze di polizia ad ordinamento militare e ad ordinamento civile, del personale del Corpo nazionale dei vigili del fuoco, di richiedere il trattenimento in servizio fino al compimento del settantesimo anno d'età. In tal caso è data facoltà all'amministrazione, in base alle proprie esigenze, di accogliere la richiesta in relazione alla particolare esperienza professionale acquisita dal richiedente in determinati o specifici ambiti, in funzione dell'efficiente andamento dei servizi e tenuto conto delle disposizioni in materia di riduzione programmata del personale di cui all' articolo 39, comma 2, della legge 27 dicembre 1997, n. 449, e successive modificazioni, nonché all'articolo 34, comma 22, della legge 27 dicembre 2002, n. 289, ed all'articolo 3, commi 53 e 69, della legge 24 dicembre 2003, n. 350. Le amministrazioni, inoltre, possono destinare il dipendente trattenuto in servizio a compiti diversi da quelli svolti. I periodi di lavoro derivanti dall'esercizio della facoltà di cui al secondo, terzo e quarto periodo del presente comma non danno luogo alla corresponsione di alcuna ulteriore tipologia di incentivi al posticipo del pensionamento nè al pagamento dei contributi pensionistici e non rilevano ai fini della misura del trattamento pensionistico."
Si tratta, è di tutta evidenza, di un rapporto di lavoro del tutto autonomo da quello di provenienza, tant'è che non rileva ai fini della misura del trattamento pensionistico.
La stessa disciplina si applica " anche ai fini dell'attribuzione degli incarichi dirigenziali di cui all'articolo 19, comma 6, del citato decreto legislativo n. 165 del 2001."
Riassumendo, il pubblico dipendente può chiedere il trattenimento in servizio per ulteriori anni 2 dopo il compimento del 65° anno età, da 24 a 12 mesi prima dell'età 'canonica' della pensione.
L'amministrazione di appartenenza ha facoltà di accogliere tale domanda.
Al compimento del 67° di età per trattenimento (oggi facoltativo) in servizio per altri 2 anni, il pubblico dipendente può chiedere di continuare il proprio servizio per altri 3 anni, in incarichi di natura diversi da quelli espletati fino ad allora.
Il personale dirigente, a sua volta, può superare il limite del 65° anno di età con le stesse modalità del restante personale dipendente.
Raggiunto il 67° anno di età il suddette personale può, a mio giudizio, essere trattenuto in servizio per altri tre anni, in prosecuzione degli incarichi conferiti con contratto individuale di lavoro di cui ai commi 1 e 5 dell'art. 19 del d. lgv. 30 marzo 2001, n. 165, secondo le modalità del successivo comma 6.
L'argomento trattato attiene alla fattispecie di personale direttivo collocato a riposo al compimento del 67° anno di età e che ha svolto incarichi di reggenza per almeno 5 anni.
Tale personale, alla stregua della giurisprudenza della Corte dei conti cit. può essere richiamato in servizio per incarichi di natura dirigenziale della durata da 3 a 5 anni a prescindere dal limite di età.

Lodi, 11 giugno 2009

1 commento:

LUIGI A. MORSELLO ha detto...

Ma che bella pensata fece il governo Berlusconi III, che, come al solito, si rivelò una autentica fregatura.
Amministratori accorti ne avrebbero potuto trarre profitto, ma, come dice Don Abbondio: "Il coraggio uno se non ce l'ha non se lo può dare".
Parole sacrodante.